Nella sua azione pastorale verso una «Chiesa in uscita», papa Francesco ha indicato nel discernimento l’atteggiamento di fondo da adottare. Ne ha parlato in forma programmatica nella Evangelii gaudium (cfr in particolare i nn. 20-24 e 50-51) e poi in riferimento a questioni specifiche, come le relazioni familiari nell’Amoris laetitia (cfr nn. 76-79 e 217-252) e l’ecologia nella Laudato si’ (cfr nn. 182-188) e ultimamente ne ha fatto il tema del Sinodo dei Vescovi che si tiene a Roma dal 3 al 28 ottobre dal titolo «I giovani, la fede e il discernimento vocazionale».
In ambito religioso ed ecclesiale si discerne quando, fra una serie di azioni buone, si cerca quella migliore per compiere, qui ed ora, la “volontà di Dio”. Questa espressione si fonda sulla fede in un Dio che agisce nel mondo e nella storia, ponendosi in relazione con l’uomo al modo di una comunicazione interpersonale. In un’accezione più ampia si discerne quando, in un ventaglio di scelte possibili, si cerca l’azione migliore in vista del fine da conseguire.
Mentre la pratica del discernimento personale è ben radicata nella tradizione della Chiesa, solo negli ultimi decenni si è sentita l’esigenza di strutturare percorsi analoghi a livello comunitario e istituzionale, nello stile della sinodalità che fin dalle origini caratterizza le comunità cristiane e sul quale papa Francesco sta insistendo molto come modo per garantire «la sovranità di Dio», evitando il rischio di compiere scelte arbitrarie, o «dettate dalle nostre pretese, condizionate da eventuali “scuderie”, consorterie o egemonie» (papa Francesco, Discorso alla Congregazione per i Vescovi, Roma, 27 febbraio 2014, in <www.vatican.va>).
Quando si parla di discernimento comunitario sono in gioco due momenti: in prima battuta l’ascolto della propria coscienza, poi la comunicazione tra quanti prendono parte al discernimento in vista di approdare a una conclusione condivisa, nella fiducia che «lo Spirito lavora in ciascuno, ma anche nelle dinamiche del gruppo» (cfr Costa G., Il discernimento, San Paolo, Milano 2018, 22). Un esempio di questo tipo di discernimento lo abbiamo nel libro degli Atti degli apostoli.
L’ingresso dei “gentili” nelle prime comunità cristiane
Tra le prime comunità cristiane quella di Gerusalemme aveva un ruolo di preminenza, essendo fondata sulle colonne – come li definisce Paolo in Galati 2 – Pietro, Giacomo (non l’apostolo, ma il fratello del Signore) e Giovanni. Per l’autorevolezza di cui godeva, ad essa spettò riconoscere e sancire una delle svolte fondamentali nella storia della Chiesa: l’apertura ai pagani convertiti, senza necessità di imporgli le stesse norme osservate dai primi discepoli provenienti dal giudaismo. La questione si radica nella storia d’Israele. Infatti ai gentili – gli stranieri provenienti per lo più dal mondo greco-romano – era permesso frequentare le sinagoghe, i luoghi di culto edificati nelle varie città in cui gli ebrei si erano dispersi a seguito della diaspora dopo l’esilio babilonese e la distruzione del tempio, nel 586 a.C. Qui ascoltavano la lettura e il commento delle Scritture e potevano associarsi alla preghiera, divenendo “timorati di Dio”, ovvero assumendo in parte la religiosità giudaica. Se poi accettavano anche di farsi circoncidere e osservare la legge mosaica, divenivano proseliti, cioè aggregati al popolo eletto, destinatari degli stessi benefici promessi da Dio al popolo dell’Alleanza. Ma i criteri di ammissione non erano uniformi e al tempo di Gesù i rabbini discutevano se fosse sufficiente imporre ai pagani convertiti un bagno purificatore e norme legali meno stringenti (Penna R., Le prime comunità cristiane, Carocci Editore, Roma 2012, 13-104 e Maier J., Il Giudaismo del secondo Tempio, Paideia, Brescia 1991, 364-367).
I primi membri delle nascenti comunità cristiane erano giudei osservanti e non mettevano in discussione le norme derivanti dalla legge mosaica, ma quando l’annuncio che Dio ha costituito Signore e Cristo quel Gesù crocifisso (Atti 2,36) si diffonde anche attraverso le sinagoghe, alcuni timorati di Dio e proseliti credono al vangelo (letteralmente “la buona notizia”). In un primo momento non si pone il problema di come accoglierli tra i giudeo-cristiani, perché non si percepiscono come un gruppo separato dalla matrice ebraica. La questione emerge quando inizia la persecuzione a Gerusalemme con l’uccisione di Stefano (Atti 6,8-7,60), per cui quanti credono che Gesù è il Messia (Cristo in greco) cominciano a prendere coscienza della propria specificità, tant’è che solo ad Antiochia, verso la metà del I sec., viene impiegato l’appellativo cristiani per identificarli. Contestualmente nasce una tensione fra la componente originaria proveniente dal giudaismo e quella di matrice pagana di più recente affiliazione e si pone la questione di come integrarle fra loro in un’unica nuova comunità religiosa.
L’intreccio di tali circostanze storiche sollecita una riflessione e una scelta conseguente la cui natura non è semplicemente disciplinare, ma teologica, perché la legge, con le sue norme e prassi consolidate, viene da Dio e osservarla rende giusti e degni dell’Alleanza. Se, invece, si può appartenere a pieno titolo alla comunità dei cristiani senza doversi attenere a tutti i precetti legali, forse la “volontà di Dio” si sta manifestando in una forma nuova? A questo livello non è possibile basarsi sulla decisione di uno solo, per quanto illuminato o autorevole possa essere: è necessario un confronto in termini di discernimento comunitario. La svolta avviene grazie alla condivisione delle esperienze apostoliche di Pietro e Paolo (cfr Atti 15,1-31).
Un discernimento comunitario
A Cesarea Pietro aveva assistito alla discesa dello Spirito santo anche sui pagani in casa di Cornelio, il centurione romano timorato di Dio che lo aveva mandato a chiamare a Giaffa. Preso atto della nuova Pentecoste avvenuta su di loro come in precedenza sugli apostoli, li aveva battezzati e così incorporati ufficialmente tra i cristiani (cfr Atti 10). Tornato a Gerusalemme, Pietro deve però fare i conti con gli altri giudeo-cristiani, scandalizzati dal suo comportamento: «Sei entrato in casa di uomini non circoncisi e hai mangiato insieme con loro!», esclamano. Ma dopo averli messi a parte dell’accaduto, anche loro comprendono quanto avvenuto e cominciano a glorificare Dio dicendo: «Dunque anche ai pagani Dio ha concesso che si convertano perché abbiano la vita!» (cfr Atti 11,1-18).
Assodato che giudei e pagani convertiti hanno la stessa grazia e dignità all’interno della Chiesa nascente, la questione si specifica: quali sono le condizioni e i segni di appartenenza? Come già accadeva nel giudaismo, anche nelle prime comunità cristiane non c’era uniformità, finché ad Antiochia nasce un conflitto aperto in merito e quindi la necessità di una linea comune. Infatti, mentre Paolo e Barnaba non imponevano la circoncisione ai convertiti dal paganesimo, alcuni, venuti dalla Giudea, dicevano che era necessaria per essere salvati (Atti 15,1).
Il nodo da sciogliere nel cosiddetto Concilio di Gerusalemme fu, quindi, una questione implicante il senso e le conseguenze della fede in Gesù come Cristo alla luce degli avvenimenti più recenti, ben riassunta dalle parole di Pietro.
Atti 15,7-11
7 «Fratelli, voi sapete che già da molto tempo Dio ha
fatto una scelta fra voi, perché i gentili ascoltassero per bocca mia la
parola del vangelo e venissero alla fede. 8 E Dio, che conosce i cuori, ha reso testimonianza in loro favore concedendo anche a loro lo Spirito Santo, come a noi; 9 e non ha fatto nessuna discriminazione tra noi e loro, purificandone i cuori con la fede. 10
Or dunque, perché continuate a tentare Dio, imponendo sul collo dei
discepoli un giogo che né i nostri padri, né noi siamo stati in grado di
portare? 11 Noi crediamo che per la grazia del Signore Gesù siamo salvati e nello stesso modo anche loro».
Alla fine, Giacomo propone la soluzione che sarà adottata: ai pagani convertiti non va imposta la circoncisione, ma solo alcune regole di purità e una particolare attenzione ai poveri.
Da questo evento fondamentale per la storia della Chiesa emergono alcuni aspetti tipici del discernimento comunitario: innanzitutto l’ascolto fraterno e la condivisione delle esperienze vissute alla luce dello Spirito. In questo caso, la decisione finale non è presa in base al prevalere delle ragioni dell’uno o dell’altro, né a maggioranza, come se si trattasse di un’assise parlamentare, ma per la comunione fra le persone chiamate a discernere. Nella Chiesa è questo il segno di una scelta giusta, come accadde durante il Concilio Vaticano II, i cui documenti finali furono approvati con pochissimi voti contrari. Accanto a questo elemento, l’altra indicazione fondamentale per verificare e confermare la decisione è la gioia, l’incoraggiamento a procedere con fiducia infuso nei destinatari, come si vede dalla reazione della comunità di Antiochia: sono il frutto dello Spirito (cfr Atti 15,31 e Galati 5,22).
Un buon discernimento, infatti, è convalidato da questi segni interiori ed esteriori, dal piacere di procedere insieme all’altro, dal sentirsi uniti – al di là della diversità di vedute – nel comunicarsi e condividere quanto riconosciuto in coscienza come la scelta migliore per tutti, qui ed ora. Alla fine la decisione risulta qualitativamente superiore a quella raggiungibile con la pura applicazione di una tecnica, è più della somma dei singoli contributi e il gruppo stesso può percepirsi come qualcosa di più di un insieme di persone convenute solo in vista di un obiettivo individuale o comune da perseguire (cfr Costa G., Il discernimento, San Paolo, Milano 2018, 59-85). In questa luce si capisce la profondità del messaggio inviato dalla comunità di Gerusalemme a quella di Antiochia per comunicare la decisione presa, in cui si esprime la consapevolezza dell’esperienza spirituale vissuta nel discernere insieme: Abbiamo deciso, lo Spirito santo e noi… (cfr Atti 15,28).
Se consideriamo quanto fosse importante per alcuni giudeo-cristiani l’essere circoncisi, l’esito dell’assemblea di Gerusalemme non era affatto scontato, perché richiedeva un notevole cambio di prospettiva. Nelle esperienze apostoliche di Pietro e Paolo risulta evidente che l’azione storica di Dio li ha preceduti, chiamandoli al riconoscimento di un dato di fatto da cui partire per rivedere i propri criteri di valutazione e interpretazione della realtà. Papa Francesco lo indica come uno dei quattro principi guida per la nuova evangelizzazione: «La realtà è più importante dell’idea» (cfr Evangelii gaudium, nn. 231-233). Il processo di discernimento presuppone la volontà e la capacità di mettere in discussione i propri schemi mentali e rivederli alla luce dell’esperienza interiore ed esteriore, come dice Paolo scrivendo ai Romani: Non conformatevi a questo mondo, ma lasciatevi trasformare rinnovando la vostra mente, per discernere la volontà di Dio, ciò che è buono, a lui gradito e perfetto (Romani 12,2). La nostra mente, infatti, non è un semplice «raccoglitore di informazioni», ma «originaria disposizione dell’uomo in cui agisce un’intelligenza orientata alla libertà» (cfr Martini C.M., «La testimonianza del discernimento spirituale e pastorale», in Giustizia, etica e politica nella città, Bompiani, Firenze 2017, 448-461), capace, quindi, di entrare in sintonia con lo Spirito che, come il vento, soffia dove vuole (cfr Giovanni 3,8).
La nuova comprensione in questo caso è a livello comunitario: sorge un nuovo modo comune di pensare e sentire e questo crea tradizione, anche se non mette al riparo da equivoci e dalla necessità di capire sempre più profondamente il senso e le conseguenze della scelta. Infatti, Paolo assume la decisione come un modo di concepire l’adesione a Gesù Cristo, fondandola sulla fede; Pietro, e ancor più Giacomo, solo come un modo di accogliere i nuovi proseliti, per cui il confitto riemerge in seguito (cfr Galati 2). La “volontà di Dio”, per quanto compresa attraverso un buon cammino di discernimento, è sempre un appello alla libertà umana e a essa resta affidato perché si realizzi nelle concrete circostanze storiche.
Lo stile ecclesiale di discernimento
Fin dalle origini, la comunione è un segno di credibilità nell’annuncio del Vangelo: la moltitudine di coloro che erano diventati credenti aveva un cuore solo e un’anima sola (Atti 4,32). Questo non significa un’utopica assenza di diversità, come si è visto, ma la capacità di generare, grazie ad esse, «un dinamismo evangelizzatore che agisce per attrazione» (cfr Evangelii gaudium, nn. 130-131). Il discernimento in comune è un modo di realizzarlo, rendendo efficace nella pratica pastorale quel sensus fidei di cui sono dotati i battezzati nel loro insieme, ovvero la capacità di riconoscere ciò che viene realmente da Dio, anche quando si tratta di rivedere consuetudini radicate, ma il cui senso non è più percepito adeguatamente (cfr Evangelii gaudium, n. 43). Si tratta di un’arte più che una semplice tecnica e come tale va acquisita ed esercitata, affinché diventi uno stile, un modo di procedere abituale. Per questo papa Francesco l’addita innanzitutto a quanti nella Chiesa sono investiti di un’autorità pastorale e, più in generale, come parte integrante dei cammini di formazione.