La sera del 19 aprile 1989, Trisha Meili, un’impiegata di banca di 28 anni, esce dal suo lavoro per andare a correre a Central Park. Mentre segue il suo solito percorso di jogging, viene aggredita, violentata e percossa fino allo stremo. Poco dopo, cinque adolescenti afroamericani – Raymond Santana, Kevin Richardson, Antron McCray, Yusef Salaam e Korey Wise – vengono presi in custodia dalla polizia e accusati dello stupro. Il loro arresto segna l’inizio di uno dei casi giudiziari più controversi della città di New York. Le loro confessioni, estorte con la violenza, senza prove né testimonianze coerenti, avviano un percorso legale che sembra destinato dall’inizio a terminare tragicamente con la condanna in via definitiva nel 1990. Eppure per i Central Park Five, come vengono chiamati dalla stampa, il calvario continua per un’altra decade, fino al 2002, quando lo stupratore seriale Matias Reyes confessa lo stupro di Trisha Meili e i cinque, ormai adulti, vengono finalmente dichiarati innocenti.
Se questa è la “storia vera” di un caso giudiziario che ha occupato il dibattito pubblico americano per oltre vent’anni – una storia che ha portato, nel 2012, all’uscita di un documentario con interviste e testimonianze intitolato
The Central Park Five –, la miniserie in quattro episodi
When They See Us, diretta dalla regista Ava DuVernay, cerca, fin dal titolo, di dare un volto e una presenza reale a cinque vittime del sistema giudiziario e mediatico americano che per oltre vent’anni sono state conosciute solo come “i cinque di Central Park”. Più che raccontarne la vicenda penale, la serie si propone di restituire umanità e nome, sensibilità e volto, a chi ne è stato privato per tanto tempo.
Spesso relegata nella nicchia del cinema politico, Ava DuVernay, che ha indagato il sistema giudiziario statunitense in quasi tutti i suoi progetti, rappresenta nel panorama americano di oggi una delle voci più critiche rispetto alla questione etnica negli Stati Uniti e nell’industria cinematografica. La sua tesi, espressa in maniera evidente e diretta nel documentario del 2016 nominato all’Oscar 13 (disponibile su Netflix), è che esista una continuità tra le leggi schiaviste del diciannovesimo secolo e l’incarcerazione di massa della comunità afroamericana degli ultimi duecento anni. A questa tesi, sicuramente fondamentale anche per leggere con completezza When They See Us, si affianca uno sguardo finemente melodrammatico che cerca di restituire complessità e profondità emotiva ai propri personaggi. Come in Selma (2014), forse il suo lavoro più famoso, dove proprio la prigionia di Martin Luther King offre l’occasione per raccontare i dubbi e i sentimenti del grande leader afroamericano, o in Middle of Nowhere (2012), nel quale una donna si trova a dover venir a patti con l’incarcerazione del marito. Nel cinema della DuVernay, l’esperienza del carcere subito ingiustamente rappresenta l’incarnazione contemporanea della perdita della libertà propria della schiavitù ma è, allo stesso tempo, una sorta di momento identitario per l’intera comunità afroamericana. Vissuta in prima persona o attraverso i propri familiari, l’esperienza della detenzione – che secondo alcune statistiche coinvolge fino a un giovane maschio afroamericano su dieci – testimonia tanto la crudeltà di un sistema oppressore quanto l’appartenenza alla comunità.
Il primo episodio si apre con alcuni frammenti di vita quotidiana: Korey chiacchiera con una ragazza chiamata Lisa e la invita a mangiare qualcosa insieme, Kevin con orgoglio si vanta con la sorella di far parte della banda musicale della scuola. Con delle inquadrature strette dal basso, la macchina da presa entra con delicatezza nelle vite normalissime dei cinque teenager. Nessuno di loro ha un passato criminale né una storia particolarmente dura alle spalle. Tutti sono membri, differenti tra loro, della comunità afroamericana di Harlem. Tra una chiacchierata di baseball con il padre e una rassicurazione alla madre sulla propria condotta, le prime sequenze del pilot sono scandite da momenti semplici, scontati, quasi insignificanti. Eppure quei pochi momenti di quotidianità del 19 aprile 1989 negli episodi successivi saranno per i cinque ragazzi gli appigli a cui attaccarsi per fare memoria della loro vita prima del carcere. Il brutale confronto con la polizia che conclude il primo episodio segna il punto di rottura delle esistenze dei protagonisti e introduce il loro calvario.
Il secondo episodio – raccontato come un avvincente legal thriller – ha al centro la dura battaglia legale volta a dimostrare l’innocenza dei cinque ragazzi e il terzo si incentra sul cammino di recupero di quattro di loro dopo l’esperienza del carcere. L’ultimo, il più interessante a livello stilistico-narrativo, segue principalmente il percorso di Korey Wise, l’unico dei cinque a essere incarcerato in un penitenziario per adulti, un vero e proprio viaggio nel cuore di tenebra del sistema penitenziario americano. Ava DuVernay riesce a dare il proprio peso e valore alla storia di ogni ragazzo: nessuno sparisce, ognuno ha una sua centralità in un storia che, episodio dopo episodio, racconta i quattro mondi dove il razzismo si manifesta più fortemente nella società americana: polizia, sistema giudiziario, carcere e mondo del lavoro. L’esperienza di ognuno dei protagonisti, con tutto il suo carico emotivo, diventa prospettiva per raccontare l’ostilità dell’intero sistema.
Non solo: la regista allarga sempre la sua visione, per considerare come l’incarcerazione di massa influisca non solo su coloro che sono privati della propria libertà ma anche sulle persone che amano. Proprio qui emerge prepotentemente l’impatto di When They See Us. Sfruttando appieno il linguaggio della miniserie, Ava DuVernay svela pazientemente dettagli pieni di umanità della vita dei cinque ragazzi e si concede delle digressioni che seguono il percorso dei loro genitori, familiari e amici, dal momento del primo interrogatorio all’ultima sequenza della riabilitazione. In questo senso la regista approfitta dello spazio “espanso” della serie per offrire una visione corale della tragedia che tocca da vicino un bacino di persone molto più amplio dei soli cinque protagonisti.
Ad eccezione del personaggio di Korey Wise, gli altri ragazzi sono tutti interpretati da due attori diversi, uno durante l’adolescenza e uno durante la vita adulta. La decisione di mantenere un solo attore per raccontare Korey Wise – scelta ricaduta su Jahrell Jerome, meglio noto per il suo ruolo di Kevin nel film premio Oscar Moonlight – è deliberata, a sottolineare che Wise, a soli 16 anni, è stato l’unico membro del gruppo processato e condannato come un adulto. Jahrell Jerome offre forse la migliore interpretazione dell’intera serie, incarnando la perdita dell’innocenza di Wise, la violenza subita tanto da parte delle guardie carcerarie quanto dai compagni di detenzione. Le sequenze sugli anni passati in isolamento, con la presenza di ricordi e allucinazioni, arricchiscono ulteriormente la dimensione emotiva della serie, marcando, a volte in maniera eccessivamente melodrammatica, la volontà della regista di suscitare l’empatia dello spettatore.
When They See US rappresenta l’avvento di un nuovo genere, che si potrebbe battezzare “serie politica”, una serialità che utilizza un tempo di fruizione più ampio (da 4 a 6 ore) per raccontare storie con maggior approfondimento e complessità. La prospettiva politica della serie recupera anche il ruolo svolto, in questa vicenda, dall’attuale presidente degli Stati Uniti Donald Trump, che riecheggia sullo sfondo. Uno dei primi passi politici del magnate americano, nel 1989, fu quello di comprare le pagine di alcuni quotidiani americani – tra cui il New York Times – per pubblicare un annuncio dove si invocava la pena di morte per i cinque ragazzi. In una scena, mentre la madre di uno degli imputati entra in tribunale, un giornalista le chiede: «Come si sente all’idea che Donald Trump voglia per suo figlio la pena di morte?». In un altro momento i familiari dei ragazzi guardano Trump mentre rilascia un’intervista televisiva in cui afferma: «Se dovessi iniziare oggi, mi piacerebbe essere un nero istruito». In assonanza con il cinema di Spike Lee – forse vero e proprio riferimento cinematografico della DuVernay – la presenza di Trump nel caso di When They See Us, svolge lo stesso ruolo dei filmati di repertorio in BlacKKKlansman (2018): dire allo spettatore di oggi come il sistema di potere razzista e xenofobo che ha caratterizzato il cuore del racconto non sia un problema del passato bensì continui a essere parte integrante della società americana, investendone tutte le istituzioni, dalla polizia alla prima carica dello Stato.
Il momento forse più toccante, in una serie che usa efficacemente vari strumenti narrativi per commuovere lo spettatore, è al termine dell’ultimo episodio, quando finalmente vengono restituiti, davanti alla macchina da presa, i volti reali dei protagonisti di questa vicenda. In questi cinque ritratti di uomini di quarant’anni dallo sguardo dolente, nelle loro storie attuali riportate in didascalia, è presente il cuore della serie. Antron McCray, Yusef Salaam, Raymond Santana, Korey Wise e Kevin Richardson smettono di essere un caso di cronaca, per diventare uomini in carne e ossa, persone vere con un volto e una storia.