Si è soliti parlare del messia come di un salvatore, promesso da Dio e investito del suo potere e della sua forza, che ribalta una situazione storica di oppressione e debolezza, trasformando la sconfitta in una vittoria definitiva su tutti i nemici e garantendo – proprio in virtù dell’investitura divina – l’ingresso in una nuova “età dell’oro” che non conosce fine. La storia umana non è certo avara di tempi di crisi e fatica, nei quali diventa facile indulgere nel sogno di un ribaltamento miracoloso, di un deus ex machina capace di porre fine a tutti i problemi. Alimentare questo sogno è un potente catalizzatore di consenso, anche politico, per chi riesce a convogliare queste attese sui propri ideali e sul proprio progetto; questa operazione richiede spesso anche l’identificazione di una figura precisa, di un vero e proprio messia: un individuo o un sistema ideologico capace di eliminare del tutto ciò che lo precede in quanto portatore di una “salvezza” nuova, aperta al futuro. L’analisi politologica mostra come questo meccanismo racchiuda una trappola pericolosa per i sistemi democratici: «Popolo, libertà e progresso – scrive il filosofo franco-bulgaro Tzvetan Todorov nel suo recente saggio
I nemici intimi della democrazia (Garzanti, Milano, 2012) – sono fondamenti della democrazia, che però, quando alimentano populismo, ultraliberalismo e messianismo, possono diventare una minaccia per la democrazia stessa».
La Bibbia sembra contenere l’archetipo simbolico di questo meccanismo, oltre che il lessico stesso con cui lo si esprime:
messia è un termine ebraico che significa “unto” (in greco
christós, da cui l’italiano Cristo); questo nella storia dell’Occidente ha rappresentato un potente strumento di legittimazione soprannaturale del potere, tanto che l’unzione faceva parte del rito dell’incoronazione dei sovrani. Tuttavia un confronto attento con il testo ci mostra che il messianismo biblico procede lungo una direttrice ben diversa da quella che abbiamo qui sopra rapidamente evocato.
L’unto per eccellenza: il re Davide Nella Bibbia l’unto per eccellenza – dunque l’archetipo del messia – è il re Davide, il primo re di tutte le tribù di Israele (cfr
1Samuele 16), che conferisce unità e identità “statale” al popolo di Dio, finalmente in possesso della terra promessa. La pagina che con maggiore chiarezza esprime questa visione si trova in
2Samuele 7, nelle parole divine che il profeta Natan riferisce a Davide:
Io ti ho preso dal pascolo, mentre seguivi il gregge, perché tu fossi capo del mio popolo Israele. Sono stato con te dovunque sei andato, ho distrutto tutti i tuoi nemici davanti a te e renderò il tuo nome grande come quello dei grandi che sono sulla terra. Fisserò un luogo per Israele, mio popolo, e ve lo pianterò perché vi abiti e non tremi più e i malfattori non lo opprimano come in passato […] La tua casa e il tuo regno saranno saldi per sempre davanti a te, il tuo trono sarà reso stabile per sempre (vv. 8-10.16).
Questa relazione particolare di Dio con Davide si estende nella promessa della “eternità” del regno per la sua discendenza:
Quando i tuoi giorni saranno compiuti e tu dormirai con i tuoi padri, io susciterò un tuo discendente dopo di te, uscito dalle tue viscere, e renderò stabile il suo regno. Egli edificherà una casa al mio nome e io renderò stabile il trono del suo regno per sempre (vv. 12-13).
Conosciamo la storia. Dopo Davide regnò suo figlio Salomone, poi il regno si divise a causa delle rivalità tra i due figli di quest’ultimo. Il regno del Nord, Israele, fu completamente annientato dagli assiri circa 300 anni dopo Davide, mentre quello del Sud, Giuda, fu conquistato dai babilonesi circa 120 anni più tardi, quando il tempio edificato da Salomone fu distrutto e il popolo deportato in esilio. Siccome le promesse di Dio non possono essere smentite, l’attesa della restaurazione dell’unico regno e dell’avvento di un “nuovo” Davide diventò parte integrante della fede ebraica. Molti testi lo testimoniano, come i
Salmi 2, 72, 89 e 132, utilizzando l’immaginario della promessa di eternità del regno per dare sicurezza in momenti difficili (la guerra siro-efraimitica dell’VIII secolo a.C. in
Isaia 7) o per confermare gli eventi fausti del regno di Giuda (il regno di Giosia in
Isaia 8,23-9,9). Ma che cosa accadde nel momento della catastrofe storica definitiva che cancellò anche il regno di Giuda? Quale evoluzione ebbero queste attese messianiche nel momento in cui il regno nemmeno più esisteva? Una risposta particolarmente illuminante viene da due oracoli del profeta Geremia, il primo (
Geremia 22,1-9) pronunciato immediatamente prima della distruzione di Gerusalemme da parte di Nabucodonosor nel 587 a.C., il secondo (
Geremia 23,1-8) subito dopo la deportazione a Babilonia.
Geremia e la casa di Davide Nel momento in cui sul Medio Oriente antico si affaccia la volontà di conquista dell’impero babilonese, il re si rivolge al profeta per chiedergli che cosa fare. L’indicazione di Geremia è di sottomettersi a Nabucodonosor per sperimentare l’umiliazione che avrebbe dovuto essere il segno di riconoscimento della mancanza di umiltà del popolo di fronte al Signore. In questo modo Gerusalemme e la dinastia si sarebbero salvate, anche se in uno stato di vassallaggio. Il re e il popolo non vollero ascoltarlo e preferirono cercare la salvezza con gli strumenti della strategia geopolitica e militare, alleandosi prima con l’altra superpotenza dell’epoca, l’Egitto, poi con le popolazioni di Siria e Fenicia. Le cose finirono malissimo: per Giuda, per l’Egitto (sconfitto a Carchemis nel 605 a.C.) e per Tiro (distrutta insieme a Gerusalemme nel 587 a.C.). È proprio in questo scenario che le parole di Geremia (cfr i riquadri) ripropongono lo stile autenticamente messianico che dovrebbe contraddistinguere chi siede sul trono di Davide, chiedendo al sovrano e alla classe dirigente di preoccuparsi di promuovere una giustizia autentica all’interno del regno:
Dice il Signore: Praticate il diritto e la giustizia, liberate il derubato dalle mani dell’oppressore, non frodate e non opprimete il forestiero, l’orfano e la vedova, e non spargete sangue innocente in questo luogo (22,3).
Geremia 22,1-9
22,1 Così dice il Signore: «Scendi nella casa del re di Giuda e là proclama questo messaggio. 2 Tu dirai: Ascolta la parola del Signore, o re di Giuda che siedi sul trono di Davide, tu, i tuoi ministri e il tuo popolo, che entrano per queste porte. 3 Dice il Signore: Praticate il diritto e la giustizia, liberate il derubato dalle mani dell’oppressore, non frodate e non opprimete il forestiero, l’orfano e la vedova, e non spargete sangue innocente in questo luogo. 4 Se osserverete lealmente quest’ordine, entreranno ancora per le porte di questa casa i re che siedono sul trono di Davide, montati su carri e cavalli, insieme ai loro ministri e al loro popolo. 5 Ma se non ascolterete queste parole, io lo giuro per me stesso – oracolo del Signore –, questa casa diventerà una rovina. 6 Poiché così dice il Signore riguardo alla casa del re di Giuda: Tu sei per me come Gàlaad, come una vetta del Libano, ma ti ridurrò simile a un deserto, a città disabitate. 7 Sto preparando i tuoi distruttori, ognuno con le armi. Abbatteranno i tuoi cedri migliori, li getteranno nel fuoco. Molte genti passeranno vicino a questa città e si chiederanno: “Perché 8 il Signore ha trattato in questo modo una città così grande?”. 9 E risponderanno: “Perché hanno abbandonato l’alleanza del Signore, loro Dio, hanno adorato e servito altri dèi”». Il profeta non sembra rispondere a tono alla domanda sui rapporti internazionali in chiave politico-militare, indicando che la stabilità del regno e la risposta alla domanda sul modo di procedere di fronte alle mire espansionistiche babilonesi dipendono dalla tutela dei poveri e degli esclusi all’interno della società di Giuda. Chi ha dimestichezza con il testo biblico scorge nelle parole di Geremia un messaggio più profondo, che ne spiega le ragioni. Il suo monito ripropone infatti il comando di Dio di
Deuteronomio 24,17 (
Non lederai il diritto dello straniero e dell’orfano e non prenderai in pegno la veste della vedova), di cui il versetto successivo (24,18) fornisce la motivazione:
Ricordati che sei stato schiavo in Egitto e che di là ti ha liberato il Signore, tuo Dio; perciò ti comando di fare questo. Geremia non propone dunque soltanto una prassi di giustizia o carità verso i poveri, ma chiede che il popolo si riconnetta con la propria identità profonda, espressa dalla memoria della condizione di schiavitù e della liberazione per mano del Signore e non per forza propria. Chiede cioè di passare da un atteggiamento di orgoglio e di autosufficienza a quello di umiltà e dipendenza da Dio e di ridefinire su questa base le proprie strategie.
Dunque la salvezza non viene dall’azzeramento del passato per ripartire su basi inedite a ogni svolta e a ogni crisi della storia, ma dal mantenere vivo il collegamento con quelle esperienze fondanti che hanno permesso di focalizzare ed esprimere la propria identità profonda di popolo. E il ruolo del profeta – e di un autentico messia – è di aiutare a compiere questa operazione, non di creare illusioni mirabolanti. Nel nostro regime di democrazia, quella memoria fondante è contenuta nella Carta costituzionale, che non a caso è vissuta con insofferenza e additata come un ostacolo da quelle proposte politiche che incarnano populismo e messianismo, nemici della democrazia nel senso in cui le utilizza Todorov. Il vincolo ai valori fondanti è un messaggio importante in una fase in cui (ancora una volta) la salvezza del Paese viene fatta dipendere dalla sua capacità di realizzare riforme radicali, in campo istituzionale, politico, economico, ecc.
Qualcosa di analogo accade a ben altro livello. Nella sua recentissima esortazione apostolica
Evangelii gaudium, papa Francesco, con toni simili a quelli di Geremia, declina nuovamente nel nostro oggi la proposta antica di una società ispirata all’antropologia cristiana. In essa vi si trovano espressioni forti come: «Questa economia uccide. Non è possibile che non faccia notizia il fatto che muoia assiderato un anziano ridotto a vivere per strada, mentre lo sia il ribasso di due punti in borsa. Questo è esclusione» (n. 52). Oppure: «alcuni ancora difendono le teorie della “ricaduta favorevole”, che presuppongono che ogni crescita economica, favorita dal libero mercato, riesce a produrre di per sé una maggiore equità e inclusione sociale nel mondo. Questa opinione, che non è mai stata confermata dai fatti, esprime una fiducia grossolana e ingenua nella bontà di coloro che detengono il potere economico e nei meccanismi sacralizzati del sistema economico imperante. Nel frattempo, gli esclusi continuano ad aspettare» (n. 53). Ebbene, fin dai primi giorni non sono mancate aspre critiche da parte dei sostenitori del messianismo globale del mercato che, nonostante la crisi, ancora domina, in particolare negli ambienti conservatori statunitensi. Ai loro occhi la visione di papa Francesco appare ingenua di fronte alla complessità dell’economia contemporanea, se non addirittura ancora ancorata alle “vecchie” tutele sociali (cfr ad esempio Tim Worstall, «In Which A Good Catholic Boy Starts Shouting At The Pope», in
Forbes, 26 novembre 2013, oppure Clément Guillou di
Le Nouvel Observateur, nel suo articolo «Cette fois, c’est sûr: le pape François est socialiste», del 27 novembre 2013). Lo stesso era peraltro accaduto in occasione della pubblicazione di altri documenti del magistero in materia socioeconomica, compresa l’enciclica
Caritas in veritate di Benedetto XVI (2009; a riguardo cfr FOGLIZZO P., «
Nuovi orizzonti per la finanza internazionale. Le proposte del Pontificio Consiglio della Giustizia e della Pace», in
Aggiornamenti Sociali, 2 [2012] 124, nota 8). Forse anche le parole di Geremia avranno suscitato reazioni analoghe nell’intellighenzia geopolitica della Gerusalemme della sua epoca.
Una giustizia messianica
Ancora più stimolante è la profezia che Geremia pronuncia quando Gerusalemme è ormai caduta. In una situazione in cui tutto sembra indicare il definitivo tramonto delle promesse divine fatte a Davide 450 anni prima, il profeta (
Geremia 23,5-8; cfr riquadro qui sotto) rilancia l’attesa del messia con termini che ancora oggi appaiono a una prima lettura sconcertanti per la loro ingenuità e che dovevano risultare straordinariamente stridenti con l’esperienza concreta del popolo in esilio a cui erano rivolti.
Geremia 23,5-8 5Ecco, verranno giorni – oracolo del Signore – nei quali susciterò a Davide un germoglio giusto, che regnerà da vero re e sarà saggio ed eserciterà il diritto e la giustizia sulla terra. 6 Nei suoi giorni Giuda sarà salvato e Israele vivrà tranquillo, e lo chiameranno con questo nome: Signore-nostra-giustizia. Pertanto, ecco, verranno giorni – oracolo del Signore – nei quali non si 7 dirà più: “Per la vita del Signore che ha fatto uscire gli Israeliti dalla terra d’Egitto!”, 8 ma piuttosto: “Per la vita del Signore che ha fatto uscire e ha ricondotto la discendenza della casa d’Israele dalla terra del settentrione e da tutte le regioni dove li aveva dispersi!”; costoro dimoreranno nella propria terra. Con grande forza il testo (cfr in particolare i vv. 5-6) connota ancora il tempo del
messia come tempo del
diritto e della
giustizia e soprattutto ribadisce che sono questi i soli criteri che guidano l’azione di chi voglia comportarsi da
vero re: siamo agli antipodi della logica della Realpolitik e della forza delle armi a cui hanno fatto ricorso, con esiti fallimentari, la monarchia e il popolo di fronte a Nabucodonosor. Infatti al
messia il profeta non attribuisce potenza o capacità militari, e nemmeno successi contro i nemici. Per la Bibbia la mitezza è caratteristica dell’esercizio della leadership (cfr il nostro «
Mitezza», in
Aggiornamenti Sociali, 11 [2011] 713-716) ed è anche l’attributo del
messia evocato dai profeti postesilici (cfr
Zaccaria 9,9-10, nel quale il Messia entra “glorioso” a cavallo di un asino!). Il testo di Geremia che qui stiamo analizzando ci aiuta a capire come questa mitezza non indichi solo la rinuncia programmatica all’esercizio della forza (che tradizionalmente è prerogativa propria del potere), ma si configuri in positivo come promozione di istituzioni e relazioni sociali improntate alla giustizia, al punto che essa diventa il “nuovo” nome del regno messianico, il termine che meglio ne esprime la natura più intima.
In parallelo a quanto sopra affermato sulla base di
Deuteronomio 24, a radice della novità messianica di un regno di giustizia Geremia pone una ripetizione dell’esperienza di liberazione del popolo da parte del Signore: non solo più dall’Egitto, ma anche dall’esilio in terra di Babilonia. Solo l’umiltà e la dipendenza da Dio, e gli atteggiamenti che ne conseguono, possono garantire al popolo quella stabilità che Dio ha promesso al trono di Davide: quella promessa non può infatti essere interpretata come una tutela soprannaturale “a prescindere”. Proprio Geremia aveva denunciato l’inconsistenza di questa convinzione nel momento in cui su di essa si faceva affidamento contro l’invasore:
Non confidate in parole menzognere ripetendo: «Questo è il tempio del Signore, il tempio del Signore, il tempio del Signore!». Se davvero renderete buone la vostra condotta e le vostre azioni, se praticherete la giustizia gli uni verso gli altri, se non opprimerete lo straniero, l’orfano e la vedova, se non spargerete sangue innocente in questo luogo e se non seguirete per vostra disgrazia dei stranieri, io vi farò abitare in questo luogo, nella terra che diedi ai vostri padri da sempre e per sempre (
Geremia 7,4-7).
Una volta in esilio, la prospettiva messianica non cambia la sua direttrice: il nuovo Davide che verrà non sarà un condottiero che sconfiggerà ogni nemico, restaurando gloria e potenza del passato, per quanto questa possa apparire dolce cullarsi in questa illusione nel momento della sconfitta. Il
messia sarà invece
vero re, armato di diritto e giustizia, come a Davide (e ad alcuni suoi successori) riuscì di essere quel tanto che basta a far intravedere quanto è attraente un regno fondato su queste basi. Lungo la storia di Israele, dopo l’esilio si continuò ad aspettare il
messia, ma la sottolineatura di Geremia su mitezza e giustizia come sue caratteristiche identitarie non fu sufficientemente ascoltata. Anche qualche secolo dopo, all’epoca della dominazione romana per esempio, il
messia che tutti agognavano aveva volto molto differente. E probabilmente anche oggi.