L’enciclica Laborem exercens (LE) di Giovanni Paolo II sul lavoro umano del 14 settembre 1981 si colloca in un contesto sociale ed ecclesiale in evoluzione, che va tenuto in considerazione per meglio apprezzarne il radicamento, la portata e il senso.
L’evoluzione della società
Alla fine del secolo scorso, la società assiste a profondi cambiamenti nelle forme lavorative, di cui la Chiesa prende atto e ne fa oggetto della sua riflessione. Le moderne tecnologie, quella elettronica in particolare, sono entrate a far parte del processo lavorativo (informatica, telematica, microprocessori, ecc.), determinando trasformazioni considerevoli a livello di produzione, strutture e relazioni lavorative, al pari di quelle verificatesi con la Rivoluzione industriale nell’Ottocento. Questi cambiamenti esigono che «si scoprano i nuovi significati del lavoro umano, e che si formulino, altresì, i nuovi compiti che in questo settore sono posti di fronte a ogni uomo, alla famiglia, alle singole Nazioni, a tutto il genere umano e, infine, alla Chiesa stessa» (LE, n. 2). Si tratta di un compito della Chiesa, non per l’analisi scientifica delle conseguenze di questi cambiamenti, ma per il richiamo della relazione fondamentale tra l’essere umano e il lavoro in questi nuovi scenari. Queste trasformazioni suppongono infatti un adattamento degli esseri umani non solo nelle loro relazioni con la natura e l’organizzazione, ma anche tra loro; e la Chiesa intende prendere parte a queste riflessioni.
La Laborem exercens si ricollega all’apertura decisiva realizzata dalla Populorum progressio (1967). La «questione sociale», che toccava in modo speciale il mondo operaio ed era stata affrontata fino ad allora a livello nazionale, prende una dimensione internazionale o mondiale negli anni ’80: «Se nel passato al centro di tale questione si metteva soprattutto in luce il problema della “classe”, in epoca più recente si pone in primo piano il problema del “mondo”» (LE, n. 2). Per questo, al fine di trovare delle soluzioni, in particolare per la disoccupazione, è formulato un appello alla collaborazione internazionale, attraverso la stipulazione di trattati e accordi tra Paesi, e all’azione delle Organizzazioni internazionali (cfr LE, n. 18).
Un’altra evoluzione constatata riguarda i rapporti tra il capitale e il lavoro nella attuale fase storica (LE, nn. 11-15). La situazione conflittuale, che nell’interpretazione di Marx ed Engels «vede nella lotta di classe l’unica via per l’eliminazione delle ingiustizie di classe», ha trovato «la sua espressione nel conflitto ideologico tra il liberalismo, inteso come ideologia del capitalismo, e il marxismo, inteso come ideologia del socialismo scientifico e del comunismo» (LE, n. 11). Nei Paesi dove è presente il regime comunista, la dignità del lavoro non è maggiormente rispettata e garantita dalla collettivizzazione dei mezzi di produzione. La soluzione preconizzata da queste ideologie rivoluzionarie è illusoria. Per meglio comprendere queste situazioni conflittuali è opportuno pertanto ritornare a una riflessione fondamentale sull’essere umano impegnato nel lavoro.
Infine, l’enciclica è attenta alla crescita inquietante della disoccupazione. Questo fenomeno, che non è più congiunturale o ciclico, ma strutturale e permanente, tocca i Paesi industriali e, più duramente, quelli in via di sviluppo. Per questo si dà ampio spazio all’occupazione, che occupa la maggior parte del quarto capitolo dedicato ai «Diritti degli uomini del lavoro». Ancora una volta si tratta di una questione internazionale, dove sono coinvolte diverse responsabilità, innanzi tutto quelle del «datore di lavoro diretto», ma anche del «datore di lavoro indiretto» (nuovo concetto introdotto nell’enciclica), a causa delle multiple interdipendenze tra il lavoro e il contesto sociale (LE n. 16).
Il contesto della Chiesa
A livello ecclesiale la Laborem exercens celebra il novantesimo anniversario della Rerum novarum di papa Leone XIII (1891) sulla condizione operaia e si inserisce in una successione di anniversari: Pio XI, in occasione del quarantesimo di Rerum novarum, scrisse la Quadragesimo anno, Giovanni XXIII la Mater et magistra per il settantesimo e Paolo VI la Octogesima adveniens in occasione dell’ottantesimo, senza dimenticare il radio messaggio di Pio XII del 1941. Vi sono anche riferimenti alla costituzione pastorale Gaudium et spes (1965) del concilio Vaticano II e alla Populorum progressio di Paolo VI (1967). Oltre a far proprio questo lascito centenario del magistero sociale della Chiesa, Giovanni Paolo II radica la sua riflessione nel Vangelo e trae elementi anche dall’attività dei differenti centri di ricerca e dalle iniziative apostoliche concrete, in particolare dai lavori di diversi episcopati e del Pontificio Consiglio della Giustizia e della Pace, che «trova i suoi Organismi corrispondenti nell’ambito delle singole Conferenze Episcopali» (LE, n. 2). Riprende quindi un insieme di esperienze e approfondimenti, dichiarando con modestia: «Se su di esso [il lavoro] desidero concentrare le presenti riflessioni, ciò voglio fare non in modo difforme, ma piuttosto in collegamento organico con tutta la tradizione di questo insegnamento e di queste iniziative» (ivi). Se sceglie di affrontare il tema del lavoro, «non è tanto per raccogliere e ripetere ciò che è già contenuto nell’insegnamento della Chiesa, ma piuttosto per mettere in risalto – forse più di quanto sia stato compiuto finora – il fatto che il lavoro umano è una chiave, e probabilmente la chiave essenziale, di tutta la questione sociale» (LE, n. 3), poiché il lavoro, che è uno degli elementi che contraddistinguono l’uomo dal resto delle creature, costituisce in qualche modo la sua stessa natura. Il lavoro è anche un fondamento della vita familiare e della società civile, oltre a essere un’espressione del messaggio cristiano: Giovanni Paolo II parlerà del «vangelo del lavoro» che comincia già nei primi capitoli della Genesi e si compie in «Cristo, l’uomo del lavoro».
La genesi del testo
Partendo da questa visione ecclesiale, arricchita dai riferimenti ai testi biblici e dall’apporto del magistero precedente, Giovanni Paolo II svolge in modo proprio il suo pensiero sul tema. Il testo dell’enciclica, scritta di certo in gran parte dal Papa, porta i segni della sua personalità. Se ne ritrova lo stile ampio, a volte ripetitivo, che procede per successivi allargamenti del tema, con riprese pedagogiche per articolare tra loro i diversi capitoli. Come in Redemptor hominis e Dives in misericordia, la base è costituita dalla riflessione filosofica: più vicino a un’ontologia che a un’analisi svolta usando le diverse scienze sociali (soltanto citate).
L’enciclica è nutrita da una duplice esperienza personale. Da un lato, Giovanni Paolo II in giovinezza ha conosciuto il lavoro operaio nelle cave di pietra, nelle fabbriche chimiche, nelle acciaierie. Il suo punto di partenza sono realtà concrete e solidarietà vissute. Egli non esita ad affermare: «Durante la mia vita ho avuto la fortuna, la grazia di Dio, di poter scoprire queste verità fondamentali sul lavoro umano in forza della mia esperienza personale del lavoro manuale» (Giovanni Paolo II, Omelia per la messa dei lavoratori, Parigi, 31 maggio 1980, in <www.vatican.va>). È grazie alle sue esperienze di lavoro che il Papa – se possiamo dire – ha appreso in modo nuovo il Vangelo. Dall’altro lato, egli ha presente l’esperienza della vita nel suo Paese, la Polonia, nel tempo in cui il regime comunista aveva realizzato strutture collettiviste di lavoro e dà una valutazione dei risultati di una socializzazione estrema dei mezzi di produzione, denunciando gli abusi di una centralizzazione burocratica e statale. Le riflessioni nel capitolo «Lavoro e proprietà» (LE, n. 14) sono impregnate di quanto aveva visto nella sua patria.
In maniera ancor più diretta, l’enciclica si ispira ai discorsi e alle omelie che Giovanni Paolo II ha rivolto ai lavoratori, agli industriali o agli agricoltori incontrati in Polonia, Brasile, Messico, Filippine, o ai lavoratori migranti in Francia. Nei vari interventi gli stessi temi sono stati ripresi, precisati, modellati, costituendo una sorta di schizzi parziali dell’enciclica, favorendo la redazione di un testo di sintesi più semplice e destinato a un pubblico ampio, dato che l’enciclica non si rivolge solo alla Chiesa, ma anche «a tutti gli uomini di buona volontà».
Infine, Giovanni Paolo II dà al suo testo un fondamento biblico e un’apertura teologica e spirituale che gli sono familiari. Già in Polonia aveva molto studiato e usato i primi capitoli della Genesi. Nell’enciclica si poggia sulle parole «soggiogate la terra» (LE, n. 5), «anche se queste parole non si riferiscono direttamente ed esplicitamente al lavoro» (LE, n. 4), e vede nel lavoro umano una partecipazione all’opera creatrice divina (LE, n. 26). Situando il lavoro in una prospettiva cristologica (incarnazione e redenzione), invita a meditare su «il lavoro umano alla luce della Croce e della Risurrezione di Cristo» (LE, n. 27). Per questo motivo il capitolo conclusivo dell’enciclica, «Elementi per una spiritualità del lavoro», in realtà ne costituisce il fondamento e ne amplia la portata. La Chiesa ha «un suo dovere particolare nella formazione di una spiritualità del lavoro, tale da aiutare tutti gli uomini ad avvicinarsi per il suo tramite a Dio, Creatore e Redentore, a partecipare ai suoi piani salvifici nei riguardi dell’uomo e del mondo e ad approfondire nella loro vita l’amicizia con Cristo» (LE, n. 24). Questa conclusione spirituale è di certo di Giovanni Paolo II: la sua parola prende le mosse da un movimento interiore di contemplazione e, nel corso dei suoi viaggi, ama radicarla nell’eucaristia celebrata col popolo di Dio. È allora che il testo, o la parola, acquista tutta la sua verità.
Senza dubbio vi sono stati degli apporti esterni, venuti da varie letture, come attesta l’introduzione di concetti nuovi, ad esempio “datore di lavoro diretto” o “indiretto”. Ma il testo non si smarrisce in precisazioni o distinzioni. Nel suo insieme riflette un ottimismo globale, basato sulla fede cristiana, senza per questo trascurare gli aspetti austeri del lavoro: «ogni lavoro – sia esso manuale o intellettuale – va congiunto inevitabilmente con la fatica» (LE, n. 27); e conferma «l’indispensabilità della croce nella spiritualità del lavoro umano» (ivi). Pur segnalando i conflitti possibili o le ingiustizie presenti, egli evidenzia soprattutto gli aspetti positivi del lavoro, espressione dell’essere umano, delle sue iniziative, della sua personalizzazione, fonte della vita familiare, della fraternità, creatore di comunità di persone. È un discorso nuovo che intende proporre: «il vangelo del lavoro».
Struttura e argomentazioni
L’enciclica si concentra su un solo tema: il lavoro umano, o meglio sull’uomo a lavoro, per essere più fedeli al significato dell’incipit latino Laborem exercens homo. Ritroviamo così l’intuizione che è alla base di tutte le riflessioni di Giovanni Paolo II: l’uomo al centro di ogni cosa e di ogni attività. A partire da questo riferimento, l’enciclica tocca dimensioni molto ampie. La ricostruzione storica inizia dalle origini, dalla creazione, per considerare poi le successive fasi evolutive, «le quali, in qualche misura, forse si stanno già delineando, ma in gran parte rimangono ancora per l’uomo quasi sconosciute e nascoste» (LE, n. 4). Malgrado la diversità dei modi di concepire il lavoro nelle varie epoche e civilizzazioni e indipendentemente dal loro valore oggettivo, vi è un principio di unità del lavoro. La sua relazione con l’uomo ne fonda la dignità nelle molteplici forme che riveste: libero professionista o dipendente, manuale o intellettuale, agricolo o industriale, maschile o femminile (incluso il lavoro domestico), persone con disabilità e disoccupati. Una medesima parola include le attività svolte da operai, impiegati, funzionari, dirigenti, insegnanti, ricercatori e tutte le differenze spariscono a vantaggio dell’unità del concetto.
In questa prospettiva omnicomprensiva sono tre i dibattiti principali che scandiscono l’architettura interna del documento. Il primo distingue, senza separarli, due aspetti: il lavoro in senso oggettivo, cioè la tecnica, e quello in senso soggettivo, l’essere umano. «Come persona, l’uomo è quindi soggetto del lavoro» (LE, n. 6) ed è in quanto attività dell’essere umano che il lavoro ha la sua dignità. Da ciò discende la denuncia di tutto ciò che turba l’autentica gerarchia dei valori, come accade ad esempio nel pensiero economico e materialista quando il lavoro è considerato come un semplice strumento di produzione, valutato secondo il suo valore di mercato. Al contrario, esso è un bene dell’essere umano, attraverso il quale non solo trasforma la natura, ma realizza se stesso e costruisce la società familiare e civile, tre sfere di valore di cui fa parte. Il secondo dibattito riguarda i rapporti tra capitale e lavoro. Dopo una breve ricostruzione storica delle situazioni conflittuali nell’Ottocento (il conflitto socioeconomico trasformatosi in conflitto ideologico), ampiamente riprese dal marxismo, Giovanni Paolo II denuncia gli approcci erronei dell’«economismo» e del «materialismo» (LE, n. 13). Afferma che non si dovrebbe contrapporre lavoro e capitale, né gli uomini concreti individuati attraverso questi concetti, ma vi è una coerenza fondata sulla complementarità, in una visione sia teologica sia umanista. Il Papa dà un senso estensivo alla parola “capitale”, che designa innanzi tutto gli investimenti nei mezzi di produzione e coloro che dispongono di questi mezzi di produzione (proprietari privati e autorità pubbliche). Il capitale comprende anche le tecnologie e le conoscenze e, in un senso più ampio, le risorse naturali, il capitale messo a disposizione dal Creatore. Queste prospettive permettono allora di chiarificare i rapporti tra lavoro e proprietà e di porre limiti sia alla socializzazione del capitale, che tenderebbe verso la statalizzazione, sia a un diritto esclusivo della proprietà privata sui mezzi di produzione, considerata come «un “dogma” intoccabile nella vita economica» (LE, n. 14), che negligerebbe le sue responsabilità sociali. Il terzo dibattito, infine, verte sui diritti umani, tema caro a Giovanni Paolo II che precisa i diritti dei lavoratori in tre ambiti: occupazione, retribuzione e partecipazione (il ruolo dei sindacati).
Portata e influenza
Attesa in occasione dell’anniversario della Rerum novarum, anche se pubblicata con qualche mese di ritardo (il 14 settembre 1981 invece che il 15 maggio) a causa dell’attentato subito dal Papa il 13 maggio a Roma, preceduta e preparata dai discorsi e dalle omelie tenute nei viaggi papali, l’enciclica è stata accolta senza troppa sorpresa. Lavoratori e sindacati hanno apprezzato che il documento papale si focalizzasse su ciò che fonda la loro dignità e le loro azioni, il lavoro, piuttosto che partire da prospettive di tipo economico o sociale più generali. Alcuni hanno lamentato di non ritrovare le opposizioni classiche e ideologiche sorte nei rapporti di lavoro e tradottesi nella lotta di classe, ma la maggioranza ha ritenuto positivo che questa questione fosse affrontata in una prospettiva storica dinamica, evidenziando che non vi è un’incompatibilità di fondo tra capitale e lavoro e che le soluzioni collettiviste non sono più soddisfacenti di quelle liberali. I dirigenti delle imprese si sono interrogati sul valore della distinzione tra datore di lavoro diretto e indiretto e sulla condivisione di responsabilità per l’occupazione tra poteri pubblici, sindacati e imprese, il tutto in economie nazionali aperte verso l’esterno e in una situazione di crisi che dura da tempo.
Il vocabolario, i modelli di pensiero, gli approcci filosofici e teologici possono sorprendere i lettori troppo frettolosi. L’ampliamento dei concetti arricchisce la visione e invita ad andare oltre questo aspetto, ma può anche presentare un duplice rischio: in primo luogo perdere in precisione nel momento in cui si guadagna in estensione; lasciare spazio a interpretazioni multiple che privilegiano un significato specifico a danno di un senso più ampio. Da qui deriva la possibilità di letture diverse dell’enciclica in base alla situazione sociale, politica o ideologica. Poco utile è il ricorso a brevi citazioni estrapolate dal loro contesto, mentre è proficuo individuare i temi portanti del testo, che sono arricchiti attraverso successive riprese, e i cui aspetti innovativi possono essere meglio colti in letture non frettolose.
Risorse
LE = Giovanni Paolo II, enciclica Laborem exercens, 1981.
MM = Giovanni XXIII, enciclica Mater et magistra, 1961.
OA = Paolo VI, lettera apostolica Octogesima adveniens, 1971.
PP = Paolo VI, enciclica Populorum progressio, 1967.
QA = Pio XI, enciclica Quadragesimo anno, 1931.
RN = Leone XIII, enciclica Rerum novarum, 1891.
Titolo originale: Laborem exercens. Sur le travail humain, di Philippe Laurent SJ, disponibile in <www.doctrine-sociale-catholique.fr/index.php?id=6723>. Traduzione dal francese di Giuseppe Riggio SJ.