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“30x30”: il risultato della COP15 sulla biodiversità

Si è conclusa lunedì 19 a Montreal, ma sotto la presidenza cinese, la COP15 sulla biodiversità, cioè l’incontro dei rappresentanti dei 196 Stati che hanno sottoscritto la Convenzione sulla diversità biologica, stipulata a Rio de Janeiro nel 1992. È la gemella meno celebre della COP sui cambiamenti climatici e, infatti, ha ricevuto scarsissima attenzione mediatica nelle due settimane del suo svolgimento. Tuttavia, i negoziati sulla tutela della biodiversità, al pari di quelli sul clima, mettono a tema una serie di questioni di portata globale: il rapporto tra la conservazione della natura e lo sviluppo economico dei Paesi più poveri, i diritti dei popoli indigeni, il ruolo della finanza internazionale e, non ultimi, i rapporti tra gli Stati.

Nonostante le tensioni emerse nel corso della conferenza tra l’Unione Europea, la Cina e gli Stati africani, è stato raggiunto un accordo con l’adozione del Kunming-Montreal Global Biodiversity Framework1, che stabilisce 23 obiettivi globali da realizzare entro il 2030. Il testo, approvato nonostante l’opposizione della Repubblica Democratica del Congo, uno dei Paesi che ospitano la più ricca biodiversità sul pianeta, registra i compromessi raggiunti e segna alcuni passi in avanti.

 

Il primo è l’approvazione del cosiddetto piano “30x30”, cioè il progetto di ripristinare almeno il 30% dei territori degradati, garantire che almeno il 30% delle aree terrestri e acquatiche siano conservate e gestite attraverso sistemi di aree protette, e azzerare la perdita di aree ad alta biodiversità, il tutto entro il 2030. Questo progetto è stato oggetto di vivaci discussioni nei giorni della COP, soprattutto per la denuncia, da parte di diverse ONG, del rischio che la gestione delle aree protette vada a discapito dei diritti delle popolazioni indigene che vi risiedono. Il problema è antico, risale all’origine stessa dei primi parchi nazionali negli Stati Uniti, ed è stato recentemente documentato da un rapporto della ONG Survival International2. Per tale motivo, il documento finale afferma con insistenza (20 menzioni nel testo) l’impegno a garantire i diritti dei popoli indigeni e delle comunità locali. Inoltre, il testo stabilisce l’impegno ad attuare processi decisionali inclusivi, rispettosi delle culture locali, e un’equa distribuzione dei benefici, anche economici, provenienti dalla biodiversità.

 

La COP segna un passo in avanti anche sul versante finanziario, con la decisione di stanziare 200 miliardi di dollari all’anno, da fonti pubbliche e private, per sostenere i piani nazionali di conservazione della biodiversità; a beneficiare dei finanziamenti saranno principalmente i Paesi del Sud globale. Questo sembra essere il motivo per cui il testo non è stato approvato dalla Repubblica Democratica del Congo, che rivendicava maggiori stanziamenti.

Inoltre, gli Stati si sono impegnati ad assumere tutte le misure legali e amministrative perché le imprese multinazionali e le istituzioni finanziarie adottino politiche di trasparenza, tramite un monitoraggio costante dell’impatto ambientale delle loro attività. Un’altra novità è l’impegno a individuare, entro il 2025, gli incentivi e i sussidi alle attività dannose per la biodiversità, per poi eliminarli o trasformarli.

 

Molto interessante è anche l’impegno a ridurre in modo equo l'impronta globale del consumo, dimezzare lo spreco alimentare globale, ridurre in modo significativo l'iperconsumo e la produzione di rifiuti; occorre sottolineare l’espressione “in modo equo”, che riflette la disparità tra il Nord e il Sud globali.

Una delle discussioni più accese è ruotata intorno alla proposta di ridurre l’uso di pesticidi fino a due terzi. Invece, la diversità di opinioni ha portato a un cambio di obiettivo: dalla riduzione del volume delle sostanze alla gestione dei rischi derivanti, che dovranno diminuire globalmente di almeno il 50%.

 

Che cosa possiamo attendere da questo accordo? Ci sono precedenti che non incoraggiano l’ottimismo: alcuni di questi impegni erano già stati assunti in occasione della COP10 di Nagoya (Giappone) e non sono stati rispettati. Per esempio, gli obiettivi di eliminare gli incentivi dannosi e di fermare la perdita di habitat naturali avrebbero dovuto essere realizzati entro il 2020. Ma ci sono anche elementi che nutrono la speranza: l’aumento dell’ambizione rispetto alla percentuale dei territori da porre sotto tutela, l’affermazione più decisa dei diritti dei popoli indigeni, una maggiore attenzione al coinvolgimento delle popolazioni locali nella gestione delle aree protette. Un ruolo chiave verrà svolto dai piani nazionali per la tutela della biodiversità, che dovranno essere aggiornati ogni anno analogamente a quanto previsto per le emissioni di gas serra. Per la presentazione di questi piani, tuttavia, non è prevista una scadenza. Pertanto, la vigilanza della società civile sarà indispensabile perché i singoli Governi mantengano gli impegni assunti alla COP.

 

Note

 

1. https://www.cbd.int/doc/c/e6d3/cd1d/daf663719a03902a9b116c34/cop-15-l-25-en.pdf

2. https://assets.survivalinternational.org/documents/1361/parksneedpeoples-reportsurvival-it.pdf

 

 

Immagine: UN Biodiversity, CC BY 2.0, via Wikimedia Commons
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