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Contro il femminicidio: una legge dello Stato, un impegno per la società

Fascicolo: novembre 2013
È in vigore dal 16 ottobre scorso la legge sul fenomeno noto come “femminicidio”. È impossibile non salutarla come un passo avanti di grande importanza nella promozione e nella tutela della vita e dei diritti delle donne, pur con quel fondo di amarezza derivante dal fatto che vorremmo vivere in un mondo e in un Paese dove leggi di questo genere non fossero necessarie.
Dobbiamo riconoscere che invece non è così: l’approvazione di questa legge pone all’attenzione collettiva il fatto che abbiamo un problema grave (la violenza di genere) e ci addita un bene a cui tendere (la sua eliminazione), adempiendo così anche alla propria funzione pedagogica. Ci dice anche – e questa è la parte confortante – che abbiamo delle risorse per trattare questo problema e la volontà di utilizzarle. Proprio a questi aspetti dedicheremo le riflessioni che seguono, senza commentare in dettaglio il testo della nuova legge né approfondire il fenomeno della violenza di genere e le sue cause. Ci interessa piuttosto mettere in luce che cosa un processo concreto di determinazione di strumenti di policy ci dice sulla società in cui viviamo, sulle sue fatiche e sulle sue risorse, e sul modo in cui è possibile affrontare i problemi sociali.

Una agenda internazionale per un problema globale
La violenza sulle donne non è un fenomeno nuovo dal punto di vista storico né limitato alla nostra società, ma qualcosa di talmente radicato nelle strutture culturali e sociali da risultare scontato e in qualche modo nemmeno percepibile per quello che è: un drammatico abuso. La novità di questi anni, di cui la nuova legge italiana è certamente sintomo, ma che ha un respiro globale (ricordiamo il clamore suscitato da alcuni casi recenti di stupro in India), è la crescita della sensibilità per questo problema, a livello di opinione pubblica e di mass media, che rappresenta la condizione di possibilità del cambiamento sociale e normativo.
Questa nuova sensibilità è frutto anche di un lungo lavoro di coscientizzazione dell’opinione pubblica globale, svolto a diversi livelli e con una varietà di strumenti. Il primo è certamente la “creazione” di un termine, il neologismo “femminicidio” – che traduce l’anglosassone femicide – operazione che permette di far emergere un problema e di parlarne. Nato nella letteratura criminologica e femminista degli anni ’90, il termine ha una valenza più ampia di quella conferita dall’assonanza con la parola omicidio: esso indica infatti qualunque forma di violenza (fisica e sessuale, psicologica ed emotiva) subita dalle donne in quanto tali; in altre parole, il genere costituisce l’elemento scatenante dell’azione criminosa. Rientrano nel campo semantico di questo concetto anche le conseguenze a lungo termine che gli atti di violenza possono generare: contagio con il virus HIV o altre malattie, aborto, parto prematuro (con gli effetti sul futuro del bambino, specie nei Paesi più poveri), sterilità, alcolismo, depressione e problemi psichici, ecc.

Un secondo strumento di grande importanza per la presa di coscienza è la raccolta sistematica di dati aggiornati e affidabili, mettendo in evidenza le dimensioni del fenomeno e impedendone la sottovalutazione. Nel luglio scorso, l’Organizzazione mondiale per la sanità ha presentato il primo rapporto globale sul tema: Global and regional estimates of violence against women. Prevalence and health effects of intimate partner violence and non-partner sexual violence. I dati sono quanto meno devastanti: a livello mondiale, più di una donna su tre (il 35%) ha subito violenza o abusi nell’arco della vita, nella maggior parte dei casi da parte del partner (30%); nei Paesi ad alto reddito quest’ultimo dato scende al 23,2%, che significa comunque quasi una donna su quattro!
Un terzo elemento di questo percorso investe direttamente il piano giuridico: il 18 dicembre 1979 l’Assemblea generale dell’ONU ha adottato la Convenzione sull’eliminazione di ogni forma di discriminazione contro le donne (CEDAW), entrata in vigore nel 1981. A oggi è stata ratificata da 187 Paesi (l’Italia lo ha fatto nel 1985), due (USA e Palau) l’hanno sottoscritta ma non ratificata, mentre tra i membri dell’ONU non l’hanno firmata Iran, Somalia, Sudan, Sudan del Sud e Tonga. I Paesi che ratificano la Convenzione si impegnano a uniformarvi la propria legislazione e accettano di sottoporsi a un monitoraggio internazionale almeno ogni quattro anni. Nel luglio 2011 è stata la volta dell’Italia e il rapporto finale del Comitato CEDAW (Concluding observations of the Committee on the Elimination of Discrimination against Women. Republic of Italy), pur apprezzando i progressi normativi fatti dall’ispezione precedente (n. 5), si era detto «preoccupato per l’elevato numero di donne uccise da partner ed ex partner (femminicidi), che può indicare un fallimento delle autorità pubbliche nell’assicurare adeguata protezione alle donne vittime dei loro partner o ex partner» (n. 26), richiedendo a Governo e Parlamento di intervenire.
Il decreto legge dello scorso agosto, da poco convertito in legge (L. 15 ottobre 2013, n. 119, Conversione in legge, con modificazioni, del decreto-legge 14 agosto 2013, n. 93, recante disposizioni urgenti in materia di sicurezza e per il contrasto della violenza di genere, nonché in tema di protezione civile e di commissariamento delle province), costituisce la risposta a questa sollecitazione. Dunque non si tratta di un atto più o meno demagogico volto alla ricerca di consenso su un tema “alla moda”, ma di un passo di un cammino che dura da decenni nella direzione dell’evoluzione della normativa e della cultura in materia di violenza contro le donne. Si tratta anche di un esempio di circuito virtuoso tra la dimensione nazionale e quella internazionale, che ci lascia intravedere quanto potrebbero essere benefici in molti campi gli effetti dell’introduzione di forme di governance internazionale capaci di vincolare efficacemente i singoli Paesi. Da questo punto di vista, lascia ben sperare il fatto che l’11 maggio 2011 è stata aperta alla firma la Convenzione del Consiglio d’Europa sulla prevenzione e la lotta contro la violenza sulle donne e la violenza domestica (Convenzione di Istanbul), «il primo strumento internazionale giuridicamente vincolante che crea un quadro giuridico completo per proteggere le donne contro qualsiasi forma di violenza», come afferma la Relazione di uno dei disegni di legge per la sua ratifica da parte del nostro Paese, effettivamente avvenuta il 10 settembre 2013.

La violenza dentro le relazioni

Concretamente, l’esistenza di una legge sulla violenza di genere diagnostica un malessere profondo della nostra società e della nostra cultura, da cui poi derivano i comportamenti delle persone, consegnandoci il fatto che non sempre riusciamo a gestire in modo autenticamente umano la relazione tra “diversi”, in particolare quando ragioni sociali e culturali istituiscono tra i due poli della relazione una asimmetria di potere e di opportunità. Tale è, per il portato della storia, il rapporto tra uomini e donne, a prescindere dalle infinite sfaccettature delle vicende individuali. La legge è molto chiara a riguardo: non si limita a risposte repressive e all’inasprimento delle pene, che una ossessione securitaria oggi diffusa tende a ritenere un rimedio universalmente valido (anzi, troppo spesso l’unico rimedio), ma le coniuga con strumenti di prevenzione, quali i centri antiviolenza e le case-rifugio, e con dispositivi che puntano a rimuovere, per quanto possibile, le cause di quella asimmetria all’interno della relazione. Così, ad esempio, alla donna che subisce violenza in quanto resa debole dalla condizione di immigrata irregolare viene concesso il permesso di soggiorno, in modo da eliminare la causa strutturale di quella debolezza. Non si tratta di un atteggiamento paternalista, come accusano alcuni gruppi di associazioni, ma di interventi di giustizia per riequilibrare situazioni di svantaggio. Si può solo sperare – cosa non scontata – che ci siano abbastanza risorse per finanziare e competenze per attuare le attività di prevenzione.
Sarebbe tuttavia ingenuo immaginare che una legge possa magicamente risolvere un problema di questo genere, che affonda le sue radici in una asimmetria sociale e culturale profondissima, che ha plasmato nel tempo le identità femminili e maschili. Lo riconosce il già citato rapporto del Comitato CEDAW, quando lamenta «la persistenza di atteggiamenti socioculturali di accondiscendenza nei confronti della violenza domestica». Alla legge occorre quindi affiancare un lavoro di maturazione socioculturale, che metta a tema le coordinate al cui interno vivere la differenza, in particolare quella di genere, che è originaria nel senso più pieno del termine: non c’è essere umano, infatti, che non sia già da sempre marcato dalla sua identità sessuale. Tuttavia la differenza non è circoscrivibile ai soli corpi, benché in essi sia radicata, né è riducibile ai processi di modellamento sociali, anche se è condizionata dall’esperienza storica. La differenza risulta in un modo diverso per le donne e per gli uomini di abitare lo stesso mondo. Ad esempio è radicalmente diverso fare l’esperienza di diventare genitore dentro il proprio corpo o attraverso quello della propria partner.

Al tempo stesso non si tratta di una differenza assoluta che rende irrevocabilmente distanti, né sancisce l’incomunicabilità tra due mondi, che infatti, altrettanto originariamente, si cercano. C’è un orizzonte comune che rende possibile una relazione, e uomini e donne hanno la capacità di relativizzare la propria esperienza, sapendo che essa non è esclusiva. In tutto questo è essenziale un corretto pensiero della complementarità: contrariamente a un immaginario consolidato e anche affascinante, donne e uomini non sono esseri dimezzati alla ricerca del pezzo mancante. Sarebbe una interpretazione funzionale dell’alterità, con il risultato di strumentalizzare l’altro, riducendolo alla funzione che può svolgere e dunque, più o meno simbolicamente, in schiavitù. Anche da questo riduzionismo nasce la violenza di quegli uomini che non riescono a tollerare che una donna non accetti (più) di entrare nel loro progetto di vita, e dunque li lasci monchi. La consapevolezza dell’esistenza di un altro modo di stare al mondo, ma con cui è possibile entrare in comunicazione, può piuttosto volgersi alla scoperta di questa diversità, in un percorso che passi dal riconoscimento dell’altro non come minaccia (pericolo sempre in agguato), ma come dono (per sé e per tutti), e quindi volgersi in riconoscenza. È questa la chiave per permettere una più ricca fioritura umana di tutti, a cui solo la relazione con l’altro dischiude l’accesso: «La creatura umana, in quanto di natura spirituale, si realizza nelle relazioni interpersonali. Più le vive in modo autentico, più matura anche la propria identità personale. Non è isolandosi che l’uomo valorizza se stesso, ma ponendosi in relazione con gli altri e con Dio. L’importanza di tali relazioni diventa quindi fondamentale» (BENEDETTO XVI, lettera enciclica Caritas in veritate, 2009, n. 53). Questo vale per ogni relazione e, a fortiori, per quella con l’alterità contrassegnata dalla differenza di genere.
Proprio perché la differenza tra uomo e donna è paradigmatica di ogni differenza, questo cammino di purificazione della relazione si applica anche ad altri rapporti asimmetrici, dentro ai quali parimenti si annida la violenza, pur con fenomenologie di volta in volta diverse. La lista è purtroppo lunga e non è un caso che siano in cantiere molti progetti di interventi legislativi rispetto alle tante forme di abuso e discriminazione: oltre al genere, l’orientamento sessuale, l’età (la violenza sui minori), l’origine etnica e, in molti Paesi, la religione, la casta, ecc. Se impariamo ad affrontare la differenza di genere, con maggiore facilità scopriremo di saper vivere tutte le altre, riducendo le violenze che derivano dalle relazioni asimmetriche e costruendo un mondo in cui ognuno possa avere il suo posto.
Con il linguaggio proprio di un testo giuridico, anche la legge sul femminicidio testimonia quanto sia alta la posta in gioco, cioè quanto fondamentali siano le relazioni, in particolare quelle che coinvolgono l’affettività e la famiglia, per una vita che possa essere considerata umanamente vivibile: l’esistenza di un rapporto personale (attuale o concluso) tra aggressore e vittima viene connotato infatti come aggravante; questo correttamente sancisce la particolare brutalità di una violenza che si insinua in una relazione affettiva profonda, in cui la persona ha investito alla ricerca della propria felicità e che è inevitabilmente connotata dalla fiducia nei confronti dell’altro, il che rende anche meno pronti a difendersi e dunque più deboli. Non si possono non ricordare poi i segnali che ci vengono da quei casi estremi di fronte ai quali anche la legge deve riconoscere la propria impotenza: nessuna minaccia di sanzione potrà mai scoraggiare chi, a seguito di una separazione o di un divorzio, concepisce e mette in atto un omicidio-suicidio (coinvolgendo magari anche i figli), dichiarando la perdita di senso di una vita senza relazioni. Per prevenire questi casi serve un lavoro molto lungo, culturale ed educativo, che non compete al legislatore, ma su cui possono agire altre componenti della società.

L’apporto della Chiesa

La legge non può prescrivere o imporre relazioni sane: per costruirle occorre attingere ad altre risorse, a partire da quelle più tipicamente educative, come il mondo della scuola. Anche i mass media possono avere un grande impatto nel diffondere una diversa mentalità riguardo al rapporto tra i generi: lo possiamo affermare con certezza visti i guasti prodotti, ad esempio, da una pubblicità che troppo spesso indulge a una rappresentazione sessista delle donne e a un uso spregiudicatamente volgare del loro corpo. Possono avere un ruolo importante, anche se certamente non esclusivo, le comunità religiose, proprio perché sono luoghi in cui le persone fanno esperienza di relazioni, di apertura, di fiducia. Altrettanto significativo è il ruolo delle religioni nel plasmare l’immaginario sul ruolo della donna e dell’uomo, e sulle modalità della loro relazione.
A riguardo è necessario riconoscere come la tradizione cristiana e quella cattolica siano portatrici di una ambiguità. È innegabile come il messaggio biblico contenga una visione della irriducibile diversità e originalità dell’uomo e della donna, nella identica dignità di creature di Dio, come co-protagonisti di un unico progetto. Il pensiero corre spontaneamente ai primi capitoli del libro della Genesi, ma anche in altri passaggi il testo biblico si mostra attento alla promozione di modelli di femminilità non subalterna (a riguardo cfr BITTASI S., «Donna forte», in Aggiornamenti Sociali, 2 [2013] 158-162). A questo si riallaccia anche il più recente magistero: «Le risorse personali della femminilità non sono certamente minori delle risorse della mascolinità, ma sono solamente diverse. La donna dunque – come, del resto, anche l’uomo – deve intendere la sua “realizzazione” come persona, la sua dignità e vocazione sulla base di queste risorse, secondo la ricchezza della femminilità, che ella ricevette nel giorno della creazione e che eredita come espressione a lei peculiare dell’“immagine e somiglianza di Dio”» (GIOVANNI PAOLO II, lettera apostolica Mulieris dignitatem, 1988, n. 10).
È però altrettanto vero che la mentalità ecclesiale (ed ecclesiastica) è stata ed è tuttora condizionata dai costumi delle società patriarcali al cui interno si è dipanata la storia della salvezza, portatori di una visione di subordinazione della donna all’uomo, esattamente come contemplavano l’esistenza della schiavitù. Ma se rispetto a quest’ultima la mentalità è radicalmente cambiata, per quanto riguarda le relazioni di genere un ancoraggio acritico a quel mondo, anche nell’approccio alla Scrittura, occulta i problemi e ne ostacola il superamento. Allo stesso tempo il Vangelo non è sempre riuscito a trasformare in profondità le culture in cui si è radicato, spesso anch’esse intrise di una visione della donna limitata o svilente. Qualcosa di analogo vale a livello delle pratiche. Ad esempio non sono poche le istanze ecclesiali, in particolare comunità religiose femminili, in prima fila nell’accoglienza delle donne vittime di abusi o della tratta e nella battaglia per i loro diritti e la loro libertà: svolgono così un servizio prezioso e un ministero autenticamente profetico nell’evidenziare come la fede non possa tollerare lo sfruttamento delle donne. Ma al tempo stesso permangono situazioni che papa Francesco non teme di classificare come “asservimento” (servidumbre in spagnolo): «Io soffro – dico la verità – quando vedo nella Chiesa o in alcune organizzazioni ecclesiali […] che il ruolo di servizio della donna scivola verso un ruolo di servidumbre» (Discorso ai partecipanti al seminario in occasione del XXV anniversario della Mulieris dignitatem, 12 ottobre 2013).

Per molte ragioni, poi, le istanze di rivalutazione, liberazione ed emancipazione della donna si sono scontrate, almeno in alcune espressioni, con la viva resistenza della Chiesa cattolica. Rileggendo questa vicenda con il dovuto discernimento, vi si possono però scorgere anche delle analogie con quanto avvenuto per i diritti umani e la libertà religiosa: molti di quei valori sono il frutto di semi evangelici che la Chiesa ha gettato nel mondo e che può oggi riscoprire tramite l’apporto di coloro che li hanno fatti fruttificare al suo esterno e talvolta persino contro di lei. La Chiesa potrà riappropriarsene e rigenerarli solo riscoprendone la provenienza evangelica e accogliendo i frutti che essi produrranno anche al suo interno, scoprendo come il riconoscimento effettivo della ricchezza della femminilità e della autentica complementarità dei generi diventi un terreno di annuncio del Vangelo. Inevitabilmente questo cammino investirà anche la questione della condivisione delle responsabilità in seno alla Chiesa, cercando anche con creatività di sciogliere l’ambiguo rapporto che la storia ci consegna tra potere, sesso maschile e sacro: «Il genio femminile è necessario nei luoghi in cui si prendono le decisioni importanti. La sfida oggi è proprio questa: riflettere sul posto specifico della donna anche proprio lì dove si esercita l’autorità nei vari ambiti della Chiesa», come ha detto papa Francesco nell’intervista rilasciata a La Civiltà Cattolica (2013, III, 467).
Queste considerazioni esulano certamente dall’ambito di applicazione della legge sul femminicidio in senso strettamente giuridico, ma per molti versi costituiscono elementi fondamentali per assicurarne l’efficacia. Senza un effettivo cambiamento della cultura e delle pratiche sociali, qualunque legge rischia di rimanere lettera morta. Da questo punto di vista, la legge rappresenta un sasso lanciato nello stagno, sfidandoci tutti, come cittadini, come attori della società civile e anche come membri della Chiesa, a proseguire nel percorso a partire da quelle risorse di consapevolezza che hanno condotto alla sua approvazione.
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