L'"Ultima cena" di Tintoretto, 1592-1594, Basilica di San Giorgio Maggiore, Venezia
«L’amicizia è la gloria di chi è ricco, la patria di chi è in esilio, la ricchezza di chi è povero, la medicina di chi è malato, la vita di chi è morto, la grazia di chi è sano, la forza di chi è debole, il premio di chi è forte». Così il monaco cistercense Aelredo di Rievaulx definisce l’amicizia nella sua famosa operaL’amicizia spirituale (II,14), inserendosi in una lunga tradizione, prima classica e poi cristiana, che ha trattato questo tema.
La dimensione dell’amicizia, infatti, come profilo alto delle relazioni umane e della vita sociale è stata approfondita fin dall’antichità da autori come Aristotele nell’Etica Nicomachea, Cicerone nel Laelius De amicitia, e successivamente da diversi Padri della Chiesa, tra cui Ambrogio, Agostino e Girolamo. Anche la Scrittura si interessa dell’amicizia: dai libri sapienziali, soprattutto Proverbi e Siracide, fino ad arrivare a Gesù, che nel Vangelo secondo Giovanni definisce “amicizia” la relazione tra lui e i suoi discepoli.
La relazione di amicizia, dunque, da sempre ha stimolato la riflessione di grandi autori ed è una categoria chiave per comprendere a quale tipo di comunità umana pensava Gesù, quando ha radunato attorno a sé i discepoli e ha cominciato a camminare con loro.
L’enciclica di papa Francesco Fratelli tutti ha proposto l’amicizia sociale come categoria per reagire alle difficoltà del presente e costruire comunità a partire da quel legame che può riattivare connessioni sane e generative di umanità buona. L’amicizia è una risposta alla crisi della fiducia generata da eventi traumatici, come le ferite della pandemia e le incognite della guerra in Ucraina, ma è anche una categoria con la quale leggere il processo sinodale che la Chiesa sta attraversando.
La domanda che ci poniamo in questo contributo è: tenendo conto del valore personale, sociale ed etico che fin dall’antichità l’essere umano ha riconosciuto al legame amicale, in che modo l’amicizia a cui anche Gesù invita può aiutarci a restituire senso e gusto al nostro vivere insieme, civile ed ecclesiale, in un tempo di crisi della fiducia? Per provare a rispondere, ci lasciamo accompagnare dalla Scrittura, e particolarmente dal brano di Giovanni 15,12-17 (cfr il riquadro qui sotto), che raccoglie le parole di Gesù riguardanti proprio l’amicizia.
Il discorso dell’Ultima cena
Il contesto remoto di questo brano sono i capitoli 13-17: un lungo discorso di Gesù ai suoi durante una cena, prima della festa di Pasqua (Giovanni 13,1). Non è una cena qualsiasi: è l’ultima volta in cui Gesù si ritrova con i suoi discepoli prima della sua cattura. Il suo discorso è un addio, con caratteristiche proprie: avviene in un clima di intimità come il momento del pasto, accompagnato dal gesto – anche questo molto intimo – della lavanda dei piedi; il vocabolario dell’amore è presente in modo preponderante con i termini agape/agapao (amore, amare) e philos (amico, caro), che ricorrono in totale 35 volte; c’è una forte partecipazione affettiva di Gesù in quello che dice ai suoi, quando prova sia profondo turbamento (13,21) sia gioia intima (15,11).
Giovanni 15,12-17
12Questo è il mio comandamento: che vi amiate gli uni gli altri come io ho amato voi. 13Nessuno ha un amore più grande di questo: dare la sua vita per i propri amici. 14Voi siete miei amici, se fate ciò che io vi comando. 15Non vi chiamo più servi, perché il servo non sa quello che fa il suo padrone; ma vi ho chiamato amici, perché tutto ciò che ho udito dal Padre mio l’ho fatto conoscere a voi. 16Non voi avete scelto me, ma io ho scelto voi e vi ho costituiti perché andiate e portiate frutto e il vostro frutto rimanga; perché tutto quello che chiederete al Padre nel mio nome, ve lo conceda. 17Questo vi comando: che vi amiate gli uni gli altri.
In questo discorso, pronunciato in un momento estremo della sua vita, Gesù dice ai suoi discepoli le cose più importanti, ciò che per lui ha racchiuso il senso della sua esistenza e che ora consegna a loro come una perla preziosa: il senso e il gusto di una vita vissuta in pienezza nell’amore, che lui ha sperimentato e al quale è rimasto fedele fino alla fine. Avendo amato i suoi che erano nel mondo, li amò fino alla fine (13,1); è il suo testamento spirituale, con il quale non lascia in eredità delle “cose”, ma lascia se stesso; è il supremo e definitivo insegnamento di Gesù, che nel gesto della lavanda dei piedi legge globalmente la sua vita come servizio, cioè come agape, amore che dona vita, e invita i suoi a continuare a seguirlo nello stesso servizio e nella stessa agape. È questo il senso della Cena e dell’istituzione dell’Eucaristia, che Giovanni non racconta, sostituendola con la lavanda dei piedi.
Nella stessa linea, possiamo ritenere l’invito di Gesù Fate questo in memoria di me del parallelo lucano del racconto della Cena (Luca 22,19) non solo in riferimento al memoriale della celebrazione eucaristica, ma come un invito ad assumere nella vita la medesima intenzionalità di Gesù, quella di un amore “fino alla fine”, di un “dare vita” sempre, nell’amare e nel servire, secondo ciò che poi è la piena maturità umana dell’amore. Questa, per Gesù, è gioia piena, la fioritura piena dell’umano secondo il suo fine più autentico: Vi ho detto queste cose perché la mia gioia sia in voi e la vostra gioia sia piena (Giovanni 15,11).
Il contesto prossimo, invece, è quello del cap. 15 di Giovanni, con l’immagine della vite, che rimanda alla metafora della vigna, presente fin dall’Antico Testamento per parlare del rapporto tra Dio e il popolo d’Israele: il segreto di una vita vissuta secondo l’invito di Gesù, il fate questo in memoria di me, cioè assumendo la sua stessa intenzionalità, è rimanere in lui: Chi rimane in me e io in lui, porta molto frutto, perché senza di me non potete far nulla (Giovanni 15,5): rimanere innestati in lui, per attingere a quella linfa vitale, a quella sorgente della vita e dell’amore che, a partire dalla relazione viva con Gesù, è sempre disponibile e genera altra vita, fecondità, frutto.
Questo discorso, dunque, è un momento di profonda condivisione di Gesù con i suoi, che si può cogliere assumendo l’atteggiamento del discepolo amato, chinatosi sul petto di Gesù (Giovanni 13,25) per ascoltare da vicino i battiti del suo cuore, il respiro della sua vita, di quella vita e di quell’amore che Gesù portava dentro mentre parlava con i suoi e che, donando la sua amicizia, offre ai discepoli di tutti i tempi come linfa vitale a cui attingere, per compiere la pienezza dell’umano.
«Questo è il mio comandamento: che vi amiate gli uni gli altri come io ho amato voi»
Il brano si apre e si chiude con queste parole. Gesù ha già dato questo comandamento ai suoi, in Giovanni 13,34: un comandamento nuovo.
È un versetto molto denso, che raccoglie in tre termini-chiave il cammino della storia della salvezza. Il primo termine, “comandamento” (entolé), richiama la categoria dell’alleanza-contratto, con cui il Pentateuco descrive il rapporto tra Dio e il popolo d’Israele, e che i profeti – Osea in particolare – leggeranno come relazione sponsale, di amore tra lo Sposo e la sposa. È questo il motivo per cui alla parola “comandamento” può essere affiancata la seconda parola, “amore”, che ne diventa il contenuto e contribuisce a rivelarne più pienamente il senso. Ma c’è un terzo passaggio: il “mio” comandamento, come poco prima c’erano la “mia” gioia (15,11), il “mio” amore (15,9) e la “mia” pace (14,27). Ed è qui la novità. Qual è il senso di questo aggettivo possessivo, che accompagna le parole tra le più importanti della vita umana, quali gioia, amore e pace?
Lo dice quel “come”, che si potrebbe tradurre: «che vi amiate gli uni gli altri sul fondamento del fatto che io ho amato voi». La relazione di amore che i discepoli sono chiamati a vivere tra loro ha come fondamento quella che Gesù ha con loro, che Gesù a sua volta attinge dall’amore del Padre. Dunque “come” non è comparativo, ma ha valore causativo e costitutivo: il Padre ama Gesù, Gesù ama i discepoli, i discepoli sono chiamati ad amarsi tra loro, in un continuo flusso di vita e di amore ricevuto e donato. Dalla sorgente della vita e dell’amore, che è il Padre, a noi, attraverso Gesù, che questa vita e questo amore li ha resi carne, li ha vissuti in sé come fioritura piena dell’umano, rivelando pienamente il senso racchiuso fin dall’inizio nel “comandamento”. E donandoci la sua amicizia ce li rende disponibili.
«Vi ho chiamati amici»
L’amicizia è il legame che mette in circolo questo amore: i discepoli sono chiamati ad amarsi gli uni gli altri a partire dalla loro amicizia con Gesù e in Gesù.
Gesù, il Maestro e il Signore (Giovanni 13,13), sceglie di vivere la relazione con i suoi discepoli come amicizia. L’iniziativa è sua: Non voi avete scelto me, ma io ho scelto voi; questa iniziativa rimane indipendentemente dalla corrispondenza dell’essere umano. Questo “stare”, che in Giovanni diventa “rimanere”, è l’essenza della sequela. Gesù non ha voluto esecutori, funzionari, dipendenti o impiegati a tempo determinato, a cui dare ordini da eseguire, ma persone con cui potere condividere la vita e un progetto di comunità umana fondata sull’impegno ad amare e servire.
Nel brano cogliamo alcune caratteristiche dell’amicizia di Gesù:
– nessuno ha un amore più grande di questo: dare la sua vita per i propri amici (15,13): una donazione di sé totale e incondizionata, data da un “esserci” sempre, fedele e libero nello stesso tempo, che non possiede e non trattiene, ma vuole il bene dell’amico e offre tutto se stesso – fino alla vita stessa – per questo bene;
– non vi chiamo più servi, … ma … amici, perché tutto ciò che ho udito dal Padre mio l’ho fatto conoscere a voi (15,15): nella Bibbia le parole “servo” e “amico” di Dio si richiamano e descrivono l’uomo fedele e giusto. Qui Gesù distingue, perché sottolinea quel tratto distintivo degli amici, per cui tra essi tutto è in comune: è la dimensione dell’uguaglianza e della reciprocità. Ciò che qui Gesù mette in comune con i discepoli è tutto ciò che ha ricevuto dal Padre e introduce i suoi nella stessa amicizia che lui ha con il Padre;
– vi ho costituiti perché andiate e portiate frutto e il vostro frutto rimanga (15,16). Gesù riprende qui la terminologia del frutto, usata pochi versetti prima nel contesto dell’immagine della vite, per sottolineare che la maturazione umana e spirituale giunge a compimento quando riceve il necessario nutrimento dalla relazione con Dio, così come il frutto nasce quando la pianta si è adeguatamente nutrita dal suolo e ha raggiunto la maturità riproduttiva.
«L’amore implica dunque qualcosa di più che una serie di azioni benefiche. Le azioni derivano da un’unione che inclina sempre più verso l’altro considerandolo prezioso, degno, gradito e bello, al di là delle apparenze fisiche o morali. L’amore all’altro per quello che è ci spinge a cercare il meglio per la sua vita. Solo coltivando questo modo di relazionarci renderemo possibile l’amicizia sociale che non esclude nessuno e la fraternità aperta a tutti».
Fratelli tutti, n. 94
Vivere la vita e l’amore fondandoli nell’amicizia di Gesù e in Gesù, permette di attingere alla stessa sorgente della vita e dell’amore che è il Padre e nutrirne le relazioni umane, facendovi scorrere la medesima linfa, rendendo così la vita umana e l’amore fruttuosi, fecondi, generativi. Come, dunque, l’amicizia di cui Gesù fa dono ai suoi è generativa di umanità piena e matura?
Amici di Gesù, amici nel Signore tra noi
Gesù ci ha scelti per stare con lui, per rimanere con lui e in lui. Senza la cura di questa appartenenza, il nostro essere umani perde consistenza, sapore, pienezza. Per noi credenti Gesù non è un’idea o un modello ispiratore, ma il compimento pieno dell’umano, la Parola di Dio fatta carne, che nella sua umanità indica la via per poter fiorire pienamente nella nostra vocazione di “figli dell’uomo”, cioè di esseri umani. Essere amici di Gesù significa riconoscere questa corrispondenza intima e ri-corda (riporta al cuore) a ogni essere umano la sua origine e il suo fine.
Prendere sul serio le parole di Gesù voi siete miei amici, se fate ciò che io vi comando (Giovanni 15,14) significa aprirsi alla possibilità che Gesù dona a ogni uomo e donna di accedere alla sua intimità e all’intimità della sua relazione con il Padre e, da qui, assumere nella propria vita la medesima intenzionalità di Gesù, che ha vissuto la sua esistenza per amare e servire e ha voluto dare inizio a una comunità di persone, che imparassero a stare insieme per condividere amore e servizio.
Essere amici “nel” Signore significa, quindi, condividere un progetto di umanità a partire dal progetto di vita di Gesù: il volere il bene dell’altro, con un amore libero e gratuito, un esserci per l’altro, pieno e incondizionato, che non trattiene per sé, libera il sentire umano più autentico e più maturo, non inquinato da egoismi e interessi personali, a servizio del bene comune, cioè della comunità.
Tale progetto rivela oggi tutta la sua bellezza, per promuovere l’umano nella sua identità e nel suo fine più autentici: dove la vocazione ad amare e a servire viene oscurata da logiche di autoreferenzialità (personali, comunitarie, nazionali, internazionali), fino ad arrivare a divisioni e guerre, emerge con chiara evidenza il fallimento dell’umano. Il periodo che stiamo vivendo, purtroppo, lo sta dimostrando ampiamente. Ripartire dalla proposta di amicizia di Gesù può aiutare a ritrovare il bandolo della matassa di quel progetto di umanità che oggi si è aggrovigliato, ma che a partire dal senso di questa amicizia si può ricominciare a tessere.
Questo è valido anche per l’attuale contesto ecclesiale, in cui essere amici nel Signore può significare innanzitutto mettere in comune la propria esperienza di Dio, donando ai fratelli e alle sorelle una parte profonda di sé, che non sono solo le idee o i concetti, ma il sentire spirituale, che sgorga dal cuore, ed è il fondamento della comunione; così prende forma quel diventare “una cosa sola” per cui Gesù prega il Padre nella preghiera sacerdotale di Giovanni 17. Il dinamismo sinodale vuole andare in questa direzione: “sinodo” è un insieme di persone che condividono l’amicizia con il Signore e riconoscono insieme la sua presenza e quella del suo Spirito in mezzo a loro, mettendo in comune il loro sentire nella conversazione spirituale: è lo stile di vita e di condivisione che Gesù voleva vivere con i suoi, perché i suoi imparassero a viverlo tra di loro.
È la via che, in questo cammino sinodale, è offerta oggi a noi credenti come possibilità di un autentico ascolto comunitario dello Spirito e che – se presa sul serio – può contribuire a rinnovare il paradigma ecclesiologico e riverberarsi anche nei luoghi della convivenza sociale e civile, come modo di procedere più umano e umanizzante.