ArticoloDemocrazia

Da Trump a Biden, il potere delle parole

Fascicolo: marzo 2021

Nella politica statunitense il potere esercitato dalle parole ha sempre avuto un ruolo cruciale, fin dalla Dichiarazione di indipendenza del 1776. Pur non avendo valore costituzionale o legale, questo testo stabilisce i principi del diritto alla vita, alla libertà e alla ricerca della felicità che continuano ad animare la politica e la società statunitensi come grandi ideali, spesso invocati e raramente raggiunti. Pochi anni dopo, gli Stati Uniti adottarono la Costituzione che, pur nella sua bellezza, era più una promessa che una realtà. La sanguinosa lotta per porre fine alla schiavitù si concluse non solo grazie alla vittoria militare del Nord sul Sud nella Guerra civile (1861-1865), ma anche a una serie di emendamenti costituzionali, ancora oggi fondamentali nel sistema legale del Paese. Essendo gli Stati Uniti una repubblica delle parole, il movimento per i diritti civili si è collocato soprattutto nell’alveo costituzionale, cercando di inserire misure protettive nella legislazione nazionale. Anche le lotte politiche a riguardo del matrimonio e della discriminazione delle persone LGTBQ sono affrontate con il ricorso all’interpretazione della Costituzione.

 

La reazione quasi chimica tra le parole e la politica statunitense è stata fonte di grande dinamismo. Sono pochi i dibattiti politici che non ruotano intorno al potere delle parole, ma sarebbe errato concludere che la politica statunitense sia solo questione di parole. Se esse sono così importanti nella storia del Paese è perché veicolano un’urgenza e offrono un’articolazione tra le azioni da intraprendere e le energie per compierle.

 

La presidenza iper-retorica di Trump

Di recente le parole sono prepotentemente tornate al centro delle passioni e degli interessi del popolo statunitense. Le elezioni del 2016 sono state vinte da un candidato, Donald J. Trump, che rivendicava di parlare per un popolo rimasto per anni senza voce. Molti membri dell’“establishment” repubblicano avrebbero potuto ottenere la candidatura del partito per le presidenziali del 2016 con un programma tradizionale di conservatorismo sociale e liberismo economico, e alcuni avrebbero potuto battere la candidata democratica Hillary Clinton alle elezioni. Ma ha prevalso Trump, perché ha saputo approfittare del diffuso malcontento, dell’ampia copertura mediatica riservata alla sua bizzarra campagna elettorale e delle divisioni interne al partito repubblicano.

 

Alle elezioni presidenziali, Trump è stato avvantaggiato dall’avere come avversario uno dei politici democratici meno popolari tra gli elettori repubblicani. Nonostante questo, ha ricevuto meno voti della Clinton, ma ha vinto perché è riuscito a prevalere negli Stati chiave. Le ambiziose promesse di Trump nella campagna elettorale e la vittoria di misura hanno spostato l’attenzione sulla sua presidenza: avrebbe mantenuto le promesse? Avrebbe governato cercando di ampliare la propria base in vista delle elezioni del 2020? La risposta è negativa per entrambe le domande.

 

Durante il proprio mandato, Trump ha dato vita a una «presidenza iper-retorica», come ha scritto il giornalista Yuval Levin, riprendendo la tesi della “presidenza retorica” del politologo Jeffrey Tulis. Secondo Tulis, i poteri del Presidente sono stati rafforzati dalla «crescente tendenza presidenziale di rivolgersi direttamente al pubblico tramite i media, scavalcando i membri del Congresso e gli altri funzionari pubblici, usando ordini esecutivi per indirizzare la politica» (cit. in Levin 2020). Tutti i recenti Presidenti lo hanno fatto, traendone vantaggio, ma, secondo Levin, Trump è andato oltre, perché «sembrava comprendere il potere presidenziale come essenzialmente retorico, un modo di cambiare la realtà dicendo che dovrebbe essere diversa o insistendo che lo fosse» (ivi). [continua]

 

 

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