Apriamo la Bibbia per cercare un po’ di luce, per essere interpellati da una voce che ci conosce e ci chiama per nome, per metterci in ascolto di una parola che scava e dissoda i terreni impervi delle nostre esistenze. Questo gesto, che compiamo mossi da un desiderio di chiarezza, prende forma in molti modi: quelli della fiducia cieca e ingenua, che apre a caso il volume e punta il dito su un singolo versetto; o quelli di una ricerca lunga tutta una vita, che fa delle Scritture e del loro infinito dibattere la propria lingua materna. In ogni caso, è un gesto abitato dall’attesa di trovare una parola risolutiva, una risposta alle nostre inquietudini.
E se la parola biblica si sottraesse a questo desiderio? O meglio, se pure lo accogliesse, persino gli strizzasse l’occhio ma, a un certo punto, ne prendesse le distanze e lo lasciasse insoddisfatto? Non si tratta di un’ipotesi irrealistica, fatta per il gusto di sparigliare le carte, mossi dal vezzo di trovare l’inedito persino in ciò che da secoli appare pacifico, assodato. È lo stesso mondo delle Scritture a porci di fronte al panorama di una terra desolata, sopra la quale non brilla il sole della salvezza. Come quello descritto del profeta Geremia, nel capitolo 14 (cfr il riquadro qui sotto), che descrive uno scenario desolato, segnato da siccità, fame e guerra.
La profezia nella desolazione
Per la narrazione biblica, carestia e siccità esprimono una condizione di vita prossima alla morte, un venir meno di quanto possa nutrirla: del cibo e dell’acqua, certo, ma anche delle relazioni, della giustizia, degli ingredienti necessari per poter sperimentare la “vita buona”. Nel leggere, oggi, in Occidente, queste parole del profeta, lo scenario delineato di una terra desolata ci raggiunge come una parabola dello sgomento per lo smarrimento esistenziale ed ecclesiale che patiamo. Come risuonerebbe questa medesima parola, se ci trovassimo nelle terre desertificate a causa del riscaldamento globale o su uno dei tanti fronti di guerra o tra le macerie di Paesi terremotati? Quali pensieri, invece, provocherebbe per una Chiesa che, a differenza di quanto avviene nel nostro contesto europeo, sperimenta una nuova fioritura del seme evangelico? Leggere le Scritture significa discernere un senso che si mostra nel qui e ora di un vissuto storico parziale, che prova a intercettare nel frammento di una determinata cultura quella corsa della Parola che il libro degli Atti degli apostoli mostra attraversare un mondo vasto e plurale. Tra le molte letture possibili, le parole di Geremia si presentano a noi come un’immagine che dà da pensare riguardo a quel diffuso sentire l’esperienza ecclesiale in profonda crisi, incerta nel muoversi in un panorama in continuo cambiamento.
Geremia 14,2-18 passim
2Giuda è in lutto,
le sue porte languiscono, sono a terra nello squallore;
il gemito di Gerusalemme sale al cielo.
3I suoi nobili mandano i servi in cerca d’acqua;
si recano ai pozzi, ma non ne trovano,
e tornano con i recipienti vuoti;
sono pieni di delusione, di confusione,
si coprono il capo [...].
7«Le nostre iniquità testimoniano contro di noi,
ma tu, Signore, agisci per il tuo nome!
Molte sono le nostre infedeltà, abbiamo peccato contro di te.
8O speranza d’Israele,
suo salvatore al tempo della sventura,
perché vuoi essere come un forestiero nella terra
e come un viandante che si ferma solo una notte?
Le parole di Geremia mostrano un vuoto e danno voce al nostro grido a Dio, affinché intervenga a salvarci. Forse che Colui che col suo braccio potente ha liberato i nostri padri dall’oppressione imposta dal faraone, ora si mostrerà incapace di aiutarci? Non sarà più in grado di strapparci dalla miseria che ci affligge nel presente? Mentre tutti si aspettano la risposta positiva del Dio a cui basta chiedere per essere esauditi, ecco che proprio il Dio dell’esodo, che dimora in mezzo al suo popolo, proprio il Dio-per-noi, non ascolta la supplica. Invece, consegna al suo profeta una parola che non trasfigura l’esistente ma lo mette a nudo. Nessuna redenzione: rimane lo spaesamento. Di tutti: anche il profeta e il sacerdote si aggirano per il paese e non sanno che cosa fare (Geremia 14,18).
Una Parola che non rassicura
Poche righe prima, Geremia ha ricordato che per il paese si aggirano dei profeti che offrono certezze, pronunciando in modo solenne le grandi parole della fede, come shalom, un vocabolo che non indica solo l’assenza di guerra, ma racchiude l’intero sogno di Dio per l’umanità, la promessa della vita buona. Costoro rispettano appieno i canoni dell’ortodossia e incontrano il favore della gente. Eppure, Dio non ha parlato loro: dicono il falso, seppure con linguaggio religioso che suona vero. La menzogna, poi, ha gioco facile con un popolo desideroso di udire una parola di salvezza, incapace anche solo di sospettare che Dio lo abbandoni a una storia segnata dal negativo. E come per i contemporanei del profeta, quella parola rassicurante ha presa anche su di noi, che leggiamo i cosiddetti “oracoli di giudizio” dei profeti solo come il primo tempo della partita, una denuncia dei nostri comportamenti ingiusti che la misericordia divina cancellerà, come attestano gli “oracoli di salvezza” che troviamo nei medesimi libri profetici. Siamo così abituati a leggere le Scritture mettendo a fuoco il duplice movimento di “problema e soluzione” che sorvoliamo velocemente il primo per installarci nella scena del riscatto, dei conti che tornano, della vita che rifiorisce. Effettivamente, la narrazione biblica concorda nell’attestare che Dio desidera la salvezza delle sue creature e fa persino carte false, pur di strappare le sue figlie e i suoi figli dalla scena del fallimento in cui continuano a cacciarsi. Non è questione di mettere in discussione questo “evangelo”, che costituisce il filo rosso della Scrittura.
9Perché vuoi essere come un uomo sbigottito,
come un forte incapace di aiutare?
Eppure tu sei in mezzo a noi, Signore,
il tuo nome è invocato su di noi, non abbandonarci!» [...].
11Il Signore mi ha detto:
«Non pregare per questo popolo, per il suo benessere.
12Anche se digiuneranno, non ascolterò la loro supplica» [...].
17Tu riferirai questa parola:
«I miei occhi grondano lacrime notte e giorno, senza cessare,
perché da grande calamità è stata colpita la vergine,
figlia del mio popolo, da una ferita mortale.
18Se esco in aperta campagna, ecco le vittime della spada;
se entro nella città, ecco chi muore di fame.
Anche il profeta e il sacerdote si aggirano per la regione
senza comprendere».
Ma le vie di Dio non sono le nostre: non seguono automatismi di sorta, né saltano la storia, fatta di stagioni diverse, di tempi che non sono sotto il controllo del desiderio umano. Il Qohelet, con una sapienza maturata senza sconti nel confronto con quanto avviene “sotto il sole”, ce lo ricorda in modo quasi brutale. Lo stesso fanno i profeti. Per costoro il fattore tempo decide la parola da annunciare. Il messaggio è tagliato su misura del tempo storico in cui agiscono; e anche del tempo richiesto a chi ascolta, affinché non corra troppo in fretta verso altre più gradevoli parole. Leggiamo nell’incipit del rotolo di Geremia questo mandato divino: Ecco, oggi ti costituisco sopra i popoli e sopra i regni per sradicare e demolire, per distruggere e abbattere, per edificare e piantare (1,10). Quattro verbi al negativo e due al positivo, a significare il maggior tempo e peso da riservare alla denuncia rispetto all’annuncio della salvezza. Anche Isaia sottolinea questa sproporzione: trentanove capitoli di requisitoria prima di annunciare la consolazione divina. E se per noi che leggiamo, il dispiegarsi del rotolo, il girar pagina avviene nell’immediato, il tempo della parola resiste alla nostra fretta, provando a educarci all’arte dello stare e del patire il proprio tempo. Educazione ardua, per noi che viviamo il tempo come un contenitore neutro del nostro agire performativo. Che interpretiamo le interruzioni imposte da situazioni di crisi come parentesi da chiudere al più presto, per tornare a svolgere quanto progettato in precedenza. Per la narrazione biblica il tempo, la storia, non sono semplici contenitori, orizzonti lontani che fanno solo da sfondo al nostro agire. Il senso di una vita, come anche la forma della fede, sono determinati dalla storia che ci è toccata in sorte. Impossibile tirarsene fuori e fare esperimenti in ambienti asettici, sotto campane di vetro.
Una diversa lettura del presente
Ebbene, ci sono stagioni storiche in cui l’esistenza e la fede che la abita debbono far fronte allo spaesamento, al non sapere che cosa fare. Come questo tempo in cui ci troviamo noi, nell’Occidente cosiddetto cristiano. Nel quale i credenti sentono venir meno il terreno sotto i loro piedi, percependo segnali di tramonto, avvertendo le avvisaglie di una vera e propria “esculturazione” del cristianesimo occidentale. Le Chiese perdono il loro fascino e le nuove generazioni perlopiù negano loro il consenso, mostrando indifferenza nei confronti della questione-Dio. La situazione attuale, presumibilmente, non è mai esistita nella storia delle religioni; ci muoviamo, dunque, in una terra nuova, che non conosciamo. Siamo spaesati, disorientati. La cifra di questo nostro tempo sembra proprio quella espressa da Dio per bocca di Geremia: anche il profeta e il sacerdote si aggirano per il paese e non sanno che cosa fare. Certo, pure nell’attuale scena storica calcano i loro passi i predicatori di certezze, pronti a proporre la formula vincente per far fronte al momentaneo disorientamento. E non sono solo alcuni personaggi in malafede: in fondo, chi di noi non vorrebbe godere di maggior chiarezza, giungendo a comprendere con il pensiero il proprio tempo? Chi non avverte come rassegnazione colpevole la resa allo stato di cose esistenti?
Senonché la parola profetica prova a suggerire una diversa lettura del presente. A far nascere almeno il sospetto che non sia tanto questione di elaborare brillanti letture e nuove strategie pastorali, che ci strappino dallo stallo attuale, ma che occorra – e si tratta di una necessità storica! – patire un tempo la cui desolazione è frutto dei nostri tradimenti, di una fede proclamata e non vissuta. Ci sono inferi, notti oscure comunitarie in cui bisogna stare, senza disperare. Tempi che decostruiscono le strategie a lungo raggio e permettono solo tattiche per singole battaglie, elaborate dopo un paziente ascolto. Non sono tempi di semplice sopravvivenza, vista l’impossibilità di volare alto: abitarli comporta una posta in gioco molto impegnativa. Ovvero, un’assunzione di responsabilità del caso serio della fede. Una presa di consapevolezza che il nostro sale ha perso sapore e la nostra luce l’abbiamo posta sotto un secchio. In una parola: che non siamo ancora cristiani. Era questo il cuore della denuncia profetica: quel popolo, che avrebbe dovuto mostrare al mondo il sogno divino della vita buona, diventando luce per le genti, benedizione per tutte le famiglie della terra, ha dimenticato la differenza per la quale è stato eletto; non vive l’utopia del Sinai, preferendo tornare in Egitto. O meglio, continua ad ascoltare la parola della Torà, proclamata nel Tempio, senza che questa dia forma all’esistenza. La Parola è detta ma il suo significato non è più vissuto.
Allo stesso modo le Chiese, chiamate a essere comunità alternative, a mostrare in concreto il sogno del Regno di Dio, si ritrovano a ripetere quel sogno senza riuscire a farlo proprio e, dunque, impossibilitate a esercitare quel fascino che indica al mondo la via che conduce alla verità della vita. Non siamo certo noi a recare salvezza al mondo: è il Dio della grazia. Ma noi non possiamo liquidare la faccenda pensando che il nostro tradimento sia l’inevitabile tributo che anche i credenti pagano alla fragilità della condizione umana e che poi, alla fine, tutto viene risolto grazie alla misericordia divina. Per Geremia, come per tutti i profeti biblici, c’è un tempo in cui non si può fuggire dal patire le conseguenze del proprio fallimento. Ma non è un tempo in cui aggrovigliarsi nei sensi di colpa, in preda a una depressione collettiva in cui tutti si sentono sbagliati e indulgono al lamento. Piuttosto, è un tempo per compiere fino in fondo un’operazione di verità, a partire dall’interrogativo: che ne abbiamo fatto della fede?
Probabilmente l’insistenza su questo aspetto è anche frutto della mia appartenenza confessionale a una Chiesa – quella battista – che prova a dare forma alla fede nell’orizzonte della Riforma protestante. In questa tradizione interpretativa della fede cristiana vi è un’insistenza sul fallimento umano che invita a partire da qui, da questa operazione di verità sulla propria storia quale condizione di possibilità di un’esperienza di salvezza. Viviamo un tempo in cui i cristiani di tutte le Chiese sono chiamati a farsi carico anche delle colpe altrui, smettendo di denunciare le difficoltà dell’altro, superando la tentazione di leggerle come conseguenze di una teologia insufficiente, di un’ecclesiologia fallace, perché differenti dalla propria. Per cui è ovvio che i patriarchi ortodossi siano collaterali alle scelte dei politici che governano la nazione. Ci sembrano consequenziali di una precisa concezione del ministero ordinato gli abusi sessuali o finanziari di certo clero cattolico. E osserviamo con una certa compiaciuta ironia il fatto che le Chiese protestanti si svuotino, vista la giustificazione della secolarizzazione sbandierata dai loro teologi. Noi, che per secoli siamo stati abili a vedere le colpe altrui, siamo ora chiamati a portare i pesi gli uni degli altri (Galati 6,2). Iniziando dall’ascolto di questa parola profetica, che è rivolta proprio a noi. Geremia non prende il microfono all’ONU, non parla all’assemblea delle nazioni: parla a noi, a Israele, alle Chiese. Siamo noi che dobbiamo essere “luce per le nazioni”, mentre in realtà replichiamo il buio che le avvolge. Troppo facile la cultura della presa di posizione, secondo cui le Chiese si propongono come agenzie etiche, che si esprimono su questioni di rilevanza pubblica mandando messaggi di richiamo agli altri. Siamo noi ad aver interrotto il progetto divino della vita giusta; ad aver ridotto la Parola a marcatore identitario, non più operante nella vita. E a noi spetta guardare in faccia i nostri tradimenti, ricercandone le cause prossime e remote; tocca a noi smettere gli abiti degli avvocati d’ufficio e imparare a svolgere coraggiosamente una lettura al contropelo delle nostre storie.
Questa stagione di spaesamento possiamo leggerla come tempo propizio per un’interrogazione radicale sul senso della fede e per elaborare una lettura teologica dei nostri fallimenti.
L’incontro tra le Chiese
Ma il disorientamento non è solo il risultato dei nostri tradimenti. È la storia stessa a cambiare le carte in tavola. Non tutto dipende da noi. Ci sono situazioni che non controlliamo. Noi cristiani abbiamo in mente dei fini sempre uguali; ma viviamo in una storia in continuo mutamento. E quello che per noi è un bene, non è più eloquente per le successive generazioni. Lo spaesamento che patiamo sorge anche perché fatichiamo a discernere le diverse stagioni storiche, sfuggiamo un presente che, invece di capire, bolliamo come un tempo di rivincita dell’indifferenza, a cui provare a fare fronte. Geremia ci sollecita a leggere il nostro tempo, a mettere alla prova di questa stagione storica la Parola ricevuta. Un compito che le Chiese, accomunate nel tradimento del mandato ricevuto, possono provare a compiere insieme. L’ecumenismo è il grande dono che Dio ha fatto alle nostre Chiese: abbiamo iniziato a incontrarci e a confrontarci, riconciliando le memorie. Dobbiamo continuare a farlo: abbiamo bisogno di apprendere gli uni dagli altri, dalle tradizioni delle Chiese sorelle. Ma, insieme a questo, siamo chiamati a dare forma a un ecumenismo che guardi in avanti, che promuova un confronto su come le diverse Chiese cercano il bene, domandandoci reciprocamente: la tua Chiesa come discerne questo tempo? Con quale ipotesi di lavoro affronta il presente?
L’occhio penetrante del profeta, il suo corpo solidale con gli uomini e le donne del proprio tempo, la bocca che dice la parola di cui è portatore – parola senza sconti, persino impietosa – ci mostrano un modo di vivere la fede di cui abbiamo un estremo bisogno per non fuggire dalla scena storica, per abitarla con la consapevolezza dei nostri tradimenti e col desiderio di una conversione che è ritrovamento della fedeltà a Dio e a questo mondo, da Lui amato.
Partiamo da qui, da noi, che ci sentiamo disorientati, non sappiamo che cosa fare e che siamo chiamati ad attivare un ascolto a tutto campo, sciolto dalla fretta performativa. Con l’umiltà di chi riconosce di non essere migliore degli altri; e con la pazienza di chi non distoglie lo sguardo dai propri fallimenti né dal disorientamento di questo tempo complesso, prima di lasciarsi raggiungere dallo sguardo di Dio, che riapre i sentieri interrotti e rende feconde le nostre sterilità.