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Disarmare il dolore. Rivisitare gli anni di piombo in un cammino di giustizia riparativa

 

Oltre il conflitto, il “disarmo ideologico”, di Andrea Coi; La giustizia dell’irreparabile, di Agnese Moro; «Aldo Moro è il papà di Agnese», di Adriana Faranda; «Là dove saremo certi di aver ragione, non cresceranno fiori», di Manlio Milani; «Vi ringrazio per aver fatto della nostra consapevolezza la vostra vita», di Franco Bonisoli.

Fascicolo: maggio 2021

Nel 2007, il nostro Paese ha deciso di istituire una giornata per ricordare le vittime del terrorismo interno e internazionale, scegliendo la data del 9 maggio, anniversario dell’uccisione di Aldo Moro. Nell’estate dello stesso anno, nei giorni più caldi di agosto, mentre Milano era immersa in altri pensieri e molti erano altrove, ci siamo trovati nell’ufficio che avevo allora nei locali del Centro culturale San Fedele. Con me, gli amici più cari di quegli anni: Claudia Mazzucato (docente di Diritto penale e di Mediazione all’Università Cattolica) e Adolfo Ceretti (docente di Criminologia all’Università di Milano Bicocca). Volevamo completare una lettera di riflessioni con una proposta da mandare ad alcune persone la cui storia era stata segnata profondamente e dolorosamente nel periodo del terrorismo, negli anni ’70 e i primi anni ’80 del secolo scorso. Alcune di queste persone erano vittime o familiari di vittime e altre erano state attive nei gruppi di lotta armata.

 

Le avevamo conosciute in circostanze diverse, dalla fine degli anni ’90. Un cammino lento, fatto soprattutto di un lungo tempo di ascolto. A poco a poco, ci siamo accorti di avere una rete di contatti – alcuni diventati profondi e intensamente vissuti – che ci chiedevano, in certo modo ci “imponevano”, di provare a proporre incontri meno episodici, più strutturati, pur restando, inevitabilmente, esplorativi. Li pensavamo, questi eventuali incontri, secondo i fondamenti e le modalità della Restorative Justice, una giustizia orizzontale, centrata – più che sul reato e sulla pena – sull’incontro e sulle possibilità di recuperare relazioni lacerate dolorosamente. In più, ci accompagnava la rilettura di esperienze forti e luminose come la Truth and Reconciliation Commission sudafricana, che aveva aperto gli occhi al mondo sulle possibilità di una giustizia di transizione diversa, mettendo al centro la ricostruzione del tessuto sociale ferito da tanti anni di violenza, ingiustizia e morte. Ci accompagnava inoltre il lavoro esegetico accurato su diverse pagine bibliche: anche lì una giustizia tesa sostanzialmente a ricucire le sorti di un’Alleanza, di un rapporto ferito e continuamente tradito, quello tra Dio e il suo popolo.

 

Ci accompagnava, soprattutto, la crescente consapevolezza, data dall’ascolto di tante storie, che nel nostro Paese non era mai stata fatta una vera rilettura degli “anni di piombo”, una rilettura profonda, che consentisse di uscire dalle strettoie delle dietrologie, delle polemiche e delle accuse o delle giustificazioni. La consapevolezza che occorreva provare a restituire la parola al dolore, facendolo uscire dal congelamento che lo irrigidisce e lo fissa, paralizzando la vita. Ascoltavamo il desiderio speculare di vittime e di responsabili, espresso in diverse circostanze quasi con parole sovrapponibili, di trovare vie e occasioni per rendere questo dolore comunicabile: poter affidare a qualcuno, specialmente e con cura tutta particolare ai giovani, la storia vissuta e il dolore attraversato perché potessero contribuire alla loro memoria e, quindi, al loro futuro. Un futuro a cui i giovani hanno diritto, un futuro di vita, non avvelenato da risentimenti, rimozioni, rabbia o rassegnazione. In questo modo, il dolore poteva uscire dalla sterilità, diventare “utile”. Ancora: cresceva la consapevolezza che il nostro ascolto, in quegli anni, si era andato configurando come una “terra dell’incontro”: le persone divise e, allo stesso tempo, indissolubilmente unite da storie così dolorose, stavano iniziando a incontrarsi nel nostro ascolto. Eravamo noi mediatori, in quel momento, la prima terra che riuscivano ad abitare insieme. Maturava la consapevolezza che – se le vittime erano state troppo presto colpevolmente trascurate e dimenticate – entrambi, vittime e responsabili, condividevano una stessa, radicale, solitudine [continua]

 

 

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