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Israele e Palestina dopo un anno di guerra. La società civile è più avanti dei suoi leader

Fascicolo: dicembre 2024

In questo anno di guerra è stata parecchie volte in Israele e Palestina. Come organizza i viaggi? Che difficoltà incontra?

Dopo l’attacco del 7 ottobre 2023 sono stata cinque volte in Israele e Palestina, l’ultima a partire dal 25 settembre 2024 per alcune settimane, dunque per l’anniversario dell’attacco. Generalmente faccio base a Gerusalemme, e da lì mi sposto. Tanto in Israele quanto in Cisgiordania c’è libertà di movimento, sono stata anche al confine con il Libano, tuttavia non si può vedere molto di quel conflitto. A Gaza invece è impossibile entrare, è una guerra combattuta senza giornalisti ed è una grande vergogna che la comunità internazionale accetti questa situazione. Il Governo israeliano adduce motivi di sicurezza per questo divieto, ma come la maggior parte dei colleghi io sono convinta che la sicurezza dei giornalisti non competa a Israele, ma alla testata che li invia e che in fin dei conti sia soprattutto una questione personale: se una persona decide di assumersi il rischio, dovrebbe essere libera di entrare e fare il proprio lavoro. Il divieto invece impedisce una corretta rappresentazione del conflitto perché non permette di avere una controprova da una fonte indipendente: gli unici giornalisti presenti a Gaza sono palestinesi, e diventa troppo facile per il Governo israeliano sostenere che sono collaborazionisti di Hamas e che quindi tutte le notizie che diffondono sono gonfiate.

 

Che cosa l’ha colpita di più nell’entrare in contatto con la popolazione di Israele e Cisgiordania?

La cosa che più mi ha sorpreso in quest’ultimo anno – e questo vale per Israele come per la Cisgiordania – è di essermi trovata di fronte a società assai meno monolitiche di quanto mi aspettassi. Mi sono resa conto che in Occidente siamo prigionieri di uno stereotipo molto pericoloso, che continua a essere rilanciato, ovvero che tutti gli israeliani siano favorevoli a questa guerra e che tutti i palestinesi siano favorevoli al terrorismo di Hamas. Questo stereotipo non rende giustizia a due società che sono abitate da molte anime diverse. Il sostegno alla guerra c’è, da entrambe le parti, ma non è unanime e le sue ragioni vanno comunque indagate.

Lucia Capuzzi è nata a Cagliari il 10 marzo 1978. Dopo la laurea in Scienze politiche, ha conseguito il dottorato di ricerca in Storia dei partiti e dei movimenti politici all’Università di Urbino, svolgendo una tesi sull’emigrazione italiana in Argentina nel secondo dopoguerra. Da questo studio è nato La frontiera immaginata. Profilo politico e sociale dell’emigrazione italiana in Argentina nel secondo dopoguerra (FrancoAngeli, 2006). Dal 2004, dopo il master all’Università Cattolica, ha intrapreso la professione giornalistica. Attualmente lavora nella redazione Esteri di Avvenire come inviata e si occupa in particolare di America latina.

Oggi, dopo un anno di guerra, in entrambe le società prevale la disillusione. Ad esempio, da entrambe le parti, sono sempre più numerose le persone che lasciano il Paese. Questo è molto più semplice per gli israeliani, che spesso sono cittadini anche di un altro Paese, e molto più complicato per i palestinesi. Quelli che partono dicono di farlo non per sé stessi, ma per i figli, perché non vogliono farli crescere in un contesto in cui non vedono un orizzonte di futuro diverso dalla guerra. A mancare sono le alternative. Così, per quanto possa suonare paradossale, alla fine questa terra tanto contesa rischia di diventare un luogo dove non vuole vivere nessuno.

 

Cominciamo da Israele: che Paese è oggi, a un anno dal 7 ottobre e dall’invasione di Gaza? Che cosa significa questa guerra per gli israeliani?

Quello che è sempre più evidente è che via via che la guerra si è protratta, è scemato il sostegno della popolazione. All’inizio era più ampio, sulla base di una reazione emotiva, di una paura che aveva risvegliato il fantasma di un nuovo olocausto. Ma ormai si può stimare che il 70% degli israeliani vorrebbe un cessate il fuoco. Me ne sono resa conto nel mese di maggio. Ero a Gerusalemme quando si sono diffuse notizie secondo cui una tregua era a portata di mano: la gente è scesa in strada a festeggiare, e parlo di cittadini israeliani, non dei palestinesi o dei gazawi [gli abitanti di Gaza, N.d.R.].

La società israeliana è vivace e molto plurale. Ci sono gruppi pacifisti, che non sono morti il 7 ottobre, ma hanno continuato a costruire ponti. Le loro attività si sono moltiplicate e oggi tengono in piedi la società civile israeliana. Certamente ci sono anche dei gruppi favorevoli alla guerra, su cui una certa parte politica lavora per conservare il potere. Poi c’è una maggioranza silenziosa, che non è guerrafondaia, ma semplicemente non vede alternative. Anzi, questa maggioranza non è nemmeno più tanto silenziosa, perché le iniziative di protesta si vanno moltiplicando, anche se dall’estero risultano invisibili perché non ottengono copertura mediatica. Ci sono ad esempio trenta persone in sciopero della fame davanti al Parlamento, ci sono coloro che rifiutano l’arruolamento e persino le minacce di uno sciopero dei militari, che sarebbe uno choc visto il posto che l’esercito occupa nella società israeliana. Quello che manca è una rappresentanza politica che traduca in azione tutto questo fermento. A livello politico, i discorsi della maggioranza e dell’opposizione variano nei toni, ma non nella sostanza.

 

Ma allora come mai il primo ministro Netanyahu e il suo Governo sono ancora al potere? Su che cosa basano la loro forza?

Tutti i sondaggi dicono ormai pubblicamente che il Governo di Netanyahu ha il sostegno di un terzo della popolazione. Si sente spesso dire che l’opposizione a Netanyahu non si traduce in un’opposizione alla guerra per via della paura o dell’odio per i palestinesi. In realtà la guerra ha ormai prostrato la società, c’è una crisi economica molto forte, i prezzi salgono, il turismo è fermo e le attività economiche sono bloccate. Le persone fanno fatica a investire e aprire nuove attività, perché pensano che nel giro di qualche anno una nuova guerra le farà chiudere.

Resta allora la domanda su che cosa mantenga Netanyahu al potere. La risposta sta probabilmente in quello che Naomi Klein in un recente articolo1 ha definito l’uso politico del trauma. Per molti versi la società israeliana è ferma al 7 ottobre. Anche se i giornali indipendenti fanno un lavoro straordinario, la televisione e i social ripropongono in continuazione il racconto del 7 ottobre e dei suoi orrori: la mamma che ha salvato il bambino, la donna che è stata stuprata, ecc. Il Governo ha una straordinaria capacità di continuare ad alimentare la paura, trasformandola nel mezzo che lo mantiene al potere. Ma in questo modo inchioda la società a quel trauma, le impone di riviverlo in continuazione e le impedisce di superarlo, come dopo un anno sarebbe naturale. Anche il circuito della memoria che si è attivato dopo il 7 ottobre, con le visite ai luoghi dell’orrore e gli incontri con i sopravvissuti, sembra avere come obiettivo proprio alimentare la paura e sostenere la narrativa ufficiale che vede in Hamas i nuovi nazisti.

 

Poco fa ha menzionato la vivacità del mondo pacifista israeliano. Ci può dire qualcosa di più a riguardo?

Innanzi tutto i pacifisti sono tanti e organizzati: è la prima cosa che colpisce chi viene dall’Europa. Tanto in Israele quanto in Palestina ci sono organizzazioni miste, con aderenti di entrambe le parti, e organizzazioni indipendenti che poi lavorano insieme a cavallo della frontiera. Ma soprattutto quello che colpisce è che il pacifismo dentro una società che sta vivendo un conflitto armato non ha nulla di quei toni naïf, ingenui o idealisti con cui viene spesso connotato qui da noi. I gruppi pacifisti sono fatti da persone che conoscono la guerra dal di dentro, perché ne sono stati colpiti, ad esempio hanno perso una persona cara. Alcuni la conoscono perché l’hanno fatta: penso a Combatants for Peace (Combattenti per la pace, <https://cfpeace.org>), che sono ex soldati ed ex miliziani. Il loro pacifismo non è frutto di ingenuità o di idealismo, ma di grande realismo: si rendono conto che il sistema della guerra è insostenibile nel lungo periodo e non porta a nessun risultato, mentre la soluzione è accettare che nessuno se ne andrà via e trovare il modo per rendere la vita un po’ più sopportabile a entrambe le parti. Generalmente si tratta di persone con un alto livello di istruzione, animate da un grande pragmatismo: cercano risposte concrete, spinte dalla consapevolezza che occorre trovare un compromesso, in cui tutti perdono qualcosa, ma anche guadagnano qualcosa.

I gruppi pacifisti hanno origini e retroterra molto diversi. Alcuni hanno una base religiosa, come i Rabbis for Human Rights (Rabbini per i diritti umani, <www.rhr.org.il>), il cui responsabile è Avi Dabush, un sopravvissuto del 7 ottobre che ho incontrato mentre andava a raccogliere le olive insieme ai contadini palestinesi in appezzamenti vicini al muro che separa Israele dalla Cisgiordania, rendendo così meno probabile un attacco da parte delle guardie di frontiera e dei coloni. Ci sono i gruppi di persone che hanno perso i propri cari in guerra e associazioni di donne, come Women of the Sun (Donne del sole, <https://womensun.org>), palestinese, e Women Wage Peace (Le donne dichiarano la pace, <www.womenwagepeace.org.il>), israeliano. Ci sono i gruppi di coloro che rifiutano la leva e i gruppi di veterani che denunciano la realtà della guerra e dell’occupazione dei territori, come Breaking the silence (Rompere il silenzio, <www.breakingthesilence.org.il>).

I gruppi pacifisti sono molto numerosi e quello che colpisce è che sanno lavorare insieme. Soprattutto sanno parlarsi con franchezza tra israeliani e palestinesi, e hanno continuato a farlo anche subito dopo gli attacchi del 7 ottobre 2023, quando era più difficile.

 

Quale posto occupano le donne all’interno della galassia dei movimenti pacifisti? Quali sono le caratteristiche del loro impegno?

Per parlare delle donne bisogna cominciare da quella che è diventata il simbolo più evidente dell’assurdità del 7 ottobre, Vivian Silver: canadese di origine, femminista, trasferitasi in Israele, era tra le fondatrici di Women Wage Peace. Il 4 ottobre 2023, Vivian Silver e Women Wage Peace hanno contribuito a organizzare una manifestazione per la pace a Gerusalemme che ha visto la partecipazione di 1.500 donne israeliane e palestinesi.
Dopo una vita di militanza per la pace, il 7 ottobre Vivian Silver è stata uccisa dai miliziani di Hamas nel kibbutz Be’eri, dove abitava.

Convinta che le donne avessero un ruolo fondamentale da giocare per la costruzione della pace, ha creato un movimento di donne che partiva da una richiesta molto immediata delle madri: «Basta uccidere i nostri figli». Questo movimento ha trovato una sponda dal lato palestinese in Women of the Sun, nato per opera di una donna residente nel campo profughi di Betlemme, in una società molto più maschilista e patriarcale di quella israeliana, in cui opporsi alla guerra come donne richiedeva anche di rompere dei tabù. La richiesta originaria è molto simile: queste donne hanno cominciato a chiedere ai loro figli di non andare a combattere per gruppi armati che li avrebbero trattenuti come carne da cannone per i loro interessi. Questa consapevolezza è andata crescendo. Israele resta il nemico, perché è Israele che tutti i giorni bombarda e distrugge case e villaggi, ma i palestinesi sanno benissimo che Hamas li sta sfruttando per i propri scopi.

Le donne sono protagoniste nella ricerca di una soluzione alternativa condivisa, non per amore dell’altra parte, ma per la necessità di rendere la vita vivibile.

 

Continuiamo allora a parlare della parte palestinese: che situazione si vive in Cisgiordania oggi?

Partiamo da un dato di realtà. Se in Israele la popolazione è all’oscuro di quanto sta accadendo a Gaza, perché non viene informata, in Cisgiordania invece sanno tutto, perché le Tv arabe trasmettono solo gli orrori di Gaza. Poi la Cisgiordania vive una crisi economica ben più lancinante di quella israeliana, sia perché il flusso dei pellegrinaggi si è arrestato, e quindi anche il relativo indotto, sia perché Israele ha sospeso i permessi di lavoro di persone che ogni giorno varcavano la frontiera. Si calcola che si tratti di oltre 150mila persone, circa il 20% della forza lavoro della Cisgiordania, che si è ritrovata disoccupata da un giorno all’altro. Eppure, in oltre un anno, nonostante l’estremo dolore, nonostante tutti in Cisgiordania abbiano parenti a Gaza, non è scoppiata la terza intifada, a differenza di quello che molti si aspettavano. Questo dice che non è vero che tutti i palestinesi stanno con Hamas, ma piuttosto che non sono più disposti ad andare a morire per gruppi armati che li usano per i propri fini, in primo luogo per restare al potere.

Paradossalmente oggi è Israele che sta facendo un favore ad Hamas, continuando i raid notturni che stanno distruggendo ogni cosa. Ormai a Jenin e a Tulkarem non è rimasto nulla e questo non fa che alimentare l’odio verso Israele. Tuttavia questo odio e questa rabbia non conducono i palestinesi della Cisgiordania ad abbracciare le posizioni di Hamas. In cuor loro, sanno che il 7 ottobre è stata una calamità: hanno perso il lavoro, ogni notte subiscono i raid israeliani. Ma sanno anche che il tipo di resistenza che propone Hamas non porta a nessun risultato. Al di là dei proclami retorici, nella società palestinese come in quella israeliana ci sarebbe la disponibilità per una soluzione di compromesso, che sarebbe comunque migliore della situazione attuale. Tuttavia mancano leader in grado di raccogliere questa disponibilità e trasformare questo sentimento in una proposta politica. Il tema è dunque una mancanza di leadership, nei due Paesi ma anche a livello internazionale.

 

Appunto: quanto pesano gli scenari geopolitici globali su questo conflitto? E che cosa potrebbe cambiare con la vittoria di Donald Trump alle elezioni statunitensi? E infine: l’Europa può avere un ruolo, e quale?

L’Europa è inesistente, lo abbiamo mostrato anche questa volta, con una leadership che, secondo lo spirito dei tempi, si accoda ai sondaggi e all’ultimo urlo popolare, senza indagare gli umori profondi della società e provare a catalizzarli verso qualcosa di buono.

Detto questo, è chiaro che le elezioni statunitensi sono un tassello fondamentale della vicenda, fin dall’inizio: se il 7 ottobre fosse capitato nel primo anno di presidenza, anziché nell’ultimo, probabilmente gli Stati Uniti avrebbero avuto margini di azione diversi. In ogni caso, a mio modo di vedere, il presidente Biden ha gestito malissimo la vicenda, non è riuscito o non ha voluto assumersi una responsabilità forte, e questa è una delle cause della sconfitta di Kamala Harris, che è stata vista come la sua erede politica. Trump al contrario non ha problemi a prendere posizioni decise.

Così probabilmente ora le cose cambieranno, ma in peggio. Una certa retorica afferma che durante il mandato di Trump non sono iniziate guerre. C’è un elemento di verità, che va però scandagliato più profondamente, perché sono molte le situazioni create da Trump che successivamente sono esplose come guerre. Possiamo pensare al ritiro delle truppe statunitensi dall’Afghanistan, che ha aperto le porte ai talebani, o all’aver posto fine all’accordo sul nucleare iraniano, che ha portato a una maggiore conflittualità con l’Iran, tradottasi anche in finanziamenti più cospicui a favore di Hamas. Nessuno ha la sfera di cristallo, ma è già abbastanza chiaro che Trump ha una sintonia piuttosto forte con Netanyahu, il cui progetto politico è il grande Israele, ovvero l’annessione dei territori attualmente occupati in modo da rendere di fatto impossibile la nascita di uno Stato palestinese. Verosimilmente possiamo attenderci un’ulteriore crescita degli insediamenti illegali, cioè dell’occupazione da parte di coloni israeliani di porzioni di territorio palestinese, mettendo così la politica di fronte al fatto compiuto.

Per altri versi, è chiaro che nessun presidente statunitense desidera l’esplosione di una guerra in Medio Oriente, così anche Trump cercherà di porre termine al conflitto. Il problema sono le sue condizioni e quanto lascerà la mano libera a Netanyahu, ad esempio rispetto al progetto di una parte della destra israeliana di riportare le colonie anche a Gaza, attraverso l’annessione della zona nord, o la creazione di una fascia cuscinetto che comprenda circa un terzo del territorio di Gaza. Si dice che sia questo lo scopo dell’invasione di quel territorio, che difficilmente risponde a un obiettivo strategico, giacché si può presumere che dopo tre offensive Hamas non sia più presente in quell’area. Il problema è che una pace fittizia sarà inevitabilmente di breve durata e condurrà all’esplosione di un nuovo conflitto.

Ma la mia preoccupazione più grande riguarda chi assumerà l’amministrazione di Gaza alla fine del conflitto, visto che l’Autorità nazionale palestinese non sembra disposta a farlo e Netanyahu non vuole. Si sta lavorando per un governo civile e per una nuova leadership?

 

In Israele, e ancor di più in Palestina, sono presenti anche comunità cristiane, in maggioranza arabe. Come vivono questo momento?

I cristiani, soprattutto quelli palestinesi, vivono una situazione che è ancora più dolorosa, perché sono una minoranza e questo li rende più fragili, e perché la situazione di crisi generalizzata li tocca ancora di più. Ad esempio erano particolarmente coinvolti nel circuito dei pellegrinaggi e quindi dal 7 ottobre 2023 vivono una crisi economica spaventosa.

In linea generale, come spesso accade alle minoranze, i cristiani palestinesi sono comunità abbastanza ripiegate al proprio interno, e non riescono o fanno fatica a intercettare i movimenti e le iniziative in senso positivo che sono presenti in entrambe le società. Ad esempio, mi avrebbe fatto piacere incontrare dei cristiani impegnati a raccogliere le olive insieme ai Rabbis for Human Rights, o vederli in prima linea nelle manifestazioni pacifiste, ma sono ancora troppo pochi. Ci sono iniziative interessanti, ad esempio a Gerusalemme c’è un gruppo di cristiani che prova a riflettere sulla società e a gettare ponti verso le altre comunità, ma ci sarebbe bisogno di intensificare gli sforzi in questo senso. Una testimonianza molto bella è quella della parrocchia di Gaza: una comunità che – come ripetono molto spesso – ha fatto la scelta di non odiare, nonostante la situazione sia difficilissima. Per quanto riguarda le comunità cristiane che vivono in Israele e Cisgiordania, secondo me si dovrebbe lavorare sulla creazione di legami e reti per essere incisivi.

 

Come italiani, come europei e come cristiani possiamo solo stare a guardare o c’è qualcosa che possiamo fare?

Certamente ci sono cose che possiamo fare, e a vari livelli. La prima è smettere di dividerci in pro palestinesi e pro israeliani, perché non ha senso e non aiuta nessuno: i primi a dircelo sono proprio i pacifisti palestinesi e israeliani, che invece continuano a lavorare insieme. Anzi, proprio perché là la polarizzazione è così forte, dovremmo lavorare per smorzarla, anziché dividerci in fazioni anche qui. Dobbiamo piuttosto fare alleanza con quei gruppi che all’interno delle due società, palestinese e israeliana, parlano di convivenza per farli incontrare e aiutarli a parlarsi.

Una seconda cosa che possiamo fare riguarda noi giornalisti e il mondo dei media: dobbiamo chiederci con quali criteri scegliamo quello che raccontiamo delle vicende che riguardano Israele e Palestina. I nostri racconti puntano ad aiutare la comprensione dei fenomeni o vogliono solo rinforzare gli stereotipi? Aiutare a comprendere serve, ribadire gli stereotipi no.

Come cittadini, credo che dobbiamo innanzi tutto chiederci se vogliamo lasciare il pacifismo nel catalogo delle buone intenzioni, a fare gli ingenui che in piazza sventolano la bandiera della pace, o se siamo disponibili ad assumerci una responsabilità ben precisa: i Paesi e i popoli che non vivono una situazione di guerra hanno il dovere di aiutare e sostenere quei Paesi e quei popoli che invece ne sono vittime. Possiamo farlo costruendo alleanze con quei gruppi e quelle realtà della società civile – come abbiamo visto sono davvero numerose – che provano a costruire percorsi alternativi. Questi gruppi hanno delle proposte e delle idee e, visto che la politica israeliana e quella palestinese vivono uno dei punti più bassi della loro storia, chiedono di poter avere un’interlocuzione con i grandi leader mondiali. Non è vero che non ci sono partner per la pace, semplicemente non sono quelli istituzionali perché non stanno svolgendo il loro ruolo.

Allora, anziché dividerci a nostra volta, potremmo chiedere che queste voci siano ascoltate e prese sul serio, anche in termini di sostegno economico. Il grosso dei finanziamenti a Israele riguarda le armi, mentre sulla costruzione della pace e della non violenza si sono sempre investite le briciole. Invece c’è bisogno di occasioni di incontro, che aiutino a diminuire la polarizzazione. Uno dei grossi problemi pratici è che israeliani e palestinesi frequentano scuole diverse, per cui non si incontrano e non imparano a conoscersi. Per quanto possa sembrare banale, programmi che favoriscano l’incontro tra le scuole possono rivelarsi molto efficaci.

Un sostegno internazionale darebbe molta forza a iniziative e gruppi come quelli di cui abbiamo parlato: tocca a noi cittadini fare in modo che i nostri leader glielo accordino.

 

1 Klein N., «Israele usa il suo trauma come un’arma di guerra», in Internazionale, 18 ottobre 2024.

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