La via della pace

Fascicolo: giugno-luglio 2023

 Di fronte allo sconcertante predominio dell’ingiustizia e della menzogna nel mondo, con amarezza il profeta constata: Non conoscono la via della pace (Isaia 59,8). È una situazione che si ripropone continuamente nella storia. Non solo i rapporti sono inquinati dalla violenza, ma – aspetto ancor più grave – si tende a giustificare lo status quo con argomentazioni false, tese a mascherare la logica di sopruso a cui ci si è consegnati. Manca la volontà di interrogarsi onestamente su quanto si sta vivendo, di riconoscere le conseguenze devastanti di certe scelte, contrassegnate dalla difesa a oltranza dei propri interessi. Le parole di Isaia continuano a risuonare nella loro inquietante attualità. Ne fece esperienza diretta Carlo Maria Martini che, fin dagli inizi del suo ministero episcopale a Milano, si dovette misurare con situazioni e fatti di violenza; lo sperimentiamo anche noi. Alla luce di puntuali interventi del Cardinale, ci soffermeremo su quello che nella Bibbia appare essere lo snodo fondamentale per costruire la pace in un mondo diviso.

Il caso serio del cuore umano

Nel discorso tenuto il 6 dicembre 2001, alla vigilia di sant’Ambrogio, Martini, riflettendo sui tragici attentati alle Torri Gemelle dell’11 settembre di quell’anno, evidenziava la necessità di una seria presa di coscienza «di come le cause profonde del male stanno dentro nel cuore e nella vita di ogni persona, etnia, gruppo, nazione, istituzione che è connivente con l’ingiustizia». Rifacendosi alla pagina di Luca 13,1-5, rilevava come Gesù, interrogato sulla «attribuzione delle colpevolezze per gravi fatti di sangue, […] rimanda alla radice profonda di tutti questi mali, cioè alla peccaminosità di tutti, alla connivenza interiore di ciascuno con la violenza e il male […]. Egli invita a cercare in ciascuno di noi i segni della nostra complicità con l’ingiustizia» (Martini 2001).

Qualche anno dopo, in occasione della Quaresima del 2003, il Cardinale scrisse da Gerusalemme una pregnante riflessione sulla problematica della pace. In essa ribadiva che «la prima e perenne difficoltà nella costruzione della pace nella città degli uomini risiede in un dato antropologico che la Bibbia ricorda fin dalle prime pagine e cioè che “l’istinto del cuore umano è incline al male fin dalla adolescenza” (Genesi 8,21). Ogni volontà costruttiva della pace si scontra con la ineludibile aggressività umana, col desiderio insito in tanti di noi, persone e gruppi, di possedere ciò che è dell’altro, di avere più dell’altro, meglio dell’altro, togliendolo, se non c’è altro mezzo, anche con la forza» (Martini 2003).

Michea 3,9-11

9Udite questo, dunque,
capi della casa di Giacobbe,
governanti della casa d’Israele, che aborrite la giustizia
e storcete quanto è retto,
10che costruite Sion sul sangue
e Gerusalemme con il sopruso;
11i suoi capi giudicano in vista dei regali,
i suoi sacerdoti insegnano per lucro,
i suoi profeti danno oracoli per denaro.
Osano appoggiarsi al Signore dicendo:
«Non è forse il Signore in mezzo a noi?
Non ci coglierà alcun male».

Come risulta dalle affermazioni appena riportate, Martini chiama in causa il cuore, immagine che abbraccia l’intera persona, dove le dimensioni intellettiva e affettiva si intrecciano, il luogo intimo da cui scaturiscono l’orientamento e le decisioni di fondo dell’esistenza, i pensieri e i progetti. È alla luce delle Scritture ebraico-cristiane che il Cardinale insiste sulla necessità di intervenire a tale livello, se si vuole davvero preparare un futuro di pace. La voce dei profeti si alza ripetutamente per denunciare l’ingiustizia e la violenza strutturale presenti nell’ambito economico, politico, giuridico e finanche in quello religioso (tra i tanti riferimenti cfr Amos 3,9-10; Michea 3,9-11; Isaia 1,10-17; Geremia 6,6-7); tuttavia, l’insistenza principale delle pagine bibliche verte sul fatto che la violenza ha il suo principio nel cuore (Genesi 6,5 e 8,21; Salmo 51,7.12; Geremia 7,24; 17,1.9; Marco 7,21). Il cuore umano, infatti, è esposto all’idolatria, principio, causa e culmine di ogni male (Sapienza 14,27). Il rischio ricorrente è di venerare ciò che appare attraente, piacevole e rassicurante, con il risultato che all’interno della persona si afferma il culto del potere, del primato, della forza, pensando che tutto ciò offra garanzie tangibili per il futuro (cfr Teani 2011), quando invece ciò che si produce è schiavitù e morte (cfr Bovati 2012).

Educare nelle «vie di Dio»

Il cuore, in cui si annidano i semi della violenza, va educato così da essere liberato dalla bramosia e dalla «ineludibile aggressività» (Martini 2003), che minano la pace tra le persone e tra i popoli. Martini, convinto del ruolo insostituibile della Bibbia in quest’opera di formazione della coscienza, affermava: «Uno dei grandi principi che mi hanno sempre guidato e che ho tenuto presente in questi anni di servizio pastorale a Milano, è che la Bibbia va considerata come il grande libro educativo dell’umanità» (Martini 2002). Tutti possono riconoscersi nelle vicende e nei personaggi che popolano le sue pagine. Per i credenti, in particolare, è «un libro educativo perché libro dello Spirito Santo, che muove il cuore al vero e al bene, che descrive le condizioni dell’autenticità profonda nel cammino umano, che stimola ogni energia positiva e smaschera le trappole e gli infingimenti che ostacolano il cammino della santità cristiana» (Martini 2012)1.

Questa opera educativa del cuore umano passa necessariamente per la conoscenza del Signore, o meglio, secondo la terminologia biblica, dei suoi progetti. Rifacendosi a Isaia 55,8 (I miei progetti non sono i vostri progetti, le vostre vie non sono le mie vie), Bovati sottolinea come i progetti di Dio, che formano un unico, insondabile disegno di amore, «sono paragonati a delle “vie”, a delle strade, che, come tali, indicano delle direzioni, profilano un senso, ma suppongono anche un percorso da effettuare» (Bovati 2009, 27). Lo sforzo dispiegato in Israele per educare il cuore al rispetto nei confronti di Dio e del prossimo, però, non sortisce gli effetti sperati: le vie di Dio non sono (ri)conosciute (cfr Geremia 5,4-5), non si vuole camminare lungo il sentiero da esse tracciato (Isaia 42,24). L’arduo problema della persistenza del male nel cuore delle persone è al centro del libro di Geremia. Il profeta, che all’inizio della sua predicazione sostiene il tentativo di riforma promosso dal movimento deuteronomista, sollecita a più riprese gli israeliti a lavare il cuore dalla malvagità (Geremia 4,14), ma nessuno lo ascolta. In lui cresce la sofferta convinzione che il cuore di tutti sia radicalmente corrotto. Con una frase a effetto afferma: Il peccato di Giuda è scritto con uno stilo di ferro, è inciso con una punta di diamante sulla tavola del loro cuore (Geremia 17,1). Le espressioni utilizzate richiamano volutamente le tavole di pietra su cui erano scritte le dieci parole, indicanti il cammino da seguire per salvaguardare il dono della libertà e della pace. Ma c’è una difficoltà insormontabile: tali parole sono scritte fuori, mentre all’interno, nel cuore, si trova inciso con una punta di diamante, cioè in maniera indelebile, il peccato. È necessaria una trasformazione radicale dell’interiorità, è necessario cambiare il cuore. Ciò comporta una sorta di nuovo atto creatore, un evento di coscienza che solo Dio può produrre.

L’inedita trasformazione che Dio prepara è descritta da Geremia servendosi della sorprendente immagine di circoncidere il cuore (Geremia 4,4). Il riferimento è a Deuteronomio 10,12-22, dove risuona il comando di intervenire sul cuore ostinato, quale condizione indispensabile per poter amare il Signore con tutto il cuore e camminare per tutte le sue vie. «Ecco allora l’effetto di sorpresa e la novità del testo deuteronomico: si prescrive un’operazione non da effettuare nell’esteriorità della carne, ma nella profondità della coscienza, nel “cuore” che simboleggia l’interiorità della persona» (Bovati 1994, 161). Paolo di Tarso riconoscerà che la circoncisione del cuore, intravista da Geremia, si è attuata con la venuta di Gesù (Romani 2,28-29 e Colossesi 2,11-12).

«Il vangelo della pace» interpella tutti

Gesù si è fatto nostro compagno di viaggio per insegnarci a vivere in questo mondo (Tito 2,12) secondo la logica che ha orientato la sua vita, e così guidare i nostri passi sulla via della pace (Luca 1,79), che è controcorrente rispetto alla mentalità e alle attese comuni. Gesù non cerca di sanare i conflitti e le divisioni percorrendo la via del miracolo in serie o quella della violenza, due possibilità accomunate dalla pretesa di trasformare la realtà con la forza. Sa che il superamento del male, in ogni sua forma, raggiunto grazie a interventi prodigiosi o atti di potenza, non cambierebbe nulla della trama del mondo. La gente resterebbe prigioniera del culto del prestigio e della forza, invischiata nella vecchia logica secondo la quale solo la ricchezza e il potere sono efficaci (cfr Duquoc 1984). Lungi dal promettere una pace a buon mercato, ripete che la trasformazione della condizione umana può essere unicamente il frutto di un paziente cammino nello spirito e nella logica delle beatitudini, che hanno guidato la sua pratica messianica. È così che Gesù “evangelizza” la pace (Efesini 2,17) e sollecita tutti a coinvolgersi con «prontezza» nell’annuncio del «vangelo della pace» (Efesini 6,15; Romanello 2003, 227).

Le beatitudini (Matteo 5,3-12), così come il discorso della montagna (Matteo 5-7) di cui costituiscono l’introduzione, sono il ritratto del cristiano adulto e di ogni uomo e donna che ha raggiunto la piena maturità e tracciano un percorso di umanizzazione. Lo riconobbe con lungimiranza il cardinal Martini: il discorso della montagna è il testo di riferimento, non solo per i seguaci di Gesù, ma per ogni persona, gruppo o popolo che desidera perseguire la pace. È un discorso, come ebbe a precisare, che «non ha nessuna etichetta confessionale, rinnova l’esistenza come tale e può valere per chiunque» (cit. in Impalà 2017, 75). Questa interpretazione trova conferma nei versetti iniziali che inquadrano tutto il discorso: Rivolgendo lo sguardo [traduzione CEI: «vedendo»] alle folle, Gesù salì sul monte: si pose a sedere e si avvicinarono a lui i suoi discepoli. Si mise a parlare e insegnava loro (Matteo 5,1-2). Come si vede, Gesù si rivolge prima di tutto ai suoi discepoli, ma ha di mira anche la folla eterogenea proveniente da regioni diverse, che mostra interesse nei suoi confronti (cfr Matteo 4,25). Il suo insegnamento non è riservato a un gruppo di iniziati; è destinato a illuminare e guidare ogni persona animata dalla ricerca onesta del bene.

Tutti sono sollecitati a misurarsi con il discorso della montagna per divenire capaci di operare quei segni stupefacenti di vittoria sul male, di cui parla Gesù in Marco 16,17-18. Il commento di Martini è eloquente:
«I “segni che accompagneranno quelli che credono” non sono direttamente religiosi (l’andare in chiesa, il pregare), bensì sono segni civili, umani, sociali, che riguardano l’insieme della vita come scelta non violenta. Esprimono la capacità di affrontare realtà avverse non superandole in maniera offensiva o polemica, ma nella totalità della pace, nella inermità della pace. Per questo sono un formidabile segno del nostro tempo le vocazioni ad essere operatori di pace, a scegliere la mitezza evangelica, a non rendere male per male» (Martini 2018, 635-636).

Farsi «artigiani della pace»

Nel già citato intervento del marzo 2003, il Cardinale evidenziava un aspetto cruciale: la pace ha necessariamente un costo. Per affrontare «realtà avverse» nello spirito del discorso della montagna, è necessario «essere disposti a pagare un prezzo e a rinunciare anche a qualcosa a cui si avrebbe pure diritto… non solo a livello personale ma pure a livello di gruppo, di popolo, di nazione» (Martini 2003a). Tornato qualche mese dopo da Gerusalemme, dove un sanguinoso attentato aveva provocato 23 morti, mise in guardia contro lo spirito di rivalsa puntigliosa, contro la volontà di far prevalere a tutti i costi le proprie ragioni. Denunciò «gli idoli della violenza, della vendetta, del potere (politico, militare, economico…) sentito come risorsa definitiva e ultima. È l’idolo del volere stravincere in tutto, del non voler cedere in nulla, del non accettare nessuna di quelle soluzioni in cui ciascuno sia disposto a perdere qualche cosa in vista di un bene complessivo. Questi idoli, anche se si presentano con le vesti rispettabili della giustizia e del diritto, sono in realtà assetati di sangue umano» (Martini 2003b).

Sono parole di una tragica attualità. Evidenziano in maniera acuta l’importanza della presenza nel mondo di sapienti operatoridi pace o, meglio, di artigiani della pace, come alcuni propongono di tradurre la settima beatitudine (Matteo 5,9), dato che nel termine artigiano si trova l’idea dell’arte, dell’immaginazione inventiva (Fossion 2004, 36). Il riferimento è a coloro che, animati da un grande desiderio di pace, operano nei loro ambiti di vita con creatività e coraggio. Promuovono con ingegno spazi di fraternità e di riconciliazione. Saranno chiamati figli di Dio: il significato pregnante del titolo che ricevono si chiarifica alla luce del Primo Testamento, dove i figli di Dio sono presentati come membri della corte celeste (cfr Salmo 29,1; Giobbe 1,6; 38,7). «I “figli di Dio” sono pertanto i servitori di Dio, i suoi consiglieri, i suoi messaggeri, i suoi più stretti collaboratori. Sono i membri del suo consiglio. La beatitudine di Matteo suggerisce, di conseguenza, che gli operatori di pace sono i più stretti collaboratori di Dio nell’avvenimento del suo regno. Contribuire alla pace – nel senso biblico e pregnante della parola – significa diventare stretti collaboratori di Dio nel suo piano di felicità profonda per l’umanità» (Ska 2019, 37).

 

Nota:

1 Già nella lettera pastorale Dio educa il suo popolo per il biennio 1987-1989, Martini aveva evidenziato «la forza del programma educativo espresso nelle Scritture» (n. 6).

 

Risorse

Bovati P. (2012), Parole di libertà. Il messaggio biblico della salvezza, Edizioni Dehoniane, Bologna.

(2009), «Il cuore di Dio nell’Antico Testamento», in Zevini G. (ed.), Educare il cuore, LAS, Roma, 17-30.

(1994), Deuteronomio 1-11, Città Nuova, Roma.

Duquoc C. (1984), Gesù uomo libero, Queriniana, Brescia.

Fossion A. (2004), Ri-cominciare a credere, Edizioni Dehoniane, Bologna.

Impalà E. (2017), Carlo Maria Martini. Dialogare contro la violenza, San Paolo, Milano.

Martini C.M. (2018), La Scuola della Parola, Bompiani, Milano.

(2003a), «Intercedere per la pace con la creatività di Giovanni Paolo II», in L’Osservatore Romano, 12 marzo.

(2003b), «Ogni popolo guardi il dolore dell’altro. E la pace sarà vicina», in Il Corriere della sera, 27 agosto.

(2002), Lectio magistralis per il conferimento della laurea honoris causa in Scienze dell’educazione dall’Università Cattolica, 11 aprile, in <https://fondazionecarlomariamartini.it>.

(2001), Terrorismo, ritorsione, legittima difesa, guerra e pace. Discorso per la vigilia di S. Ambrogio, 6 dicembre, in <www.chiesadimilano.it>.

Mello A. (1994), «Il Dio misericordioso e gli attributi della sua misericordia (Es 34,6-7)», in Parola, Spirito e Vita, 29, 37-50.

Romanello S. (2003), Lettera agli Efesini, Paoline, Milano.

Ska J.L. (2019), «Beati gli operatori di pace», in Firmana, XXVIII, 29-40.

Teani M. (2011), «Idolo», in Aggiornamenti Sociali, 6-7, 551-554.

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