A sessant’anni dalla firma dei Trattati di Roma, presentiamo una riflessione sul significato attuale dell’Unione Europea, perché non rimanga qualcosa di distante da cittadini e Governi nazionali, ma possa diventare un punto di riferimento per la società civile attraverso la pratica della solidarietà.
I sessant’anni dalla firma dei Trattati di Roma del 1957 – un anniversario minore che probabilmente sarebbe passato inosservato ai più – sono divenuti un appuntamento simbolico per il futuro dell’Unione Europea (UE).
Il 25 marzo i leader europei si ritroveranno a Roma non per celebrare un evento del passato (la costituzione della Comunità economica europea e della Comunità europea dell’energia atomica, le progenitrici dell’attuale UE insieme alla Comunità europea del carbone e dell’acciaio),
ma per tentare di porre le fondamenta di un rilancio del progetto dell’Unione, divenuto tanto più urgente dopo gli eventi degli ultimi mesi, dalla Brexit alla crescita dei partiti euroscettici in diversi Paesi, all’elezione di Donald Trump a presidente degli Stati Uniti.
Senza sovraccaricare l’incontro romano di un’enfasi retorica eccessiva, alla fine dannosa, si percepisce che per alcuni leader esso non potrà limitarsi a una semplice operazione di
maquillage istituzionale con dichiarazioni solenni ma di scarso impatto concreto. Piuttosto è considerato la prima tappa di un ben più ampio processo di rifondazione della UE, la cui bontà ed efficacia riteniamo che dipenderà in buona misura da una lettura attenta della realtà odierna e dall’ascolto dei diversi orientamenti e umori presenti nelle società civili europee.
Istantanee a confronto: 1957-2017
Mettere a confronto le fotografie scattate al momento della firma dei Trattati di Roma nel 1957 e quelle dei recenti incontri è un primo modo per avere una percezione della situazione attuale e della strada compiuta dalle istituzioni europee nel corso di questi sessanta anni (cfr l’infografica qui a p. 242).
Il gruppo dei sei Paesi fondatori (Belgio, Francia, Germania, Italia, Lussemburgo e Paesi Bassi) si è ampliato man mano fino a 28 membri, ma
le motivazioni che nel corso degli anni hanno spinto i vari Stati a costituire o ad aderire alle istituzioni europee sono ben diverse. I Paesi fondatori avviarono il processo di integrazione perché l’Europa non fosse più distrutta materialmente e moralmente da un conflitto bellico, come era accaduto per ben due volte nella prima metà del secolo scorso. Le resistenze francesi a perseguire una cooperazione più stretta nel campo della difesa portarono alla scelta dell’economia come terreno per realizzare l’integrazione e superare le rivalità nazionali. L’economia era perciò strumentale a un progetto più ampio e di carattere politico: costruire un’inedita
pax europaea, progetto ambizioso e lungimirante, che si è tradotto in realtà, come ha anche riconosciuto l’attribuzione del Nobel per la pace alla UE nel 2012. Il mercato comune e i benefici che ne derivano per le economie nazionali hanno giocato un ruolo centrale nell’adesione dei Paesi dell’Europa settentrionale (Danimarca, Gran Bretagna e Irlanda nel 1973; Finlandia e Svezia nel 1995): la motivazione economica ha pesato più della condivisione di una visione politica sul futuro del continente europeo. Invece i tre Paesi dell’Europa meridionale (Grecia, Portogallo e Spagna) e quelli dell’ex blocco comunista hanno aderito alla UE mossi soprattutto dalla convinzione di poter essere aiutati nella transizione da poco iniziata da regimi dittatoriali alla democrazia. La scelta europea era funzionale alla stabilità nazionale ed era considerata da parte degli Stati dell’Europa orientale una via per uscire dall’area di influenza russa.
Anche i campi e le modalità di collaborazione tra gli Stati membri si sono ampliati e approfonditi rispetto a quanto previsto agli esordi delle istituzioni europee. L’euro, la moneta comune adottata da 19 Paesi, e l’accordo di Schengen sulla libera circolazione delle persone sono i risultati più noti, ormai entrati a far parte della nostra quotidianità, della progressiva integrazione realizzatasi a livello europeo. Il processo compiuto in questi decenni è stato di certo facilitato – e al contempo ha concorso a renderlo possibile – da un ciclo economico per lungo tempo di segno positivo e dal sostegno degli Stati Uniti.
Ma sfogliando l’album delle foto avremmo anche la percezione che
qualcosa si è rotto. Già da tempo
non mancavano segnali preoccupanti e poi è arrivato l’esito del referendum britannico a favore della Brexit, segnando la fine di un’idea, che forse era anche un sogno: l’irreversibilità del processo di integrazione europea, destinato a estendersi progressivamente a tutte le nazioni europee. Negli ultimi anni le vicende della Grexit, ossia la possibile uscita della Grecia dall’euro a causa del suo elevato debito pubblico, e le difficoltà con cui devono misurarsi i cosiddetti PIGS (Portogallo, Italia, Grecia e Spagna) rivelano alcuni
malfunzionamenti del sistema della moneta unica e la problematica solidarietà tra gli Stati membri della UE divisi, almeno nelle rappresentazioni mediatiche, tra i Paesi rigoristi dell’Europa settentrionale e i poco virtuosi Paesi dell’Europa meridionale. D’altronde, sono proprio questi ultimi a subire le conseguenze più gravi della crisi economica, iniziata nel 2008, a livello di disoccupazione e di crescenti diseguaglianze. L’assente o difficoltosa solidarietà tra gli Stati membri, o quanto meno la scarsa capacità di collaborare e operare in modo coordinato, è una nota comune ad almeno un altro ambito che costituisce oggi un vero e proprio banco di prova per la UE:
la crisi umanitaria, determinata dall’afflusso di richiedenti asilo e migranti soprattutto dal Medio Oriente o dall’Africa subsahariana, che
ha visto reazioni diverse e talora scomposte da parte degli Stati membri e le discutibili soluzioni messe in atto nel quadro della politica europea di asilo (cfr JRS Europe,
The CEAS reform package: the death of asylum by a thousand cuts?, in <
https://jrseurope.org/>).
L’Europa si scopre poi più vulnerabile a causa del senso di insicurezza presente nella popolazione, tanto accresciutosi dopo gli attentati terroristici islamisti che hanno colpito la Francia, il Belgio e la Germania, e dei timori suscitati dalle scelte politiche del Governo polacco e di quello ungherese in tema di rispetto dei diritti umani.
Queste riflessioni si intrecciano a quelle sul mutato scenario politico a livello internazionale
dopo l’elezione di Donald Trump. I suoi primi provvedimenti, coerenti con le promesse che aveva fatto in campagna elettorale, rimettono in discussione alcuni pilastri che reggevano dal secondo dopoguerra le relazioni tra le due sponde dell’Atlantico:
la UE non è più riconosciuta come partner strategico a livello economico e interlocutore privilegiato nelle questioni internazionali, che può beneficiare del sostegno militare statunitense. D’altronde, Trump non ha mai nascosto il suo giudizio negativo sul progetto di integrazione europea e ha apertamente lodato la Brexit, affermando di voler rafforzare la relazione speciale tra gli Stati Uniti e la Gran Bretagna a scapito – è sottinteso – della collaborazione con la UE in quanto tale.
La seducente tentazione “sovranista”
In questo scenario di chiaroscuri,
diventano sempre più forti i partiti e movimenti politici antieuropeisti, che fanno leva su alcuni dei temi prima richiamati (crisi economica, migranti e terrorismo) per guadagnare consensi. La denuncia delle politiche condotte dalla UE, ritenute insufficienti e dannose, e la debolezza dei Governi nazionali sono gli argomenti principali avanzati per sostenere la tesi che bisogna abbandonare definitivamente l’esperienza europea e ritornare alla sovranità nazionale. Si sta delineando una contrapposizione inedita: «siamo di fronte a due nuove polarità, che superano le antiche categorie di destra e di sinistra e sono chiusura “sovranista” e apertura “integrazionista”» (D’Angelo R. [ed.], intervista a Enrico Letta, «Letta: “Noi europeisti contro i sovranisti”», in
Avvenire, 31 gennaio 2017). Il programma elettorale per la presidenza della Repubblica francese di Marine Le Pen, leader del Front National, è ben esemplificativo di questo approccio, in cui la rivendicazione della sovranità è proposta come soluzione ai problemi attuali: rivendicazione orgogliosa dell’appartenenza alla nazione francese, promessa in caso di vittoria dell’uscita dalla NATO, ridimensionamento dell’impegno francese nella UE, oltre a una virata protezionista in campo economico.
Innegabilmente
il richiamo alla sovranità nazionale da parte di alcune forze politiche esercita una pressione potenzialmente disgregatrice rispetto al progetto della UE. La tensione che ne deriva potrebbe divenire particolarmente seria nel corso del 2017, dato che nei Paesi Bassi, in Francia e in Germania – e forse in Italia – si svolgeranno elezioni importanti e dall’esito incerto. Se dovessero prevalere forze politiche dichiaratamente antieuropee e fossero attuati i loro programmi di uscita dall’euro o dalla UE, le conseguenze sarebbero difficili da immaginare per il futuro dell’Unione e dei singoli Stati.
L’enfasi posta sull’opzione “sovranista” come soluzione delle difficoltà sperimentate dai cittadini a livello economico, di sicurezza da minacce terroristiche e scudo all’arrivo di migranti
è più retorica che reale, sottovalutando volutamente i vincoli con cui una nazione europea fuori dal contesto della UE dovrebbe comunque fare i conti nell’epoca della globalizzazione. Con una valutazione nel segno della
realpolitik Donald Tusk, presidente del Consiglio europeo, ha scritto al riguardo che: «La disintegrazione della Unione Europea non condurrà alla restaurazione di una mitica e piena sovranità degli Stati membri, ma alla loro reale e effettiva dipendenza dalle grandi superpotenze: Stati Uniti, Russia e Cina» (Tusk D.,
“United we stand, divided we fall”, lettera ai capi di Stato o Governo della UE, 31 gennaio 2017). Malgrado la razionalità di questi argomenti, bisogna riconoscere che le proposte di tipo populista hanno una presa enorme sui cittadini: esse richiedono allora di comprendere il ruolo svolto dalle passioni ed emozioni in politica (cfr Costa G., «
Né destra né sinistra: verso una politica adulta», in
Aggiornamenti Sociali, 1 [2016] 5-12) e si intrecciano con i sempre più delicati meccanismi di una comunicazione che deve misurarsi con la post-verità o i “fatti alternativi” (cfr Costa G., «
Orientarsi nell’era della post-verità», in
Aggiornamenti Sociali, 2 [2017] 93-100).
Il rilancio del progetto europeo
Al di là dei toni e delle scorciatoie argomentative utilizzate, le questioni sollevate dalle forze antieuropeiste pongono seri interrogativi al processo di integrazione europeo: costituisce ancora, o per i più critici lo è mai stato, un beneficio per i cittadini europei? Oppure è semplicemente un intralcio e una delle cause delle difficoltà che imbrigliano l’azione dei Governi nazionali, rendendola meno efficace a danno dei cittadini? Se si vuole procedere nel rinnovare il patto fondativo che è alla base della UE non si può ignorare queste domande etichettandole velocemente come demagogiche, ma bisogna mettersi in un ascolto attento e distaccato per riconoscere le istanze serie e fondate che esse possono contenere.
Di fondo,
la forte rivendicazione di un ritorno alla sovranità nazionale è un modo per chiedere che l’attenzione alla dimensione collettiva (il riconoscersi parte di una realtà più ampia e comune)
e alla solidarietà tra le persone non venga meno, come invece si ritiene sia accaduto a seguito del processo di integrazione europea. Questa critica è di sicuro ingenerosa con quanti – Adenauer, De Gasperi, Schuman in testa – si spesero per la nascita delle Comunità europee e non corrisponde a quanto sottoscritto nei documenti fondativi dell’Unione. Tuttavia coglie nel segno se consideriamo il volto attuale della UE, in cui
la logica del liberalismo ha finito col favorire l’individualismo nella società, causandone quindi la frammentazione, e ha privilegiato la prospettiva economica a scapito di ogni altra quando si è trattato di decidere le politiche europee, finendo con svuotare di pregnanza la proclamata solidarietà. L’appuntamento di Roma dei prossimi giorni è allora una prima occasione per affrontare alcune domande cruciali con un approccio differente, integrale e solidale: qual è il senso della UE oggi e quale può esserlo per il futuro delle popolazioni del continente europeo? Qual è il collante che tiene insieme le nazioni e i popoli nel progetto europeo?
L’Europa in affanno di questi ultimi mesi non può permettersi di rinviare oltre il confronto su questi temi.
Questa urgenza sembra essere stata colta da parte dei responsabili delle istituzioni europee (il Consiglio della UE, la Commissione e il Parlamento), che già lo scorso dicembre per la prima volta hanno sottoscritto una dichiarazione comune in cui sono menzionati gli
obiettivi prioritari delle politiche europee per il 2017, assumendo l’impegno di lavorare in modo concertato perché vi siano rapidi avanzamenti nei settori individuati. Senza dubbio i capitoli indicati sono quelli al centro del dibattito. Si va, infatti, dall’economia (occupazione e crescita, ma anche affermazione di un’Europa sociale, sviluppo sostenibile e innovazione digitale) alla sicurezza e alla crisi dei migranti; ma vi è anche un impegno esplicito a favore dei valori comuni europei e della promozione della pace. Non ci troviamo di fronte a un testo di routine, ma a una vera e propria novità.
È capitale l’assunzione esplicita di una maggiore collaborazione tra le diverse istituzioni europee, superando sospetti e gelosie che nel passato hanno reso più farraginosa e improduttiva l’azione dell’Unione, così come l’ampliamento dei temi presi in considerazione, che non sono solo di natura economica, ma anche di carattere squisitamente politico. Ma soprattutto
la risposta istituzionale si concentra sulle necessità e le richieste dei cittadini europei, con l’intento di realizzare politiche che non siano più percepite come distanti o addirittura contro di essi, bensì pensate e attuate a partire dalle loro esigenze, con un’attenzione particolare alle fasce più deboli. Questa prima risposta delle istituzioni europee confida sul fatto che la costruzione della casa comune abbia ancora un senso e lo individua nell’essere a servizio dei cittadini. Una convinzione che trova il conforto dell’opinione di una buona parte dei cittadini europei (cfr Ferrara M., «C’è ancora voglia d’Europa», in
Il Corriere della sera, 17 febbraio 2017).
Dopo il vertice informale dei capi di Stato e di Governo europei di Malta (3 febbraio 2017), la cancelliera tedesca Angela Merkel ha ribadito che non è in discussione l’unità e la coesione della zona euro e che ogni nuova iniziativa deve essere aperta a tutti gli Stati membri, ma ha anche riconosciuto che
in alcuni settori sono possibili forme di cooperazione rafforzata, purché siano aperte a tutti gli Stati membri interessati. In questa posizione possiamo rinvenire una presa d’atto della realtà: piuttosto che inseguire un ideale di integrazione unanime – affascinante ma del tutto utopico allo stato attuale, fonte di incomprensioni, attese deluse e perniciosi rinvii – conviene sfruttare ancor di più le possibilità esistenti di collaborazione per procedere nella costruzione di un progetto europeo di ampio respiro.
Leggendo tra le righe delle soluzioni prospettate, si coglie che
la questione centrale per il futuro della UE in questo momento è legata alla sua identità come progetto politico e alla sua capacità di essere promotrice di politiche attente alle necessità dei cittadini e al bene comune. Ma per avanzare su entrambi i fronti
va superata l’insoddisfacente articolazione oggi esistente tra tre livelli essenziali: le istituzioni europee, quelle nazionali e la società civile. In condizioni fisiologiche tra questi tre livelli dovrebbero esserci continui interscambi nel segno di una collaborazione leale e fattiva, affinché le politiche europee e quelle nazionali non siano contraddittorie tra loro e tutelino effettivamente i cittadini, orientandone le condotte per conseguire un bene più ampio. Esistono regole e procedure per governare queste relazioni – basti pensare al principio di sussidiarietà –, ma da sole non bastano per assicurare il buon funzionamento dell’insieme: ciò che serve è la fiducia reciproca tra le istituzioni europee, i Governi nazionali e i cittadini. Cercando di tradurre questo aspetto con un’immagine potremmo dire che la possibilità che si prospetta ai soggetti appena menzionati è di compiere un salto di qualità: passare da un insieme di ottimi solisti impegnati a suonare il proprio spartito a un’orchestra che cresce in affiatamento ed esegue il programma scelto, ossia, fuori di metafora, riorganizzare le proprie relazioni interne e definire quale progetto europeo intendono realizzare. La risposta alla domanda sul senso della UE e sul collante che la tiene insieme passa per questo lavoro.
Sognare il futuro
Allo stato attuale
questa articolazione di piani diversi non avviene, o almeno non si verifica in modo sufficiente. Da qui la percezione nutrita da tanti della UE come distante, disinteressata alle sorti dei cittadini, in concorrenza con i Governi nazionali, mentre molte misure adottate a livello europeo non sono note per una comunicazione povera e limitata (cfr l’iniziativa della nostra rivista presentata in questa pagina). I passi indicati dalle istituzioni europee o la proposta della Merkel possono costituire una risposta importante per migliorare una collaborazione finora carente e per superare l’ambiguità dovuta alla continua oscillazione all’interno della UE tra modelli istituzionali che rispondono ora alla logica sovranazionale (mercato comune europeo) ora a quella intergovernativa (l’area euro ad esempio; sul tema cfr Fabbrini S., «
L’Europa dopo Brexit: da dove si riparte?», in
Aggiornamenti Sociali, 10 [2016] 630-639).
Alcune lezioni si possono anche trarre da una lettura partecipe e non partigiana della storia dell’integrazione europea e dalla considerazione della realtà attuale. Innanzi tutto la diversità di motivazioni che hanno spinto i Paesi europei ad aderire alla UE non può essere ignorata, così come non si può far finta che non esistano differenze significative tra i vari Stati membri a livello sociale, economico, culturale.
Se è legittimo assicurarsi che vi sia una comune convergenza su alcuni nodi cruciali (altrimenti non vi sarebbe più un’unione),
è altrettanto opportuno immaginare che le diversità nazionali possano tradursi in livelli e forme di cooperazione differenziati: una coabitazione uniforme e forzata non può funzionare.
In modo analogo sarebbe ben poco lungimirante ipotizzare che l’Unione si fondi solo o prevalentemente sulla motivazione che un singolo Stato è troppo debole o piccolo per reggere nel mondo globalizzato. Un progetto comune fondato sulla paura non ha una vita lunga, perciò è necessario individuare in positivo le ragioni della UE, riformulare il sogno che guida le istituzioni europee e anima i cittadini oggi. All’origine dell’Unione ci fu il desiderio di pacificare nazioni divise da odi e rivalità secolari. La sua evoluzione è stata guidata da un ulteriore obiettivo aggiuntosi nel tempo: assicurare il benessere economico e sociale per gli Stati membri. Continuando a perseguire queste finalità, che costituiscono un’eredità preziosa e non un fardello di cui liberarsi,
il futuro della UE si gioca sulla costruzione nel tempo di un’identità europea, in cui l’unità della visione politica e valoriale si articola con la pluralità culturale e sociale che contraddistingue il nostro continente, affinché ogni persona possa affermare di essere al contempo cittadino europeo e italiano (o greco, polacco, irlandese, ecc.), riconoscere nelle istituzioni europee non una burocrazia distante e inutile, se non dannosa, ma un livello di governo importante perché si prende cura dei bisogni dei cittadini e della società civile, sperimentare infine il senso di una solidarietà europea che si realizza nella condivisione di ideali, risorse ed esperienze.
L’affiatamento di una buona orchestra richiede tempo, impegno, dedizione, adesione al progetto e fiducia, o almeno stima, reciproca da parte dei musicisti. Buon lavoro alle istituzioni europee, ai Governi nazionali, alla società civile e a noi tutti cittadini per sognare e costruire la UE unita, plurale, solidale di domani.
#UnioneEuropea: perché una nuova rubrica sull’Europa?
La complessa macchina istituzionale europea, così difficile da spiegare, produce di continuo testi legislativi, pareri e studi, offre finanziamenti e supporto con i vari Fondi europei, propone possibilità formative con vari programmi, ecc. Ma tutto questo è poco o male conosciuto. Sembra quasi che l’imponente sistema informativo della UE s’incagli e non riesca a portare a compimento la sua missione presso i cittadini europei. Sono anche poco conosciuti modi e opportunità attraverso cui i cittadini e la società civile possono partecipare ai processi decisionali che si svolgono a livello europeo, come le consultazioni pubbliche, i giudizi formulati su una proposta della Commissione o il diritto di iniziativa.
Come Rivista riteniamo opportuno dare un contributo su questo fronte, avviando una nuova rubrica dal titolo #UnioneEuropea, che si propone di informare i nostri lettori sulle iniziative europee che hanno un rilievo importante per la vita di tutti noi, convinti che anche così si costruisce una UE vitale e partecipata.