Oltre il conflitto, il “disarmo ideologico”, di Andrea Coi;
La giustizia dell’irreparabile, di Agnese Moro;
«Aldo Moro è il papà di Agnese», di Adriana Faranda;
«Là dove saremo certi di aver ragione, non cresceranno fiori», di Manlio Milani;
«Vi ringrazio per aver fatto della nostra consapevolezza la vostra vita», di Franco Bonisoli.
Nel 2007, il nostro Paese ha deciso di istituire una giornata per
ricordare le vittime del terrorismo interno e internazionale,
scegliendo la data del 9 maggio, anniversario dell’uccisione
di Aldo Moro. Nell’estate dello stesso anno, nei giorni più caldi di agosto,
mentre Milano era immersa in altri pensieri e molti erano altrove, ci
siamo trovati nell’ufficio che avevo allora nei locali del Centro culturale
San Fedele. Con me, gli amici più cari di quegli anni: Claudia Mazzucato
(docente di Diritto penale e di Mediazione all’Università Cattolica) e
Adolfo Ceretti (docente di Criminologia all’Università di Milano Bicocca).
Volevamo completare una lettera di riflessioni con una proposta da
mandare ad alcune persone la cui storia era stata segnata profondamente
e dolorosamente nel periodo del terrorismo, negli anni ’70 e i primi anni
’80 del secolo scorso. Alcune di queste persone erano vittime o familiari di
vittime e altre erano state attive nei gruppi di lotta armata.
Le avevamo conosciute in circostanze diverse, dalla fine degli anni ’90.
Un cammino lento, fatto soprattutto di un lungo tempo di ascolto. A poco
a poco, ci siamo accorti di avere una rete di contatti – alcuni diventati
profondi e intensamente vissuti – che ci chiedevano, in certo modo ci “imponevano”,
di provare a proporre incontri meno episodici, più strutturati,
pur restando, inevitabilmente, esplorativi. Li pensavamo, questi eventuali
incontri, secondo i fondamenti e le modalità della Restorative
Justice, una giustizia orizzontale, centrata – più che sul reato e sulla
pena – sull’incontro e sulle possibilità di recuperare relazioni lacerate
dolorosamente. In più, ci accompagnava la rilettura di esperienze forti e
luminose come la Truth and Reconciliation Commission sudafricana, che
aveva aperto gli occhi al mondo sulle possibilità di una giustizia di transizione
diversa, mettendo al centro la ricostruzione del tessuto sociale ferito
da tanti anni di violenza, ingiustizia e morte. Ci accompagnava inoltre il
lavoro esegetico accurato su diverse pagine bibliche: anche lì una giustizia
tesa sostanzialmente a ricucire le sorti di un’Alleanza, di un rapporto ferito
e continuamente tradito, quello tra Dio e il suo popolo.
Ci accompagnava, soprattutto, la crescente consapevolezza, data dall’ascolto
di tante storie, che nel nostro Paese non era mai stata fatta una
vera rilettura degli “anni di piombo”, una rilettura profonda, che consentisse
di uscire dalle strettoie delle dietrologie, delle polemiche e delle
accuse o delle giustificazioni. La consapevolezza che occorreva provare a
restituire la parola al dolore, facendolo uscire dal congelamento che lo
irrigidisce e lo fissa, paralizzando la vita. Ascoltavamo il desiderio speculare
di vittime e di responsabili, espresso in diverse circostanze quasi con
parole sovrapponibili, di trovare vie e occasioni per rendere questo dolore
comunicabile: poter affidare a qualcuno, specialmente e con cura tutta particolare
ai giovani, la storia vissuta e il dolore attraversato perché potessero
contribuire alla loro memoria e, quindi, al loro futuro. Un futuro a cui i
giovani hanno diritto, un futuro di vita, non avvelenato da risentimenti,
rimozioni, rabbia o rassegnazione. In questo modo, il dolore poteva uscire
dalla sterilità, diventare “utile”. Ancora: cresceva la consapevolezza che il
nostro ascolto, in quegli anni, si era andato configurando come una “terra
dell’incontro”: le persone divise e, allo stesso tempo, indissolubilmente unite
da storie così dolorose, stavano iniziando a incontrarsi nel nostro ascolto.
Eravamo noi mediatori, in quel momento, la prima terra che riuscivano ad
abitare insieme. Maturava la consapevolezza che – se le vittime erano state
troppo presto colpevolmente trascurate e dimenticate – entrambi, vittime
e responsabili, condividevano una stessa, radicale, solitudine [continua]
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