Unbelievable

Susannah Grant e Lisa Cholodenko
Netflix, Stati Uniti 2019, Drammatico, Miniserie TV (8 episodi, 38-45 minuti a episodio)
Scheda di: 

Nel cuore di una notte di marzo del 2008, la diciottenne Marie viene svegliata da uno sconosciuto nel suo appartamento. L’uomo, incappucciato, la lega al letto e la violenta. Subito dopo la fotografa e la minaccia di pubblicare tutto on line. La miniserie Unbelievable –prodotta da Netflix e articolata in otto episodi – inizia la mattina dopo la violenza e non risparmia nessuna durezza. Fin dalle prime sequenze si rivive ogni momento dell’abuso sessuale, mettendo lo spettatore in difficoltà: continuare a vedere la serie o abbandonare un’esperienza che si preannuncia disturbante?

La puntata iniziale, diretta da Lisa Cholodenko, si concentra interamente su Marie, interpretata magistralmente da Kaitlyn Dever; l’incubo dello stupro, per la ragazza, non finisce con la scomparsa del suo violentatore ma peggiora a ogni fase dell’indagine. Oltre a test medici invasivi, si susseguono interrogatori stancanti e ripetitivi condotti da una coppia di investigatori, che incarnano un’attitudine indolente e arrogantemente maschilista, passando da un atteggiamento vagamente comprensivo nei confronti della ragazza a posizioni sempre più scettiche, fino ad arrivare alla negazione dell’intera vicenda. Marie è sola di fronte a un mondo di adulti – generalmente maschi e ostili – e con la sua solitudine lo spettatore deve coesistere, inerme, per tutto il primo episodio. L’uso ricorrente dei flashback obbliga, a ogni nuova domanda o a ogni nuova prova clinica, a rivivere tutto quello che è successo quella notte. Non c’è tregua visiva per lo spettatore, come non c’è per la protagonista dell’episodio: al presentarsi di ogni poliziotto, investigatore, medico, con cui Marie si trova a dover ricordare, ripetere, riscrivere la sua esperienza, viene riprodotta la scena dello stupro. È proprio tramite l’uso intelligente del linguaggio del cinema – i campi e controcampi degli interrogatori alternati ai flashback che riportano alla notte della tragedia – che Unbelivable riesce a raccontare la violenza sessuale allontanandosi da una messa in scena compiaciuta. La struttura “a ripetizione” e la freddezza delle inquadrature allontanano le scelte registiche da qualsiasi voyerismo morboso e da un certo compiacimento per la violenza comune a tanti altri prodotti cinematografici contemporanei.

La miniserie manifesta così uno stile estremamente asciutto che riflette il registro giornalistico da cui nasce il materiale di partenza. Unbelievable è infatti tratta dall’inchiesta giornalistica An Unbelievable Story of Rape, vincitrice del premio Pulitzer nel 2016, pubblicata per Propublica e The Marshall Project da T. Christian Miller e Ken Armstrong (<www.propublica.org/article/false-rape-accusation-an-unbelievable-story>). Come l’articolo di partenza, la miniserie adotta una struttura a due binari, spostandosi avanti e indietro nel tempo tra la storia di Marie (che, sotto pressione della polizia, dovrà ritirare la sua denuncia) e il racconto pulsante ed estremamente avvincente della caccia a uno stupratore seriale da parte di due donne detective, Grace Rasmussen e Karen Duvall. Lo spettatore si ritrova così a comporre i pezzi di una storia che si sviluppa in due luoghi (lo stato di Washington e il Colorado) e due tempi diversi (2008 e 2011) e che ha due registri totalmente differenti. Da un lato un racconto introspettivo e drammatico, dall’altro un avvincente thriller poliziesco con i meccanismi tipici della serie investigativa. In questo alternarsi stilistico, Unbelievable sembra mimare il lavoro giornalistico di Ken Armstrong che si è trovato a unire la sua storia con quella di T. Christian Miller, come ha dichiarato in una recente intervista: «Ricordo di aver visto tutti i documenti che T. aveva raccolto in Colorado, e poi ho scaricato tutti i file che io avevo raccolto a Washington, ed era come se ognuno di noi avesse avuto metà di una storia fenomenale. E in un giorno, scaricando le nostre note in un drive comune, improvvisamente abbiamo avuto una storia completa» (<https://longform.org/posts/longform-podcast-201-t-christian-miller-and-ken-armstrong>).

La serie fa proprio un registro realistico che esclude le derive metaforiche e le immagini particolarmente evocative a favore di un’economia narrativa abbastanza serrata. Eppure, in Unbelievable la messa in scena di molti dei momenti di quotidianità lavorativa di Marie mentre svolge i suoi turni presso un magazzino di un grande supermercato sembra raccontare l’oggettivazione della persona, risultato invariabile di qualsiasi violenza sessuale. Nella miniserie si riflette infatti sul processo successivo alla violenza stessa. Le madri adottive, i vicini di casa, l’ex fidanzato, dopo la denuncia trattano Marie come un pezzo non funzionante. L’idea di rappresentarla continuamente circondata da oggetti e in un “non-luogo” come un supermercato veicola in maniera molto chiara la sua condizione di reietta e abbandonata.

Ed è appunto nella figura di Marie dove la serie è più coraggiosa nel delineare una storia che è potenzialmente “non piacevole” e che non possiede quelle caratteristiche narrative che causano il fenomeno del binge-watching, cioè la visione quasi compulsiva degli episodi di una serie, soprattutto se sviluppata su varie stagioni. La serie è attenta a bilanciare la vicenda di Marie – drammatica e riflessiva – con il thriller investigativo delle due detective, tanto che si potrebbe parlare di un prodotto a doppia velocità, con un piano drammatico più solido alternato a una narrazione poliziesca tradizionale che mantiene alta l’attenzione dello spettatore. Tuttavia anche dal punto di vista del racconto investigativo Unbelivable marca una distanza radicale rispetto alla serie poliziesca classica, allontanandosi dalla morbosità dei dettagli (che caratterizza moltissimi gialli, da CSI al recente Mindhunter) ed evitando di dedicare spazio alla figura del criminale. Lo stupratore seriale al centro di Unbelivable non viene infatti mai raccontato e non è mai al centro della scena, mentre la maggior parte dello spazio è dedicata alle vittime, alla loro vita dopo il trauma e alla loro ricerca di giustizia. Se si pensa che negli Stati Uniti su 230 casi di violenza sessuale denunciati meno di cinque si concludono con una condanna (<www.rainn.org/statistics/criminal-justice-system>), l’attenzione che Unbelievable dedica alle vittime vuole offrire un contraltare a una realtà giudiziaria che sembra dimenticarsi della loro presenza. Unbelivable, infatti, segna un passo in avanti nella rappresentazione della violenza sulle donne nel cinema. Se pensiamo a come la messa in scena dello stupro sia stata spesso legata alla dialettica stupro-vendetta – in una lunghissima tradizione che va da Ms. 45 di Abel Ferrara a Irreversible di Gaspar Noè – dove la donna ha un ruolo marginale e la violenza è funzionale a innescare un meccanismo narrativo facile, la serie si propone invece di ridare dignità alle vittime e di mostrarne l’eroico cammino di guarigione.

Netflix negli ultimi anni si è così dimostrata, nel mondo del video on demand, la piattaforma più recettiva rispetto ai grandi temi che scuotono il panorama sociale. Ha preso recentemente posizione sulla questione razziale che sta scuotendo gli Stati Uniti (cfr <www.sohh.com/netflix-bodies-disney-amazon-prime-every-streaming-service-right-now-to-be-silent-is-to-be-complicit-black-lives-matter>, 20 maggio 2020), ha adottato serie misure per prevenire le molestie sessuali durante la produzione di film e serie (cfr <www.independent.co.uk/arts-entertainment/tv/news/netflix-sexual-harassment-training-rules-me-too-flirting-on-set-a8396431.html>) e ha escluso dalla produzione attori che si erano macchiati di comportamenti inappropriati in passato (come Kevin Spacey, protagonista di House of Cards). Questa attenzione non è casuale visto che le due miniserie di punta del 2019 – Unbelievable e When they see Us (cfr la recensione su Aggiornamenti Sociali, maggio 2020) – fanno diretto riferimento ai due grandi temi che attraversano il dibattito pubblico americano in questi ultimi anni: la differenza etnica tra bianchi e neri e la violenza sulle donne, testimoniati dagli hashtag virali #Blacklivesmatters e #Metoo. Entrambe le serie, prodotte a partire dall’elaborazione giornalistica di fatti realmente accaduti in un passato recente (gli anni Duemila nel caso di Unbelievable e gli anni ’80-’90 per When they see us) cercano di dialogare, in maniera critica, con l’attualità americana.

Forse è troppo presto per pensare che nella narrazione seriale si stia sviluppando un movimento simile al cinema politico di Alan J. Pakula e John Frankenheimer degli anni ’70 ma sembra evidente che nel formato della miniserie vengano sviluppati temi più profondi e che i prodotti audiovisivi di 4-8 episodi siano il terreno futuro per narrazioni più mature e meno legate al semplice consumo.

Unbelievable
dimostra come nelle piattaforme on line si possano aprire nuovi percorsi narrativi per parlare a un pubblico ampio, che va ben oltre le consuete audience cinematografiche. Come ha recentemente concluso Molly Haskel nel suo From Reverence to Rape: The Treatment of Women in the Movies (pp. 47-48): «Al momento, la televisione e le serie offrono uno spazio per l’approfondimento, per un approccio spigoloso, maleducato, provocatorio, mordente, inaspettato [...] Prima della sua rinascita via cavo, la televisione era considerata un “medium femminile”, un rifugio (addomesticato) per tutte le donne che non erano incluse nel gruppo demografico più remunerativo per Hollywood: il pubblico adolescente maschile. Oggi non è più di un santuario di nicchia; è il mezzo avvincente per gli adulti di entrambi (o tutti) i sessi e il gold standard per ruoli femminili coraggiosi e stimolanti».

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