Nella politica statunitense il potere esercitato dalle parole ha sempre
avuto un ruolo cruciale, fin dalla Dichiarazione di indipendenza
del 1776. Pur non avendo valore costituzionale o legale, questo
testo stabilisce i principi del diritto alla vita, alla libertà e alla ricerca della
felicità che continuano ad animare la politica e la società statunitensi come
grandi ideali, spesso invocati e raramente raggiunti. Pochi anni dopo, gli
Stati Uniti adottarono la Costituzione che, pur nella sua bellezza, era più
una promessa che una realtà. La sanguinosa lotta per porre fine alla schiavitù
si concluse non solo grazie alla vittoria militare del Nord sul Sud nella
Guerra civile (1861-1865), ma anche a una serie di emendamenti costituzionali,
ancora oggi fondamentali nel sistema legale del Paese. Essendo gli
Stati Uniti una repubblica delle parole, il movimento per i diritti civili si è
collocato soprattutto nell’alveo costituzionale, cercando di inserire misure
protettive nella legislazione nazionale. Anche le lotte politiche a riguardo
del matrimonio e della discriminazione delle persone LGTBQ sono affrontate
con il ricorso all’interpretazione della Costituzione.
La reazione quasi chimica tra le parole e la politica statunitense è stata
fonte di grande dinamismo. Sono pochi i dibattiti politici che non
ruotano intorno al potere delle parole, ma sarebbe errato concludere
che la politica statunitense sia solo questione di parole. Se esse sono così
importanti nella storia del Paese è perché veicolano un’urgenza e offrono
un’articolazione tra le azioni da intraprendere e le energie per compierle.
La presidenza iper-retorica di Trump
Di recente le parole sono prepotentemente tornate al centro delle passioni
e degli interessi del popolo statunitense. Le elezioni del 2016 sono state
vinte da un candidato, Donald J. Trump, che rivendicava di parlare per
un popolo rimasto per anni senza voce. Molti membri dell’“establishment”
repubblicano avrebbero potuto ottenere la candidatura del partito per le
presidenziali del 2016 con un
programma tradizionale di
conservatorismo sociale e liberismo
economico, e alcuni
avrebbero potuto battere la
candidata democratica Hillary
Clinton alle elezioni. Ma
ha prevalso Trump, perché ha
saputo approfittare del diffuso
malcontento, dell’ampia copertura
mediatica riservata alla sua
bizzarra campagna elettorale e
delle divisioni interne al partito
repubblicano.
Alle elezioni presidenziali,
Trump è stato avvantaggiato
dall’avere come avversario uno dei politici democratici meno popolari tra
gli elettori repubblicani. Nonostante questo, ha ricevuto meno voti della
Clinton, ma ha vinto perché è riuscito a prevalere negli Stati chiave. Le
ambiziose promesse di Trump nella campagna elettorale e la vittoria di misura
hanno spostato l’attenzione sulla sua presidenza: avrebbe mantenuto le
promesse? Avrebbe governato cercando di ampliare la propria base in vista
delle elezioni del 2020? La risposta è negativa per entrambe le domande.
Durante il proprio mandato, Trump ha dato vita a una «presidenza
iper-retorica», come ha scritto il giornalista Yuval Levin, riprendendo la
tesi della “presidenza retorica” del politologo Jeffrey Tulis. Secondo Tulis, i poteri del Presidente sono stati rafforzati dalla «crescente tendenza presidenziale
di rivolgersi direttamente al pubblico tramite i media, scavalcando
i membri del Congresso e gli altri funzionari pubblici, usando ordini
esecutivi per indirizzare la politica» (cit. in Levin 2020). Tutti i recenti
Presidenti lo hanno fatto, traendone vantaggio, ma, secondo Levin,
Trump
è andato oltre, perché «
sembrava comprendere il potere presidenziale
come essenzialmente retorico, un modo di cambiare la realtà dicendo
che dovrebbe essere diversa o insistendo che lo fosse» (ivi). [continua]
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