Sant’Ambrogio è una di quelle figure il cui rilievo non è confinato esclusivamente alla loro epoca, ma travalica i secoli. Vescovo di Milano per poco più di vent’anni, il suo modo di concepire ed esercitare la cura pastorale ha lasciato un segno profondo nel tempo: basti ricordare il suo impegno nella predicazione, nella liturgia, nei dibattiti teologici con gli ariani, nel confronto continuo con il potere imperiale romano per definire la sfera di competenza delle istituzioni civili e di quelle ecclesiali. In ognuno di questi ambiti, l’eredità di Ambrogio è stata successivamente ripresa e riletta, anche criticamente, dando un notevole contributo alla riflessione sul ministero del vescovo. Inoltre, come ricorda il cardinale Martini, «la sua eccezionale esperienza nell’amministrazione civile, congiunta con una luminosa coscienza dell’ampiezza della missione pastorale, ha fatto di lui un maestro e un costruttore di civiltà» (2002, 1298).
Tra i tanti aspetti di interesse di questa personalità così ricca, si privilegia qui l’attenzione che egli manifestò per le questioni sociali del suo tempo.
Sant’Ambrogio nacque a Treviri tra il 333 e il 340 da una famiglia romana aristocratica e cristiana. Prima della sua elezione a vescovo di Milano, avvenuta nel 374, ricoprì diverse cariche amministrative, tra cui quella di
consularis Liguriae et Aemiliae (governatore della Provincia della Liguria e dell’Emilia, che coincideva pressappoco con l’attuale Lombardia, una parte del Piemonte e dell’Emilia-Romagna). Figura di primo piano della Chiesa del IV secolo, scrisse numerose opere esegetiche, dogmatiche e teologiche. Morì nel 397.
Milano, capitale dell’impero romano, e il suo vescovo
Quando Ambrogio nel 374 fu eletto vescovo, Milano era ormai da quasi un secolo una delle capitali dell’impero romano, dopo la decisione di Diocleziano di introdurre la tetrarchia nel sistema di governo imperiale. La presenza della corte aveva accresciuto ancor di più il prestigio della città. La sua posizione la rendeva poi un vero e proprio crocevia strategico nelle comunicazioni tra le varie parti dell’impero, uno snodo fondamentale per i commerci e le assicurava un ruolo preminente a livello economico, in particolare nel settore agricolo per la presenza di estesi latifondi in mano a poche famiglie. A questo si aggiungevano una vita culturale vivace e la presenza di diverse scuole, come sappiamo dal racconto di Agostino che descrive la sua vita di professore a Milano. Si trattava, insomma, di una città molto viva e ricca, in cui si stima vivessero circa 120mila persone appartenenti a differenti classi sociali: nobiltà locale e aristocrazia senatoria, militari e burocrazia imperiale, commercianti e contadini, persone di classe inferiore e schiavi. Ma era anche una città in cui erano visibili i travagli e i segni di decadenza dell’impero romano a livello politico e culturale.
In questo mondo composito Ambrogio si trovò a esercitare il proprio ministero. Per svolgerlo, oltre alla formazione ricevuta sul piano religioso e spirituale, fece tesoro di quanto aveva appreso durante gli studi e al servizio dell’impero come alto funzionario. La sua esperienza, unita all’appartenenza all’aristocrazia senatoria romana, gli dava la capacità di interpretare gli eventi, anche di tipo sociale, che accadevano nella città e di coglierne i meccanismi sottostanti. Il suo sguardo non si rivolse «soltanto all’interno della comunità ecclesiale», ma si allargò anche «ai problemi posti dal risanamento globale della società» del suo tempo, il cui tessuto morale e sociale necessitava di essere ricostruito sulla base di valori solidi (Giovanni Paolo II 1996, n. 7).
Pienamente partecipe delle dinamiche sociali e culturali del suo tempo, Ambrogio non si cimenta nei suoi scritti in riflessioni teoriche fini a se stesse. Piuttosto affronta di volta in volta gli interrogativi di natura teologica o morale sollevati dagli eventi che lo toccavano, per cercare di darvi una risposta, che non resta mai confinata sul piano speculativo «perché hanno il sopravvento l’esortazione morale, il consiglio, l’ammaestramento, l’edificazione» (Mara 2015, 16). È quanto si coglie, per esempio, in alcuni scritti composti intorno al 390 (come
I doveri,
La vigna di Naboth o
Tobia) che, pur differenziandosi per il genere e le finalità, sono accomunati da un motivo di preoccupazione ricorrente: le gravi conseguenze patite dai più deboli, sia nella popolazione della città sia tra gli abitanti delle campagne, a causa della ricerca sfrenata di guadagni da parte di alcuni proprietari terrieri.
Un caso di ingiustizia: la speculazione sui prodotti agricoli
Per comprendere meglio le riflessioni di Ambrogio sulla vita sociale esaminiamo il caso delle speculazioni sui cereali e delle carestie artificialmente causate da alcuni grandi proprietari terrieri appartenenti alla ricca aristocrazia senatoria, presentato nel trattato
I doveri. In questa opera – destinata alla formazione del clero e in cui tratta di che cosa sia onesto e cosa utile –, Ambrogio riprende in parte l’omonimo trattato di Cicerone, compiendo però «una rielaborazione cosciente del modello […] in funzione di propri problemi, di una propria realtà storica ben concreta, con la quale egli intendeva fare i conti» (Cracco Ruggini 1976, 239), oltre che alla luce del cristianesimo.
Per affrontare il tema delle speculazioni sui prodotti agricoli, il vescovo milanese mette in scena un dibattito tra due personaggi immaginari. Il primo è il portavoce delle posizioni dei latifondisti, che conservano nei loro granai ingenti quantità di grano, aspettando a venderlo quando i prezzi saranno più alti per la penuria dell’offerta sul mercato, che loro stessi concorrono a creare con le loro scelte. Il secondo, dietro al quale c’è lo stesso Ambrogio, condanna in modo fermo questa pratica. Sfondo comune al dibattito è l’opinione, largamente diffusa al tempo e condivisa anche da Ambrogio, della bontà dell’agricoltura. Entrambi gli interlocutori, infatti, iniziano lodando il valore dell’agricoltura in quanto tale, ma poi ricorrono a questo argomento in modo diverso. Il primo lo utilizza come un paravento per giustificare pratiche diametralmente opposte a quanto apparentemente affermato. Lo stoccaggio dei raccolti è equiparato a una condotta diligente e la sua vendita nel tempo di carestia a un atto di carità: «Dov’è la frode, dal momento che molti correrebbero pericolo, se non avessero che cosa comperare?» (Ambrogio,
I doveri, III, 39).
Ambrogio, I doveri, III, 41
Dal reddito della zolla ubertosa devi attendere la ricompensa del tuo lavoro, dalla fertilità del suolo fecondo sperare il giusto guadagno. Perché muti in frode l’operosità della natura? Perché neghi all’uso degli uomini i prodotti destinati a tutti? Perché riduci l’abbondanza ai popoli? Perché brami la carestia? Perché fai desiderare ai poveri la sterilità della terra? […] Sei lieto che la maledizione che non nascesse niente a nessuno sia stata propizia ai tuoi desideri. Ti rallegri di aver venduto proprio allora il tuo raccolto e sulla miseria di tutti accumuli allora una fortuna; e questa chiami operosità; dai a questa, che è raffinata furberia e fraudolenta astuzia, il nome di diligenza; chiami rimedio questo che è disegno d’iniquità. Lo dovrei chiamare rapina od usura. […] Tu da usuraio nascondi il frumento, da trafficante lo vendi al maggior offerente. Perché il tuo augurio per tutti è che in avvenire aumenti la carestia, nella supposizione che non resti nulla del prodotto e che l’anno prossimo sia ancor meno produttivo? Il danno comune è un guadagno per te.
La risposta del secondo interlocutore (cfr riquadro) è sferzante, mostrando l’utilizzo ideologico dei luoghi comuni riguardo all’agricoltura per mascherare condotte equiparate a chiare lettere alla rapina e all’usura. Analizzando le divergenze tra le affermazioni proclamate e le pratiche poste in essere, Ambrogio denuncia l’illegittimità del profitto conseguito attraverso la creazione artificiale delle condizioni all’origine della penuria di prodotti agricoli. Vendendo i propri prodotti quando i prezzi sul mercato sono cresciuti per l’avanzare della stagione e della richiesta a fronte di una scarsa disponibilità, questi proprietari realizzano ingenti guadagni. Si tratta di una condotta usuraria perché analoga a quella in cui si aumentano gli interessi praticati per un prestito. A essere condannata è la brama del possesso, un demone che «porta prima agli abusi peggiori e poi al delitto» (Mara 2015, 33) come nel caso della vicenda biblica della vigna di Nabot desiderata dal re Acab (
1Re 21). Contro comportamenti di questo genere il vescovo di Milano fa appello con forza ai principi dell’eguaglianza degli uomini e della destinazione universale dei beni della creazione, affermando la sussistenza di una solidarietà tra gli uomini che richiama da vicino quanto recentemente sostenuto da papa Francesco al n. 189 dell’esortazione apostolica
Evangelii gaudium (2013).
La conclusione a cui giunge il secondo interlocutore – «Il danno comune è un guadagno per te» (Ambrogio,
I doveri, III, 41) – indica il fondamento del ragionamento svolto da Ambrogio. All’individuo chiamato a dover scegliere se agire secondo il proprio utile o secondo onestà il vescovo di Milano propone un criterio chiaro: «Il giusto ritenga che nulla si debba togliere ad un altro né voglia accrescere il proprio vantaggio con danno altrui» (Ambrogio,
I doveri, III, 13). Una precisa antropologia è alla base di questa visione, i cui perni sono costituiti dalla comune origine di tutta l’umanità e dalla solidarietà tra gli esseri umani che ne deriva: «Considera uomo, donde hai preso il nome: certamente da
humus (terra), la quale non toglie a nessuno, ma elargisce tutto a tutti e fornisce i diversi prodotti per l’uso di tutti gli esseri viventi. Perciò è stata chiamata umanità la particolare virtù propria dell’uomo, per effetto della quale si reca aiuto ai propri simili» (Ambrogio,
I doveri, III, 16). Prendendo questa posizione Ambrogio non esita a porsi contro gli interessi della classe sociale a cui appartiene (ormai in gran parte costituita da cristiani), esprimendo «una critica di fondo all’interno della stessa società cristiana» (Cracco Ruggini 1976, 247).
Una diretta conseguenza di questa impostazione si coglie in un altro caso menzionato da Ambrogio: l’allontanamento da Roma, deciso dalle autorità per la pressione esercitata dalla plebe, di quanti non potevano vantare una residenza stabile al sopravvenire di una penuria delle risorse alimentari (cfr riquadro). Ancora una volta non si tratta di un caso ipotetico, ma di situazioni occorse nel giro di pochi anni almeno in due occasioni. Ambrogio deplora la pratica, al tempo diffusa e accettata, di espellere i non cittadini – che noi oggi chiamiamo immigrati, richiedenti asilo o rifugiati –, facendo leva su argomenti morali ed economici: la solidarietà dovuta a chi è più debole; l’immoralità di lasciare morire centinaia di persone per fame; il danno economico subito dall’intera comunità per il venir meno di quanti avevano concorso al benessere generale e avrebbero potuto continuare a farlo; l’inumanità di spezzare i vincoli di parentela e di amicizia creatisi nel tempo. Ambrogio non si ferma alla denuncia di una pratica ingiusta, ma avanza anche una proposta, citando quanto già occorso nel passato: l’aiuto assicurato da chi ha maggiori possibilità economiche con l’acquisto delle quantità supplementari di cibo necessarie per venire incontro alle esigenze di tutti coloro che abitano nella città. Alla base di queste posizioni ci sono le stesse motivazioni prima indicate.
Ambrogio, I doveri, III, 45
Ma anche quelli che escludono i forestieri dalla città non meritano certo approvazione. Ciò significa cacciarli proprio quando si dovrebbero aiutare, impedire loro i rapporti con la madre comune, rifiutare loro i frutti che la terra produce per tutti, troncare le relazioni di vita già iniziate, non voler dividere in tempo di necessità le risorse con quelli con i quali furono comuni i diritti. Le fiere non scacciano le fiere, e l’uomo scaccia l’uomo! Gli animali, sia feroci che domestici, ritengono comune a tutti il cibo che la terra offre; essi anzi aiutano chi è della medesima razza, l’uomo lo combatte, mentre non dovrebbe credere estraneo a sé nulla di quant’è umano.
Un esempio non isolato
Ci siamo limitati a richiamare solo alcune delle pagine di Ambrogio su temi di carattere sociale, ma nei suoi scritti il vescovo milanese, oltre a occuparsi della speculazione agraria e delle relative conseguenze, si è soffermato, per esempio, sulla giustizia, la proprietà privata, la frode, il riscatto degli schiavi, le prevaricazioni dei potenti sui deboli. L’ampio ventaglio di interventi rivela un interesse non estemporaneo da parte di Ambrogio a queste tematiche, dovuto anche al fatto che fu più volte sollecitato dagli eventi a misurarsi con queste situazioni. Proprio dal confronto con la realtà, letta e valutata alla luce della fede cristiana, Ambrogio prende le mosse per elaborare le proprie posizioni, in cui gli insegnamenti dei vescovi o pensatori cristiani che lo precedettero non sono ripetuti pedissequamente, ma ripresi tenendo conto del contesto italiano del IV secolo. Questo modo di procedere non è certo tipico di Ambrogio, né tanto meno del cristianesimo, ma costituisce il modo ordinario e intelligente attraverso cui si realizza la progressiva evoluzione del pensiero umano. Ne abbiamo un esempio quando si considera il modo antropocentrico in cui Ambrogio concepisce la natura, come creazione i cui doni sono stati profusi a tutti gli uomini, e la sua attuale comprensione nel quadro dell’ecologia integrale proposta dall’enciclica
Laudato si’, in cui papa Francesco si confronta con l’irruzione della tecnologia nelle nostre vite e le conseguenze che ne derivano per il rapporto tra natura e uomo (LS, n. 106). Si può facilmente misurare la differenza tra le due impostazioni e, al contempo, si deve riconoscere la linearità di un’evoluzione, che inscrive gli avanzamenti in un progressivo far tesoro di quanto riconosciuto in precedenza (ad esempio la ribadita posizione sulla destinazione universale dei beni) e nella disponibilità a lasciarsi interrogare, in un ascolto attento e scevro da pregiudizi e chiusure, dalle provocazioni che ogni epoca porta in sé e rivolge al cristianesimo.
In questo senso, l’attualità di Ambrogio non consiste tanto nella validità delle proposte che ha avanzato, ma nello stile di esercizio del suo ministero di vescovo. Nel tempo la sua figura si è imposta come quella di un «vescovo che si oppone con uguale coraggio tanto ai nemici della fede quanto agli arbìtri del potere» (Pricoco 1998, 474). Erano questi i tratti che avevano colpito i suoi contemporanei e che poi sono stati tramandati. Ambrogio, grazie alla sua esperienza di funzionario imperiale, si segnala per l’attenzione che rivolge a quanto accade intorno a lui, leggendone le trame e non limitandosi a registrare supinamente la successione degli eventi. Inoltre, è notevole per la sua capacità di intervenire nel dibattito pubblico, sollevando questioni talora scomode, ma quanto mai essenziali, portando un giudizio, maturato alla luce della sua fede cristiana, fuori dalle correnti di pensiero dominante e andando contro gli interessi della sua stessa classe sociale di provenienza.
In Ambrogio si delinea pertanto il volto di una Chiesa presente e attiva nella vita sociale della comunità civile in cui è inserita; al contempo capace di proporre iniziative per far fronte alle ingiustizie patite soprattutto dai più deboli ed esclusi, promotrice di una vera solidarietà tra le diverse classi sociali e e consapevole delle distinte sfere di responsabilità che fanno capo alle istituzioni civili e a quelle religiose. Questo modo della Chiesa di essere presente nella società non è certo confinato solo ai primi secoli del cristianesimo. Testimoni autorevoli, anche nei tempi recenti, non mancano. È sufficiente ricordare un successore di Ambrogio sulla cattedra milanese come il cardinale Carlo Maria Martini, che nei suoi anni di episcopato fu testimone attento dei travagli della società civile ed ecclesiale a Milano e in Italia (dal terrorismo all’edonismo rampante, alla crisi politica e morale messa alla luce dall’inchiesta Mani pulite), sempre pronto a cogliere e far riconoscere non solo i rischi esistenti, ma anche le opportunità presenti e le potenzialità inespresse nel travaglio sperimentato avendo un’attenzione particolare alla situazione vissuta da chi si trova ai margini della società.
RISORSE
EG = PAPA FRANCESCO, esortazione apostolica
Evangelii gaudium, 2013.
LS = PAPA FRANCESCO, enciclica
Laudato si’, 2015.
GIOVANNI PAOLO II (1996), epistola apostolica
Operosam diem.
AMBROGIO,
I doveri in
Opere morali I. I doveri, a cura di BANTERLE G., Biblioteca Ambrosiana-Città Nuova Editrice, Milano-Roma 1977.
—,
La vigna di Naboth, a cura di MARA M. G., EDB, Bologna 2015.
CRACCO RUGGINI L. (1976), «Ambrogio di fronte alla compagine sociale del suo tempo», in LAZZATI G. (ed.),
Ambrosius Episcopus, vol. I, Vita e Pensiero, Milano.
MARA M. G. (ed.) (2015), «Introduzione», in AMBROGIO,
La vigna di Naboth.
MARTINI C. M. (2002),
Parola alla Chiesa Parola alla Città, EDB, Bologna.
PAREDI A. (2015),
Sant’Ambrogio e la sua età, Jaca Book, Milano.
PRICOCO S. (1998), «Ambrogio come prototipo di santità episcopale», in PIZZOLATO L. F. – RIZZI M. (edd.),
Nec timeo mori, Vita e Pensiero, Milano.
SALAMITO J.-M. (2006), «Christianisme antique et économie: raisons et modalités d’une rencontre historique», in
Antiquité tardive, 14, 27-37.
SORDI M. (2000),
L’impero romano-cristiano ai tempi di Ambrogio, Edizioni Medusa, Milano.