La speranza è già presente
Arturo Sosa SJ
Superiore generale della Compagnia di Gesù
Intervista a cura di Giuseppe Riggio SJ
L’inclusione è sempre meno “di moda”. Gli esempi sono numerosi, dalle recenti decisioni del presidente Trump a proposito dei programmi di aiuto umanitario alla diffusa colpevolizzazione di quanti “non ce la fanno”, come se fosse una loro responsabilità. La sensazione è che quando si parla di inclusione si debba ripartire dalle basi, senza dare nulla per scontato. Come definirebbe uno sguardo autenticamente inclusivo nella Chiesa e nella società di oggi? Che cosa lo può favorire e che cosa invece lo ostacola?
Il modo in cui intendo lo sguardo inclusivo è legato alla nostra esperienza di Gesù. Spesso ritorno alla lettura del secondo capitolo della Lettera ai Filippesi, che afferma che la nostra fede poggia sulla scelta di Gesù di farsi povero per arricchire l’umanità, senza aggrapparsi ai privilegi di essere Dio, ma svuotando se stesso: ciò gli permette di mettersi nei panni dell’altro. Anche noi cristiani siamo invitati a compiere il medesimo percorso, ad assumere lo stesso sguardo. Quando questo accade, allora l’inclusione tende all’eliminazione delle differenze, come quelle tra poveri e ricchi, tra chi è cittadino e chi è straniero, ecc. Su questo fondamento spirituale si innesta l’esperienza politica: nessuno si salva da solo, neanche un cristiano. Inoltre, come cristiani siamo chiamati a una vita comunitaria che non è ripiegata su se stessa, siamo chiamati a essere missionari, inviati a trasformare il mondo. Essere cristiano ed essere cittadino è praticamente la stessa cosa: non si può essere cristiani e ignorare quanto accade nel mondo.
Il più grande segno dell’ingiustizia sociale in questo tempo sono le migrazioni forzate: nel 2024 oltre 122 milioni di persone sono state costrette a lasciare le loro famiglie, città e nazioni per cercare altrove una possibilità di vita, affrontando spesso viaggi pericolosi e giungendo in Paesi che non riescono o non vogliono fare quanto possono per integrarli. Come del resto molte altre, questa situazione chiama in causa la politica e la presa di decisioni che riguardano l’intera società. L’intellettuale venezuelano Moisés Naim ha descritto l’attuale traiettoria politica globale attraverso tre “P”: populismo, polarizzazione, postverità. I politici invocano il popolo e dichiarano di volerne rispettare la volontà, ma di fatto lo usano come pretesto per realizzare quanto si propongono. I vari populismi hanno contribuito ad alimentare forti dinamiche di polarizzazione, con effetti disgreganti su molte società, accelerati anche dal ricorso alla postverità, che rende di fatto impossibile distinguere che cosa è reale e che cosa non lo è. Queste tre grandi tendenze rendono molto difficile mantenere uno sguardo inclusivo.
A fronte della continua ondata di notizie allarmanti di questi giorni ci possono essere da un lato la tentazione della fuga, di non informarsi più, dall’altro l’assuefazione. Ad esempio, le cifre relative ai migranti forzati sono impressionanti, ma sono spesso percepite solo come numeri, non come persone che hanno un volto. Questo ci impedisce di lasciarci colpire e interrogare da quanto accade, e quindi non siamo spinti a riflettere e ad agire, nemmeno su scala locale. Che cosa si può fare per contrastare questa dinamica che rende invisibile chi è povero, fragile, escluso?
Quello che mi ha colpito della realtà di San Marcellino è la possibilità che offre di incontrare faccia a faccia persone che molti considerano invisibili, restituendo loro la dignità. Ognuno qui ha la propria storia e viene accompagnato con un percorso personalizzato, non è un numero. La Chiesa e la Compagnia di Gesù sono chiamate a fare questo ancora di più: incontrare le persone faccia a faccia e accompagnarne i cammini di crescita, nella prospettiva del magis ignaziano. Si fa già molto, ma ho l’impressione che si possa e si debba fare di più, coinvolgendo anche altri.
Non si tratta di un cammino facile, come voi quotidianamente sperimentate a San Marcellino: è faticoso accompagnare con pazienza queste persone, ascoltarle e cercare veramente di restituire loro dignità. Per andare in questa direzione è necessaria una vera svolta politica. Penso che questo valga particolarmente riguardo alla gestione delle migrazioni in Italia e in Europa, perché il modo in cui trattiamo i migranti rivela la salute della nostra società: siamo capaci di guardare in faccia chi arriva nel nostro Paese? Siamo capaci di accogliere? Qui sta la vera sfida sociale e politica, che non può non riflettersi anche nelle nostre scelte di azione, incluso il nostro modo di informarci, di formarci un’opinione e di votare.
Come si può comprendere meglio questa vicinanza ai poveri, affinché possa animare un impegno più ricco e profondo per la giustizia sociale?
Con la 32a Congregazione generale, tenutasi nel 1975, la Compagnia ha definito la propria missione nei termini del servizio della fede e della promozione della giustizia, come esito di un cammino di ripresa delle proprie fonti e di lettura dei segni dei tempi in cui si trova a operare. Da allora il collegamento fra queste due dimensioni fondamentali ha assunto un ruolo centrale per il discernimento dei gesuiti.
In tale cammino di discernimento, abbiamo sempre di più compreso l’importanza del dialogo a diversi livelli: all’interno della Compagnia, con le realtà ecclesiali e civili, valorizzando le dimensioni interculturali e interreligiose. La giustizia sociale passa per la capacità di ascoltarsi e di dirsi chi siamo. Di lì è emersa, specialmente nelle ultime Congregazioni generali, la centralità della riconciliazione, che sembra il modo inclusivo di intendere la lotta per la giustizia: non è nascondendo il povero che finisce la povertà, ma creando una relazione dove a tutti è data la possibilità di partecipare alla salvezza.
Come si realizza questo processo di riconciliazione? È il cammino che ci mostra la vita stessa di Gesù, su cui è incentrata l’intera spiritualità ignaziana, ovvero la sequela di Cristo “povero e umile”. Potremmo dire che questi due aggettivi sono il cognome di Gesù, ciò che lo identifica. Ma di quale povertà stiamo parlando? Della capacità di non essere attaccati alla ricchezza, a luoghi particolari, all’etnia, alla nazione, ecc. Non si tratta di una povertà “sociologica”, ma di una forma di libertà interiore, che deve portare all’umiltà, intesa come capacità di mettersi veramente a servizio dell’altro, assumendo pienamente quello sguardo inclusivo di cui stiamo parlando.
Fare proprio un nuovo sguardo nella missione è quanto invitano a fare anche le quattro preferenze apostoliche universali che la Compagnia di Gesù ha adottato nel 2019 (cfr riquadro a p. 249). In che modo interagiscono tra loro e che orizzonte delineano per l’azione apostolica dei gesuiti nel contesto odierno?
Le preferenze apostoliche vanno considerate come quattro dimensioni inseparabili. Non sono il frutto di un piano strategico studiato a tavolino, ma di un discernimento, ossia di un’esperienza dello Spirito a cui hanno partecipato tantissime persone, gesuiti e non, che alla fine è stato offerto alla Chiesa, al Papa, il quale ha confermato l’esito a cui eravamo giunti e ci ha detto che questa è la nostra missione. È un punto importante: non siamo noi stessi a inviarci in missione, ma qualcuno ci invia. In questo caso è stato direttamente papa Francesco, che ha accompagnato il discernimento sulle preferenze apostoliche in tutte le sue tappe, fin da quando venne deciso di intraprenderlo nella 36ª Congregazione generale del 2016. Se si considerano poi i verbi utilizzati nella formulazione delle preferenze apostoliche – indicare, camminare insieme, accompagnare, prendersi cura – è chiaro che l’attenzione si concentra sul fare qualcosa con e per altri. Non si tratta allora di un piano operativo, ma una fonte di ispirazione, che deve aiutare quanti collaborano nella missione della Compagnia di Gesù a capire in che cosa consistano riconciliazione e giustizia.
Quale contributo può dare oggi la spiritualità ignaziana al cammino della Chiesa?
Uno degli elementi più importanti della spiritualità ignaziana è la fedeltà alla Chiesa. La Compagnia è nata al tempo della Riforma protestante ed entrambe hanno rappresentato una forma di risposta a un momento di crisi profonda della Chiesa. Se la Riforma ha scelto la via dell’opposizione radicale, la Compagnia ha optato per il cambiamento dall’interno, partendo dalla fedeltà alla Chiesa, Sposa del Signore.
Oggi, tale fedeltà si declina anche come adesione al cammino iniziato con il Concilio Vaticano II, che ha rappresentato la parola più forte della Chiesa negli ultimi cento anni. Prendere sul serio il Vaticano II non è dunque semplicemente un’opzione, ma una chiamata profonda e ineludibile, in particolare riguardo a due aspetti fondamentali: il primo riguarda lo sguardo ampio sulle dinamiche e sui processi globali di medio e lungo termine, come espresso nella costituzione apostolica Gaudium et spes (1965); il secondo riguarda la visione di Chiesa come comunità di battezzati, come popolo di Dio in cammino, un’intuizione che pare non essere stata ancora esplorata e vissuta in pienezza. L’ultimo Sinodo sulla sinodalità, a cui ho partecipato tra i rappresentanti della vita consacrata, ha tuttavia permesso di compiere un importante passo in avanti nella direzione di un ascolto più autentico delle varie componenti del popolo di Dio. La gran parte delle diocesi nel mondo è stata coinvolta in un imponente esercizio di ascolto e di dialogo, e questo è un passo immenso, è la base fondamentale per un discernimento autentico, per uscire da uno stile di governo puramente gerarchico e favorirne uno che valorizzi di più il modo in cui lo Spirito parla attraverso le varie componenti della comunità ecclesiale. Si tratta di un’impresa non facile, ma necessaria. Ne va della nostra capacità di leggere i segni dei tempi, il modo in cui lo Spirito ci parla in questo momento della storia.
Con riferimento al tema dell’anno giubilare in corso, quale può essere il messaggio di speranza che possiamo oggi cogliere a partire da questo sguardo inclusivo che nasce specialmente dall’ascolto dei più poveri?
“Speranza” è una parola molto difficile da spiegare, e ancora più difficile da vivere. In primo luogo, per noi cristiani essa rappresenta la convinzione, l’esperienza personale e comunitaria della presenza e dell’azione di Dio nella nostra vita e nella nostra storia. Il Signore l’ha promesso: Io sono con voi tutti i giorni, fino alla fine del mondo (Matteo 28,20). In secondo luogo, la speranza mostra come un altro mondo, un altro modo di relazionarsi tra noi sia possibile: nel servizio a San Marcellino questo viene già sperimentato. In terzo luogo, siamo chiamati a sentire che la speranza non è relegata a un futuro lontano, ma è qualcosa di già presente. Se non cominciamo noi stessi a vivere il cambiamento che desideriamo, quel cambiamento non avverrà mai: il mondo cambierà solo se cambiamo insieme, se viviamo adesso quello che proclamiamo. Questo mi sembra essere il messaggio più forte di questo anno giubilare.
Uno sguardo che include
Nicola Gay SJ
Presidente Fondazione San Marcellino, Genova
“Uno sguardo che include” è il titolo che abbiamo scelto per l’incontro con p. Arturo Sosa, Padre generale della Compagnia di Gesù, in occasione degli ottant’anni di servizio di San Marcellino.
Perché tale titolo? Abbiamo sentito questa significativa ricorrenza come un invito a riflettere sui cambiamenti di fondo della società di cui siamo parte, che è allo stesso tempo il luogo da cui scaturiscono gli aspetti positivi di crescita in umanità e quello da cui sorgono le difficoltà, che a volte si rivelano estremamente pesanti per tante persone, ancora di più per quelle che ci vengono a chiedere aiuto.
Pensiamo alla storia di San Marcellino: quando è nata, nel 1945, a Genova non c’erano persone senza dimora, ma molti sfollati, un terzo delle case erano state distrutte dalla guerra. A queste persone si rivolse p. Lampedosa insieme a molti genovesi con la Messa del Povero nella chiesa di San Marcellino, richiesta in uso ai padri orionini, dove la preghiera diventava aiuto concreto (pane, medicinali, vestiti, ecc.), ma anche accoglienza e successivamente sostegno all’inserimento in città delle molte famiglie che emigravano dall’Italia meridionale (oggi tante arrivano da fuori Italia). A metà degli anni ’80 invece abbiamo iniziato a incontrare molte persone che venivano a chiedere aiuto ed erano senza casa, così abbiamo deciso di focalizzare il nostro servizio su di loro, cercando di adattarci per poterle accompagnare.
Questa nostra storia ci ha fatto pensare che un modo per riconoscere i cambiamenti avvenuti in questi ottant’anni poteva essere quello di riflettere sullo sguardo: lo sguardo di chi ha bisogno di aiuto, lo sguardo di chi aiuta, ma anche lo sguardo della società sui poveri, sulle persone ai margini e su quelle che vivono nelle periferie esistenziali, come dice papa Francesco.
Pensiamo alla parabola del Samaritano (Luca 10,25-37): un uomo cade nelle mani dei briganti che gli portano via tutto, lo percuotono a sangue e lo lasciano mezzo morto in mezzo alla strada. Un sacerdote prima e un levita poi si imbattono in lui, ma entrambi lo vedono e passano oltre. Invece, un samaritano passandogli accanto, vide e ne ebbe compassione. Dallo sguardo diverso dei tre viandanti nasce uno stile di azione differente, solo chi prova compassione riesce a includere il moribondo nella sua vita, decidendo che la sua sorte lo riguarda.
Fondata nel 1945, San Marcellino è un’opera sociale dei gesuiti a Genova, realizza servizi a favore delle persone senza dimora ed è attiva nel campo culturale attraverso ricerche, conferenze pubbliche, formazioni, mediazione comunitaria e altre iniziative, attingendo la sua ispirazione dalla spiritualità ignaziana. Giuridicamente si compone di un’Associazione che concretizza i servizi alla persona nella loro articolazione tra ascolto, accoglienza, educazione, animazione; e di una Fondazione che assicura la coerenza di indirizzo tra le varie attività, offre servizi amministrativi, promuove le attività culturali e cura i rapporti istituzionali. L’obiettivo di tutte le attività è promuovere la dignità umana di chi vive “sulla strada”. San Marcellino ha elaborato una metodologia di accompagnamento personalizzata, dove ognuno può sentirsi accettato e riconosciuto, non tanto per i bisogni che presenta, ma per le qualità che esprime, fino a rendere la diversità una risorsa.
Questo sforzo di includere, che non si limita al bisogno ma è attento alla persona nel suo insieme, nella sua umanità, è sempre stato presente in San Marcellino. Ad esempio, alle persone sfollate che venivano a chiedere aiuto, alle famiglie che cercavano di integrarsi in Genova, erano offerti momenti di distensione e di svago. Negli ultimi anni questa attenzione è cresciuta non solo attraverso i servizi, come il bar La Svolta e l’apertura recente del centro culturale SMacc (San Marcellino arte cultura creatività): abbiamo promosso incontri culturali, di riflessione e approfondimento, affrontando i vari ostacoli che sembrano rendere più difficile l’inclusione. È il caso, ad esempio, del problema della residenza o della carenza di abitazioni a prezzo abbordabile, difficoltà ultimamente aggravata dal proliferare degli alloggi per turisti. Abbiamo organizzato anche momenti di confronto e riflessione su come i cambiamenti del diritto abbiano portato a far crescere poco alla volta le disuguaglianze sociali, a provvedere sempre meno alle difficoltà dei poveri, aumentando così il numero delle persone che la nostra società di fatto rende come scarti.
Constatiamo con sofferenza che negli anni anche nella nostra società sta crescendo questo clima sempre meno incline all’accoglienza e all’inclusione, tanto che a volte si arriva a proporre il rifiuto, l’espulsione dei poveri, dei diversi. Anche noi rischiamo di essere influenzati da questa situazione, ne siamo consapevoli, e per questo cerchiamo di fare molta attenzione al nostro modo di operare. Riconosciamo che anche a Genova a volte vi è la tendenza a percepire le persone in difficoltà solo come problemi. Così si cerca di nasconderle quando sono per strada, di renderle più invisibili, invece di affiancarle perché riescano poco alla volta, col tempo necessario e con la indispensabile vicinanza, a riprendere fiducia in sé e negli altri, a creare legami nuovi, magari a ristabilirne qualcuno di quelli precedenti, a ritrovare la gioia di vivere e a tornare ad essere in grado di contribuire, secondo le proprie possibilità, al bene comune.
Non è facile, ma le molte difficoltà superate in ottant’anni di storia ci danno speranza in questo Anno Santo di poter continuare a svolgere il nostro servizio, possibile grazie al contributo di tante persone che col lavoro, col volontariato, con la vicinanza e il sostegno ci appoggiano e ci incoraggiano, ci confermano che è bello guardare la realtà con gli occhi del samaritano.