La Scrittura mette in evidenza come l’appello di Dio alla conversione incontri una serie di resistenze, spesso ammantate da motivazioni formalmente religiose. Quando la religione si trasforma in una sovrastruttura che, invece di stimolare al cambiamento, conferma i credenti nelle loro convinzioni, la chiamata a convertirsi passa per l’ascolto di una “profezia straniera”, cioè dal confronto con l’altro, con il non credente. In un mondo ricco di contrapposizioni identitarie, la Parola di Dio invita a superare le frontiere culturali e a lasciarsi provocare dalla diversità come singolo e come comunità.
Nell’invito a convertirsi possiamo scorgere il tutto della fede biblica. La parola divina ha precisamente questo intento: suscitare la conversione di chi la ascolta. La parola attestata nelle Scritture desidera promuovere quel movimento esistenziale di ritorno al sogno di Dio (la teshuvà delle Scritture d’Israele), reso possibile da un altro sguardo sulla vita nel mondo (la metánoia del Nuovo Testamento). Tutta la Bibbia parla della conversione, non solo laddove compare il vocabolo. Allo stesso modo, è l’intera esistenza a essere un processo di conversione, poiché quest’ultima non è riducibile a un unico momento, per quando decisivo ci appaia. Ci sono sì esperienze folgoranti, che fanno da spartiacque nelle biografie delle persone; ma la logica biblica della conversione fa di questi momenti luminosi il punto di partenza di un viaggio lungo quanto una vita.
Un cammino personale e comunitario
Il cammino di conversione abbraccia i diversi aspetti dell’esistenza umana: esige di partire da sé ma invita ad andare oltre sé, fino a quei cieli nuovi e terra nuova nei quali abiti finalmente la giustizia (2Pietro 3,13). Non possiamo ridurre il processo della conversione entro i ristretti confini dell’anima, dal momento che l’orizzonte verso cui volgerci ha la larghezza del mondo. La posta in gioco non potrà essere una ristrutturazione della propria casa privata, quanto piuttosto una speranza pubblica, fatta di giustizia, pace, custodia del creato, ovvero quella redenzione integrale che le Scritture d’Israele chiamano shalom e i racconti evangelici Regno di Dio. A niente meno di questo mira la conversione evangelica.
Essere credenti non significa sentirsi arrivati e aspettare che siano gli altri a convertirsi; piuttosto, essere donne e uomini del cambiamento, che vivono in stato di conversione. Vuol dire tramare per la trasfigurazione di questa realtà irredenta. E sentire Dio come un pungolo, che anche nella consolazione non smette di ricordarci quella vita buona sognata per tutte e tutti fin dalla fondazione del mondo, un sogno infranto che Lui domanda di ristabilire.
Nel raccogliere la sfida della conversione, sentita come il nucleo incandescente dell’esperienza credente, non possiamo non avvertirne tutta la fatica, verrebbe da dire l’impossibilità umana. Noi esseri umani siamo veramente in grado di cambiare? O non piuttosto, dietro i conclamati cambiamenti, rimaniamo eternamente i difensori della giustezza delle nostre posizioni? Non desideriamo, forse, trovare conferma alle nostre idee, persino quando ci mettiamo in ascolto di quella parola divina che domanda conversione? Se almeno una volta in vita la parola delle Scritture ci trasformasse nel profondo! Il cambiamento è un vero e proprio miracolo: solo un Dio può convertirci. Da parte nostra, invece, quante resistenze, quante difese d’ufficio!
La sapienza evangelica ne è consapevole. Come quando Gesù spiega il motivo per cui parla in parabole e cita il profeta Isaia: parole scandalose, che non ci indignano solo perché pensiamo siano riferite ad altri, a quelli di fuori, affinché guardino, sì, ma non vedano, ascoltino, sì, ma non intendano, perché non si convertano e venga loro perdonato (Marco 4,12). Come sarebbe a dire: non si convertano? C’è qualcuno a cui è preclusa la salvezza? Perché Isaia e poi Gesù dicono questa parola dura? A chi la indirizzano? Entrambi la dicono per gli interni, per i credenti, diremmo noi. Per quelli che vedono, ascoltano ma non comprendono che la parola udita sollecita quella conversione che proprio le parabole con il loro effetto d’urto desiderano produrre. Sono dette per noi, quelle parole. L’evangelista Marco lo afferma senza mezzi termini. Dopo aver distinto tra quelli di fuori e gli interni, dopo cioè aver fatto l’occhiolino ai discepoli a rassicurarli che quella maledizione non è per loro, dal momento che loro capiscono (4,11), subito dopo ecco la domanda che ha il sapore di un triste capovolgimento: non capite? (4,13). Ovvero, anche voi siete come gli esterni, impossibilitati a comprendere il mistero del Regno di Dio, sullo stesso piano inclinato verso l’esito fatale della fatica a convertirsi.
La trasformazione del cuore
Proprio perché la fortezza umana è ben attrezzata nel difendersi dalle prospettive della conversione, le Scritture danno l’assalto da più parti, mettono in campo differenti strategie d’azione. La più nota denuncia una dispersione nell’inessenziale e promuove un ritorno a sé, come il rientrare in se stesso del figlio prodigo. Conversione sarebbe un lavoro del cuore, tutto giocato nell’interiorità, per ricomporre l’infranto e recuperare ciò che veramente conta, la “sola cosa necessaria”. In effetti, è il cuore il campo di battaglia decisivo. Per la Bibbia, è lì la cabina di regia dell’intera esistenza, dove tutto si decide. Ma c’è un problema: il cuore è ingannevole, può indurirsi e non solo perché si oppone a Dio, ma anche in nome della fede stessa.
Non c’è soltanto il problema del cuore ripiegato su di sé, autoreferen- ziale, chiuso alla relazione con gli altri e con l’Altro. C’è anche il cuore “religioso” che adora un idolo con lo stesso linguaggio utilizzato con il Dio vivo e vero. La scena madre di questa deriva – la costruzione del vitello d’oro (Esodo 32) – narra di cuori che si illudono di adorare il Dio liberatore, mentre cercano conferme ai loro pensieri, preoccupati a riempire il vuoto provocato dalla lunga assenza di Mosè. Che sapienza autoironica è all’opera in quella pagina! E com’è decisiva la questione dell’idolatria nel determinare criticamente la bontà di un’esperienza credente. Perché l’idolatria non è il peccato di un’umanità infantile, che si affida a totem manufatti: è la perenne ricerca di un dio utile, a propria immagine e somiglianza, puntello religioso a conferma delle nostre idee. Se, dunque, anche il cuore dei credenti è luogo a rischio, se persino questo snodo decisivo per attivare un processo di conversione, a volte, risulta inaffidabile, come fare per non lasciar cadere l’appello al cambiamento?
La “profezia straniera”
Per far fronte a questo pericolo, la Scrittura invita ad aprirsi a un’ulteriore presenza, facendo della conversione non solo un dialogo a due, svolto nell’interiorità, ma un processo a tre che, insieme all’io e a Dio, coinvolge l’altro. Se la resistenza al cambiamento può venire da una cittadella interiore blindata, sequestrata nel cerchio dei propri pensieri, ecco che la voce della conversione cerca un altro varco, facendosi strada grazie a una “profezia straniera”. Questa dinamica “estroversa” è all’opera in diverse pagine bibliche. Esemplarmente, la possiamo cogliere nel racconto della guarigione del servo del centurione in Luca (cfr riquadro a p. seguente). Il racconto ha una trama lineare: un centurione, preoccupato per la malattia mortale di un servo che gli è caro, manda una delegazione da Gesù per domandargli di venire a guarirlo. Mentre Gesù è in cammino verso la casa, il centurione invia una seconda delegazione che riferisce le considerazioni del militare. Gesù ne è ammirato ed esalta la sua fede. Il racconto termina con la constatazione della guarigione del servo.
Non lasciamoci ingannare dalla semplicità della trama: il modo con cui è narrato l’episodio mostra una posta in gioco sorprendente. Innanzitutto, al centro della scena non c’è Gesù, ma il centurione. È come se Gesù facesse un passo indietro per far posto a questo personaggio. Diversi episodi evangelici mostrano una medesima dinamica: come quando, di sabato, nella sinagoga, vede un uomo dalla mano inaridita e decide che è lui a dover occupare la scena: vieni qui in mezzo! (Marco 3,3). In realtà, anche quando Gesù è in primo piano, non è mai preoccupato di sé, ma della vita delle altre persone. Il Dio biblico rovescia l’immaginario religioso di sempre, che pone la divinità in alto e domanda ai devoti obbedienza cieca. È una costante del Dio biblico fare spazio agli altri. Ma nella nostra scena il decentramento non è solo la caratteristica teologica del Dio-per-noi; è anche la logica del racconto. Tanto più spiazzante in quanto il protagonista non è un debole da salvare, ma una figura forte, che nemmeno appartiene al popolo eletto.
Per giungere a cogliere la forza d’urto di questa narrazione proviamo a vedere i tratti con cui l’evangelista ce lo presenta e, contemporaneamente, facciamo emergere le possibili obiezioni che sorgono in noi lettrici e lettori. Innanzitutto, è un centurione, è un rappresentante di quella forza di occupazione che governa con pugno di ferro la terra d’Israele. Sarà pure una brava persona: questo lo si evince, se non altro, dall’affetto per il suo servo; ma l’impero che rappresenta lo qualifica come personaggio negativo. In ogni caso, è una figura esterna al popolo eletto, uno che non è dei “nostri”.
Ci viene detto che ha udito parlare di Gesù e che mostra di credere che il profeta di Nazareth sia in grado di guarire il suo servo. E a noi vengono in mente infiniti racconti a dimostrazione di come, nel momento del bisogno, di fronte al pericolo della morte, si tentino tutte le soluzioni possibili: dalle cure degli specialisti al pendolino dei maghi! Sarà, dunque, vera fede la sua? O non piuttosto un ennesimo tentativo disperato, opportunisticamente presentato come fiducia nella persona a cui si rivolge?
Luca mette in bocca alla delegazione degli anziani ebrei l’elogio di questo militare straniero: ama il nostro popolo ed è stato lui a costruirci la sinagoga. Dunque, un uomo in ricerca, con un proprio cammino spirituale. Una simile presentazione lo qualifica come “timorato di Dio”, ovvero un non ebreo affascinato dal monoteismo ebraico e dai suoi valori; un pagano che non domanda di far parte del popolo eletto, non volendo essere circonciso e neppure seguire le normative che regolano il vissuto quotidiano, limitandosi a condividerne l’orizzonte etico. Sappiamo dal secondo volume dell’opera lucana, gli Atti degli apostoli, come il cristianesimo primitivo abbia trovato un terreno fertile proprio tra questi “timorati di Dio”. Obiezione: sarà proprio così? O piuttosto questi comportamenti virtuosi non sono espressione di una strategia politica con cui l’occupante cerca di tenere buono l’occupato?
Luca, poi, ci fa sentire direttamente la voce del centurione. La seconda delegazione, infatti, non ne parla alla terza persona, ma riporta le sue testuali parole, che esprimono l’alta considerazione di Gesù e l’umile comprensione della propria persona. Il tutto con un paragone tratto dalla sua vita militare, che ha il sapore di una parabola. Con Gesù non più narratore, ma nelle vesti inedite dell’ascoltatore. E ancora monta il sospetto di noi che udiamo sulla bocca del centurione queste parole. Forse qualcuno gli ha spiegato che un ebreo non può entrare nella casa di un pagano e per trarsi d’impiccio, gli chiede un miracolo a distanza. Forse ci ha ripensato e cerca di uscire dalla situazione senza perdere la faccia. E poi la sua parlata lo tradisce: parla di rapporti di potere, di quell’ingrediente avvelenato di cui è fatto il suo mondo.
Vi sembra strano questo modo di leggere il testo accompagnandolo con le possibili obiezioni che sorgono nei cuori di chi legge? Eppure,
le parole di Gesù che commentano l’iniziativa del centurione sembrano proprio rivolte a quanti sospettano dell’autenticità del militare e sono pronti a denunciarne l’inaffidabilità. Gesù non si rivolge al centurione, ma alla folla, a cui assicura che in quest’uomo pagano ha trovato una fede così grande come nemmeno tra gli eletti ha potuto scorgere. È questo straniero l’esempio della fede: per questo è posto al centro della scena, sotto gli occhi increduli di noi che nemmeno siamo sicuri della sua buona fede. Le obiezioni formulate a commento del testo non sono poi così lontane da quelle che realmente sorgono in noi nei confronti degli altri, di chi non è credente e non appartiene a una Chiesa. Se fossero in buona fede, sarebbero dei nostri. Il fatto che non lo siano, significa che comunque a loro manca qualcosa. Possiamo apprezzare alcune loro scelte, condividere alcuni loro pensieri. In ogni caso, lo faremmo più per cortesia che per convinzione della bontà delle loro vite. Non chiedeteci, però, di prendere come modello di fede gente estranea, che non viene in chiesa. In modo limitato, le loro esistenze possono essere una conferma della nostra verità, non certo un appello per la nostra poca fede.
Andare oltre i propri confini
Ebbene, è proprio per far piazza pulita dei nostri sospetti che Gesù esalta la fede del centurione e ci indica quel suo modo di stare al mondo come esempio per convertire la nostra fede granitica. A noi, che abbiamo le carte in regola, che conosciamo la verità e viviamo una vita di fede; a noi che abbiamo Abramo, Isacco, Giacobbe, Gesù, i dogmi, i catechismi, le liturgie, e che facciamo dell’esperienza credente una questione di gestire al meglio questo patrimonio saldamente in nostro possesso; proprio a noi, affinché si possa aprire un piccolo varco da cui filtri la prospettiva di una conversione che ci riguarda, Gesù domanda di metterci in ascolto di un altro, un centurione, un non eletto, un estraneo. Di prestare a lui ascolto, senza pregiudiziale alcuna, mettendo a tacere quelle obiezioni che si risolvono nel confermare la giustezza della nostra posizione, a fronte dell’inaffidabilità altrui.
La sfida posta da Gesù sta nell’uscire da una fede giudicante, ridotta a marcatore identitario, giocata nella contrapposizione noi-loro, per iniziare ad ascoltare quella profezia straniera che ci giunge dall’esterno, da soggetti da cui non ci sembra possibile possa giungere un appello. Ascoltare un’umanità che parla il linguaggio degli affetti – amare un servo e un popolo straniero – e della fiducia; che scorge nel limite della propria indegnità l’occasione per andare oltre sé; che nell’umano mostra la profondità di un “più umano”, mentre a noi verrebbe da ritenerlo “troppo umano”, poco divino. Ascoltare un centurione e la sua parabola; avere orecchi per quella sapienza umana che fatichiamo a cogliere, giudicandola insufficiente. Lasciarsi evangelizzare invece che evangelizzare!
Una Chiesa sinodale deve spingere l’ascolto oltre i propri confini; e non per impulso missionario, piuttosto per esigenza di conversione, per interrompere il circolo vizioso delle reciproche conferme tra gente che parla un medesimo linguaggio interno.
Narra un midrash che il mondo è stato creato con la “he” (ה), lettera del nome divino, somigliante a una cornice con due aperture. Secondo la sapienza rabbinica, il mondo viene creato con questa lettera perché dalla cornice che Dio ha stabilito si può uscire (c’è libertà di scelta), ma c’è una seconda apertura perché si può ritornare e fare teshuvà. Come mai due aperture, si chiede il Talmud, se si può uscire e rientrare dallo stesso punto? Rabbi Chaim Shmuelevitz dice che per poter rientrare e fare teshuvà bisogna percorrere un’altra strada, è necessario mettere in discussione le proprie idee e i propri atteggiamenti.
Proprio per giungere a intravvedere un’altra strada, differente da quelle che normalmente frequentiamo, le Scritture ci spingono ad ascoltare la profezia straniera. Non è detto che basti. Siamo gente dalla testa dura, dice di sé Israele. Gli fa eco la Chiesa di Gesù: anche noi non capiamo il nostro Signore e continuiamo a rinnegarlo, tradirlo, abbandonarlo. I nostri passi non si dirigono verso di Lui, la nostra mente è rivolta ad altri pensieri.
E mentre confessiamo il nostro peccato, comprendiamo che la conversione è il miracolo che ci manca. Il miracolo che non smettiamo di invocare, nonostante tutto. Per questo continuiamo a ritrovarci nel suo nome e proviamo a metterci in ascolto della Parola e della vita: non perché siamo migliori degli altri, quelli di fuori, ma perché osiamo sperare che prima o poi quella Parola, insieme a improbabili e persino inconsapevoli suoi testimoni, compia il miracolo a noi impossibile. Siamo gente che spera contro ogni speranza.