L’approvazione della nuova legge elettorale ha suscitato accesi dibattiti, che offrono l’occasione per riflettere sul senso dell’alternanza e del concetto di maggioranza e minoranza dal punto di vista politico e sociale.
Con la firma del presidente Mattarella e la pubblicazione sulla
Gazzetta Ufficiale si è concluso l’iter di approvazione della nuova legge elettorale della Camera dei deputati, nota come “Italicum” (il cui nome ufficiale è
Legge 6 maggio 2015, n. 52, Disposizioni in materia di elezione della Camera dei deputati), oggetto per molte settimane di un acceso scontro politico, con gli annessi echi mediatici.
Lo scontro si è rapidamente trasferito ad altra materia (la riforma della scuola), tuttavia la vicenda non può essere accantonata data la delicatezza della posta in gioco: la legge elettorale determina infatti una delle regole di base per lo svolgimento della vita democratica di un Paese. Inoltre, nonostante la riforma sia stata a lungo da tutti invocata e abbia richiesto lungo tempo per essere realizzata (vedi
Dal Porcellum all'Italicum: il lungo percorso di una riforma), non si possono prendere alla leggera le accuse mosse, più o meno a ragione, alla procedura di approvazione del provvedimento e al suo contenuto.
Certo, non è agevole distinguere quanto i toni accesi dello scontro sull’Italicum fossero una questione di merito – e quindi legati a ciò che è stato effettivamente disposto dalla nuova legge – e quanto invece fossero legati a schermaglie e dissidi tra partiti e loro esponenti, impegnati in lotte di potere, di “palazzo” o di poltrone. Questo interrogativo, che la nostra dialettica politica ci ripropone quasi su ogni argomento, sicuramente contribuisce alla disaffezione degli elettori, creando, questo sì, un vero e proprio
vulnus alla democrazia, per riprendere un’espressione che è stata più volte ripetuta da media e politici nel commentare questa vicenda.
Senza addentrarci in questo terreno, né nella valutazione tecnica della legge e delle sue implicazioni – sarebbe infatti necessario conoscere l’esito complessivo delle riforme istituzionali in corso –, in queste pagine proviamo a leggere la vicenda dell’Italicum come episodio della storia della politica e della democrazia italiane, convinti che offra lezioni da imparare per il miglioramento della qualità della vita democratica del nostro Paese.
Indubbiamente
l’Italicum contiene un elemento di significativa discontinuità rispetto alla storia politica del nostro Paese, abbandonando la centralità delle coalizioni, su cui, per decenni si è imperniata la nostra dinamica politica, nella prima come nella seconda Repubblica.
Esso rimette al centro dell’attenzione la questione della maggioranza, o meglio, della dinamica tra maggioranza e minoranza sia dal punto di vista dei contenuti, che prevedono appunto l’assegnazione di un premio di maggioranza alla lista più votata, sia riguardo al percorso della sua approvazione, in particolare rispetto alla dialettica tra maggioranza e opposizione parlamentare e tra maggioranza e minoranza all’interno del PD: è questa dialettica il tema su cui si sono accese le polemiche politiche e a cui, ad altro livello, sono stati dedicati gli interventi di rilievo dei molti studiosi ed esperti che hanno partecipato al dibattito.
Maggioranza-minoranza: una dialettica costitutiva
Si tratta di una questione cruciale per la democrazia: questa è sì il governo della maggioranza, ma a condizione che esista una minoranza viva, vivace e tutelata nei suoi diritti e nelle sue funzioni. Senza minoranza, la maggioranza diventa “bulgara”: una facciata per mascherare una dittatura. Dunque la dialettica maggioranza-minoranza è costitutiva della democrazia, per il cui buon funzionamento ciascuna deve poter svolgere la propria peculiare funzione: alla maggioranza compete decidere e prendere iniziative, mentre «La ragione d’essere e di operare delle minoranze è la sfida alla bontà della deliberazione presa» (ZAGREBELSKY G.,
Imparare democrazia, Einaudi, Torino 2007, 33), nella duplice prospettiva del controllo democratico e della costruzione di alternative che possano coagulare consenso e produrre cambiamento.
Da questo punto di vista, l’alternanza nell’occupare le posizioni di maggioranza e di minoranza da parte dei diversi schieramenti è parte della fisiologia della democrazia. Nella chiave dell’alternanza, «ogni deliberazione in cui una maggioranza sopravanza numericamente una minoranza non è una vittoria della prima e una sconfitta della seconda. È invece una provvisoria prevalenza che assegna un duplice onere: alla maggioranza di dimostrare poi, nel tempo a venire, la validità della sua decisione; alla minoranza, di insistere per far valere ragioni migliori. Ond’è che nessuna votazione, in democrazia (salvo quelle riguardanti le regole costitutive o costituzionali della democrazia stessa) chiude definitivamente una partita. Entrambe attendono e, al tempo stesso, precostituiscono il terreno per la sfida di ritorno tra le buone ragioni che possano essere accampate» (
ivi, 33s.).
Questo vale, pur con le dovute differenze, all’interno di qualunque sistema che voglia qualificarsi come democratico: che si tratti dell’assetto istituzionale di un Paese o del funzionamento di un partito o di qualsiasi realtà associativa, l’esistenza di una maggioranza e di una minoranza in rapporto dialettico e la possibilità concreta dell’alternanza sono elementi che qualificano la democrazia molto più che il periodico ricorso a procedure elettorali; queste ultime, infatti, avvengono anche nelle dittature, che invece cercano con ogni mezzo di eliminare, soffocare o tacitare le minoranze.
La maggioranza all’italiana
Questi elementi della democrazia si sono incarnati anche nella storia politica del nostro Paese, all’interno di una tradizione e di una cultura particolari. Per quanto riguarda il tema della maggioranza (e quindi della minoranza), dobbiamo prendere atto che
durante i 70 anni di vita della Repubblica, a parte forse ai suoi albori, non abbiamo mai fatto l’esperienza dell’esistenza di una “vera” maggioranza, almeno nel senso con cui questa si dà in altri Paesi. In Italia nessun partito politico ha mai ottenuto la maggioranza assoluta, come invece è usuale in Gran Bretagna (almeno in termini di seggi parlamentari, non di voti ottenuti): ne dispongono oggi i conservatori di David Cameron, come prima di loro i laburisti di Tony Blair e, prima ancora, i conservatori di Margaret Thatcher, a dimostrazione dell’esistenza reale della dinamica dell’alternanza. Non solo: in questi casi è anche del tutto normale che i leader sconfitti, quelli cioè che non hanno saputo trasformare la minoranza in maggioranza, si dimettano e lascino la vita politica, permettendo la costruzione di una diversa alternativa.
In Italia abbiamo cominciato a sperimentare solo negli ultimi 20 anni la dinamica dell’alternanza, peraltro assai raramente accompagnata dal “ritiro” dei perdenti, ma non abbiamo mai avuto una “vera” maggioranza.
Le nostre maggioranze parlamentari sono sempre state – e in fin dei conti lo è anche quella attuale –
il frutto della costruzione di coalizioni, cioè l’aggregazione di forze ciascuna delle quali è – e per molti versi continua a essere – una minoranza, pur partecipando alla determinazione dell’indirizzo del Paese. All’interno della coalizione, il vincolo di ottenere la fiducia (cioè la maggioranza dei voti in Parlamento) dà a ciascuna di queste minoranze, magari esigue, un potere di veto spesso sproporzionato rispetto alla loro consistenza numerica, in Parlamento come nel Paese.
Questa situazione ha favorito la formazione di una cultura in cui essere minoranza non significa necessariamente essere esclusi dal prendere decisioni, ma poter sfruttare il potere di veto bloccando decisioni e processi sgraditi: questa strategia di minoranza finisce così per rivelarsi più vincente della costruzione del consenso intorno a proposte realmente alternative.
Non che mancassero valide ragioni alla base di questa forma di organizzare la democrazia: le profonde diversità di un Paese con una breve storia unitaria, ma soprattutto segnato dalla traumatica esperienza del fascismo – con i suoi abusi dell’usurpazione della maggioranza e del conseguente tentativo di eliminare ogni minoranza – deponevano a favore di un rafforzamento della tutela delle minoranze e delle garanzie contro ogni possibile rischio di deriva autoritaria. A questo si deve anche, ad esempio, l’opzione per il bicameralismo perfetto (che, almeno all’inizio, prevedeva addirittura lo sfasamento temporale nel rinnovo delle due Camere).
Ma soprattutto la particolare forma assunta dalla democrazia italiana è legata all’impossibilità pratica di immaginare una reale alternanza nel mondo bipolare della guerra fredda: una parte politica, numericamente consistente, era destinata a priori (quasi per definizione) a essere minoranza, obbligando così il grosso delle restanti forze a dar vita alla maggioranza (in qualche modo altrettanto per definizione).
In questo contesto,
il regime della maggioranza per coalizioni ha effettivamente svolto una funzione positiva, evitando derive autoritarie e consentendo anche la progressiva immissione di nuove forze all’interno della maggioranza stessa (si pensi al passaggio dal centro al centrosinistra). Ma conosciamo anche i limiti e i guasti della decadenza di questo sistema, visibili in modo particolare nell’ultimo periodo della prima Repubblica e per molti versi nella seconda: la mancanza di alternanza finisce per favorire il consociativismo, mentre il diritto di veto di cui di fatto godeva ogni minoranza interna alla maggioranza trasformava l’arte della mediazione in compromesso al ribasso, alla ricerca del minimo comune denominatore.
Anche la produzione di alternative intorno a cui cercare di coagulare un consenso perdeva di importanza, contribuendo a spiegare l’immobilismo che segna la nostra storia recente. Invece di impegnarsi a costruire il nuovo, le minoranze nel nostro Paese si sono a lungo allenate – peraltro con successo – a bloccare i cambiamenti sgraditi. In altri casi, la dinamica delle coalizioni finiva per trasformarsi in un alibi rispetto all’assunzione della responsabilità di quanto compiuto e, soprattutto, non compiuto, che consentiva di celarsi dietro il paravento politico del “vorrei ma non posso”: «Avremmo voluto, ma il mantenimento degli equilibri della coalizione ce lo ha impedito».
Così, se le possibili derive autoritarie sono un
vulnus per la democrazia che è necessario scongiurare, altrettanto lo sono quelle situazioni in cui un progetto capace di suscitare i consensi e persino gli entusiasmi di una maggioranza del Paese è crollato per il ritirarsi di una delle componenti della coalizione, magari estremamente minoritaria, poi rapidamente passata a quella avversaria. Se non nelle forme, almeno nella sostanza anche queste sono storie di democrazia tradita. Antipolitica e astensionismo hanno anche qui le proprie radici.
Perché l’Italicum non sia un azzardo
Per come è costruito, l’Italicum spariglia decisamente le carte rispetto alla dinamica delle coalizioni e alla cultura della maggioranza (e della minoranza) che ne deriva. Da questo punto di vista,
il “rischio democratico” che implica si può tramutare in azzardo, qualora si riveli un vestito non adatto alle misure della nostra democrazia, o in una opportunità, qualora favorisca l’elaborazione di una nuova cultura da cui scaturiscano nuove pratiche: il risultato non è garantito (il passaggio da prima a seconda Repubblica non lo ha ottenuto), ma nemmeno possiamo ritenerlo impossibile a priori. In ogni caso, il fatto che sia diventato legge, obbliga tutti – favorevoli e contrari – a misurarsi con la novità: chi se ne impadronirà meglio risulterà verosimilmente avvantaggiato alle prossime elezioni, che saranno regolate dalla nuova normativa. Questo vale per le forze politiche, ma anche per tutti i cittadini che, come elettori, saranno altrettanto coinvolti.
In questo percorso di elaborazione di una nuova cultura della maggioranza e della minoranza e, quindi, delle tanto desiderate nuove pratiche della politica, ci sentiamo di indicare due criteri di orientamento e di valutazione dell’operato di leader e partiti.
Ricomprendere il pluralismo
Il primo ha a che fare con la questione dell’aggregazione: un progetto politico (e quindi una lista) che ambisca a ottenere la maggioranza dei consensi (almeno al ballottaggio) dovrà necessariamente trovare il modo di articolare un certo grado di pluralismo al proprio interno.
Il lavoro di mediazione che finora si svolgeva per lo più tra i partner della coalizione si trasferirà nel dibattito interno a ciascuna delle forze politiche a vocazione (o ambizione) maggioritaria. In questo senso non perdono rilevanza quelle culture politiche sviluppatesi proprio attorno al tema della mediazione, che anzi potranno trovare una nuova declinazione e una rinnovata attualità.
Ogni nuova legge elettorale, Italicum compreso, rappresenta una sfida innanzi tutto per i soggetti che competono alle elezioni, cioè i partiti, chiamati a riorganizzarsi sulla base delle diverse modalità per ottenere la vittoria. Se questo passaggio renderà più democratiche e trasparenti anche le dinamiche interne alla vita dei partiti, la qualità della nostra democrazia avrà solo da guadagnarne, in linea con il desiderio dell’art. 49 della Costituzione.
Inoltre,
forze politiche più capaci di articolare il pluralismo e quindi vera democraticità al proprio interno saranno un valore aggiunto in una società che fatica a fare i conti con l’esplosione delle infinite diversità in un caleidoscopio di culture minoritarie e con il tramonto di quella che un tempo era definita “cultura maggioritaria”. L’orizzonte è quello della “cultura dell’incontro”, indicata da papa Francesco e visualizzata dall’immagine del poliedro, «una figura geometrica con molte facce diverse. Il poliedro riflette la confluenza di tutte le parzialità che in esso conservano l’originalità. Nulla si dissolve, nulla si distrugge, nulla si domina, tutto si integra» (
Discorso ai partecipanti all’Incontro mondiale dei movimenti popolari, 28 ottobre 2014, in <
www.vatican.va>).
Certo, il quadro spesso desolante che si offre a chi osserva la situazione sostanzialmente di tutte le forze presenti in Parlamento (alle prese con divisioni interne, crisi di leadership, ecc.) non risulta per nulla incoraggiante in questa prospettiva, ma sarebbe eccessivamente pessimistico escludere la possibilità di novità e sorprese. Quella che nel 2012 all’interno del PD rappresentava una minoranza (la componente renziana), nel 2013 è diventata maggioranza, a dispetto della dirigenza stessa del partito (già sconfessata dall’esito delle urne): nulla vieta che il fenomeno si ripeta ancora, nel PD o in altri partiti.
La tutela delle vere minoranze
Un secondo criterio mette a fuoco il fatto che maggioranza e, soprattutto, minoranza hanno un significato anche al di fuori delle assemblee elettive, all’interno del corpo sociale. Qui la condizione di minoranza, spesso assai meno tutelata da regole e procedure, diventa sinonimo di esclusione, senza realistiche prospettive di cambiamento o di alternanza. Occupare la posizione di minoranza nella società non è l’esito di una competizione che la volta successiva si potrà magari vincere. Così,
un buon criterio per guidare l’elaborazione di una nuova cultura della maggioranza e per inserire i necessari anticorpi contro i rischi di derive autoritarie, è proprio quello del posto che ciascun progetto politico riserva a chi nella società è minoranza, a chi è scartato, messo da parte: bambini, anziani, giovani, malati, immigrati e tutti coloro che non sono “produttivi”.
Si tratta di farsi carico della dimensione sostanziale della democrazia: l’uguaglianza formale tra i cittadini al momento del voto – peraltro proprio il punto critico di tutti i sistemi elettorali in qualche modo maggioritari – esige di tradursi anche nella promozione di una società più equa in termini di opportunità e godimento dei diritti. Al tempo stesso, questa preoccupazione è un elemento strategico fondamentale di un sano svolgimento della dialettica tra maggioranza e minoranza: per diventare maggioranza, una minoranza deve necessariamente allargare le proprie file e non c’è modo migliore per farlo che riuscire a portare “dentro” chi normalmente sta “fuori” dal gioco. Una dinamica politica e anche elettorale che riesca a produrre inclusione è un toccasana per qualunque democrazia.
Sarebbe comunque ingenuo pensare che i meccanismi formali di qualsivoglia legge elettorale, Italicum compreso, possano da soli e magicamente produrre questo effetto: in questo caso come in tutti gli altri,
la possibilità è affidata all’impegno e alla responsabilità di tutti noi, chiamati ad abitare quei meccanismi secondo il ruolo di ciascuno con impegno e creatività, arrivando, quando serve, anche a rimetterli in discussione. A prescindere dalla diversa valutazione che ciascuno legittimamente può darne, è questa l’opportunità che l’Italicum ci offre, se sapremo coglierla.