Che oggi ci sia bisogno di autorità sembra una convinzione piuttosto diffusa: basta una rapida indagine sui motori di ricerca per rendersene conto. Tuttavia, i motivi per cui si ritiene che occorra un’autorità paiono piuttosto variegati, dipendendo anche dagli ambiti a cui ci si riferisce: una garanzia del privato coniugata all’efficienza del pubblico, una miglior efficacia nel mondo del lavoro, una salvaguardia della cultura e del libero pensiero. Tra gli altri, c’è un motivo che forse non appare nei primi risultati delle ricerche, ma che merita attenzione: la relazione con l’alterità. Un recente saggio su questo tema ha evidenziato che l’autorità, declinata in modo generativo, offre quel riferimento di cui abbiamo bisogno per aprirci all’altro, singolo o gruppo che sia, per non restare incompleti (cfr Magatti e Martinelli 2021). Si tratta di una comprensione dell’autorità che la smarca dalla dimensione dell’esercizio di un potere, concentrato nelle mani di un singolo o di un piccolo gruppo, per riconnetterla alla radice etimologica che evoca l’idea del far crescere, di “autorizzare” gli altri ad agire.
Questa convinzione trova delle felici (e forti!) risonanze in molte pagine dei vangeli. Un esempio interessante, e forse anche poco considerato, è il cosiddetto discorso escatologico nel vangelo secondo Matteo (capitoli 24-25). Alle porte di Gerusalemme, ormai a ridosso della Passione, Gesù insegna ai suoi come interpretare la storia umana. I discepoli si accontenterebbero di sapere quando finiranno il tempio e il mondo e di conoscerne i segnali premonitori. Il Maestro, invece, invita a concentrare lo sguardo su altro: Guardate di non allarmarvi, perché deve avvenire, ma non è ancora la fine. […] Ma tutto questo è solo l’inizio dei dolori (Matteo 24,6.8). Gesù disinnesca il rischio di buttarsi in una rassicurante caccia al controllo dell’incerto: che cos’altro potrebbe essere, infatti, la preoccupazione di sapere quando sarà la fine? Piuttosto, invita a guardare come un iniziotutto ciò che si vive, persino le cose più dolorose, così da abitare la storia fino alla sua massima dilatazione possibile, ossia fino alla vita eterna descritta alla fine di Matteo 25. Non è questa una modalità generativa di far vivere la storia umana?
Tra le righe di questo discorso apocalittico, ossia rivelativo, se si prende alla lettera l’etimologia di apokalypsis (rivelazione), spicca l’immagine del trono su cui siede il Figlio dell’uomo. Una simile raffigurazione non rimanda a una semplice collocazione spaziale, a un luogo fisico, ma è il modo di descrivere Dio stesso che i lettori e le lettrici hanno già incontrato in Matteo 23,22: Chi giura per il cielo, giura per il trono di Dio e per Colui che vi è assiso. La figura del trono in cielo racconta qualcosa di Dio e del suo modo di agire, al pari di quella dello sgabello sulla terra (cfr anche Salmo 11,4 e Isaia 66,1): Dio è all’opera in tutta la creazione (in cielo e in terra, appunto), con autorità (il trono) e vicinanza (lo sgabello).
Da questo trono, il Figlio dell’uomo osserva e giudica. La descrizione potrebbe evocare l’immagine di un rendiconto inesorabile, dove l’esercizio dell’autorità si fonde con l’applicazione di un potere assoluto e dispotico. Ma si può anche guardare diversamente: prima ancora che essere la proiezione futura di un bilancio irreversibile, l’immagine del giudicare dal trono narra che cosa fa Dio per agire con autorità nella storia umana. Se accettiamo questa postura, cambia il senso della domanda rivolta dai discepoli a Gesù: non più «quando l’autorità decreterà la fine?», ma «che tipo di autorità può farci vivere la storia?».
Limitando la risposta al nostro tema, ci viene narrata un’autorità che dischiude in prima battuta due aperture verso l’alterità: verso l’universalità e verso il prossimo. Inoltre, l’immagine del trono ci aiuta a cogliere anche una terza apertura presente in Matteo 19,28, quando Gesù dice ai suoi che siederanno su dodici troni a giudicare le dodici tribù d’Israele: questa potrebbe essere l’apertura verso la comunità.
Le nazioni, ossia l’apertura all’universalità
Raccontando il segno del Figlio dell’uomo, Gesù descrive anzitutto un’azione di raduno: Egli manderà i suoi angeli, con una grande tromba, ed essi raduneranno i suoi eletti dai quattro venti, da un estremo all’altro dei cieli (Matteo 24,31). La medesima descrizione si ritrova alla fine del discorso: Davanti a lui verranno radunati tutti i popoli (Matteo 25,32). Se l’unica finalità del racconto fosse avvisare che, prima o poi, l’autorità di Dio renderà a ciascuno secondo le sue azioni (Matteo 16,27), non servirebbe dilungarsi nella descrizione di un grande raduno. In questo racconto, c’è un dettaglio che non deve sfuggire: se mancasse l’azione del radunare, il giudizio finale rischierebbe una deriva individualista («me la vedo tra me e Dio») oppure massificante («i buoni di qui, i cattivi di là»).
Invece, è prioritario che tutti siano raccolti insieme: prima di separare, l’autorità del Figlio dell’uomo favorisce l’avvicinamento tra tutti, attivando una dinamica di universalità. Come avviene per il gregge (Matteo 25,32), anche in questo caso il raduno non è un mescolamento omologante, in cui l’uno vale l’altro. Giocando con le parole, potremmo dire che nel racconto evangelico l’universalità dischiusa dall’autorità promuove il passaggio da diverso a differente: infatti, da un punto di vista etimologico è “diverso” colui che si allontana e quindi si muove in una direzione opposta (di-vergere), mentre è “differente” colui che emerge nella sua particolarità (dif-ferre), quando è avvicinato all’altro. Così l’autorità apre all’universalità: tutti raccoglie, perché tutti possano accorgersi della particolarità anche del più distante, che allora non è più diverso, ma solo differente.
Il gregge, ossia l’apertura al prossimo
In questa prospettiva, acquista tutt’altro colore anche il gesto della separazione (Matteo 25,31-32). Ne è conferma l’immagine del pastore, che a fine giornata separa il gregge assegnando a ciascuno il posto che gli è proprio. Lo fa in modo avveduto, cosicché ogni capo sia oggetto di attenzione secondo ciò che lo distingue (ossia ciò che determina la sua specificità, come suggerisce l’etimologia di dis-tinguere): le pecore con le pecore e le capre con le capre. Questo non ha immediatamente a che fare con un premio o una punizione, ma ci parla della cura. La prosecuzione del racconto evidenzia il criterio di questa separazione, mediante una ripetizione: Lo avete fatto a me, oppure Non l’avete fatto a me (Matteo 25,40.45).
Matteo 25,31-46
31«Quando il Figlio dell’uomo verrà nella sua gloria, e tutti gli angeli con lui, siederà sul trono della sua gloria. 32Davanti a lui verranno radunati tutti i popoli. Egli separerà gli uni dagli altri, come il pastore separa le pecore dalle capre, 33e porrà le pecore alla sua destra e le capre alla sinistra. 34Allora il re dirà a quelli che saranno alla sua destra: “Venite, benedetti del Padre mio, ricevete in eredità il regno preparato per voi fin dalla creazione del mondo, 35perché ho avuto fame e mi avete dato da mangiare, ho avuto sete e mi avete dato da bere, ero straniero e mi avete accolto, 36nudo e mi avete vestito, malato e mi avete visitato, ero in carcere e siete venuti a trovarmi”. 37Allora i giusti gli risponderanno: “Signore, quando ti abbiamo visto affamato e ti abbiamo dato da mangiare, o assetato e ti abbiamo dato da bere? 38Quando mai ti abbiamo visto straniero e ti abbiamo accolto, o nudo e ti abbiamo vestito? 39Quando mai ti abbiamo visto malato o in carcere e siamo venuti a visitarti?”. 40E il re risponderà loro: “In verità io vi dico: tutto quello che avete fatto a uno solo di questi miei fratelli più piccoli, l’avete fatto a me”. 41Poi dirà anche a quelli che saranno alla sinistra: “Via, lontano da me, maledetti, nel fuoco eterno, preparato per il diavolo e per i suoi angeli, 42perché ho avuto fame e non mi avete dato da mangiare, ho avuto sete e non mi avete dato da bere, 43ero straniero e non mi avete accolto, nudo e non mi avete vestito, malato e in carcere e non mi avete visitato”. 44Anch’essi allora risponderanno: “Signore, quando ti abbiamo visto affamato o assetato o straniero o nudo o malato o in carcere, e non ti abbiamo servito?”. 45Allora egli risponderà loro: “In verità io vi dico: tutto quello che non avete fatto a uno solo di questi più piccoli, non l’avete fatto a me”. 46E se ne andranno: questi al supplizio eterno, i giusti invece alla vita eterna”».
Anche in letteratura ci sono fiabe in cui una figura di autorità (un re, un principe o Dio stesso) si camuffa da povero per mettere alla prova i personaggi, rendendo poi a ciascuno secondo le sue azioni. Il racconto di Gesù, però, è diverso: chi è seduto sul trono non si nasconde dietro mentite spoglie, ma si identifica giuridicamente con alcune categorie di persone che si trovano in situazioni di bisogno (cfr Dupont 1986, 97). Se nelle fiabe chi bussa alla porta non è veramente ciò che appare e il suo è un bisogno finto, nel vangelo non è così: l’affamato ha veramente fame, l’assetato ha davvero sete, lo straniero è estraniato, l’ignudo è scoperto, l’ammalato è invalido e il carcerato è isolato. Insomma, l’altro è autentico per come si presenta. Diversamente dalle fiabe, dunque, questa identificazione giuridica dà pieno valore a ciò che ciascuno è e vive, ossia all’altro in quanto altro. E questo, nel vangelo secondo Matteo, ha un nome ben preciso: il tuo prossimo (Matteo 5,43; 19,19; 22,39).
Il criterio della separazione si basa pertanto sul discernere quando c’è stato interessamento per l’altro e quando invece è mancato. E lo fa, da un lato, promuovendo e valorizzando ogni realizzazione di questa cura per l’altro (Venite, benedetti del Padre mio…, Matteo 25,34) e, dall’altro lato, smascherando e opponendosi all’idea che «l’Io sia un mondo autonomo […] autoreferenziale, chiuso in sé, un “uno” tra molti “uno”» (Martinelli 2015, 124). Le situazioni concrete di bisogno richiamate nel racconto sono più di un generico appello filantropico: con il criterio del «l’avete fatto a me», l’autorità del Figlio dell’uomo dà all’alterità (ossia l’altro in quanto altro, il tuo prossimo) un valore e una dignità uguali a quelli dell’individualità (l’io in quanto io). Diversamente, «se l’individualità e l’alterità non sono considerate come co-originarie, allora la verità dell’Io non sta nella relazione ma nell’autorealizzazione […]. E l’alterità del polo opposto viene rivestita di negatività e, di conseguenza, annullata o ignorata, assorbita, oscurata» (ivi).
In questa prospettiva, l’immagine del fuoco eterno (Matteo 25,41) potrebbe risultare molto più reale di uno spauracchio minaccioso: nell’annullamento dell’alterità, rischia di dissolversi anche l’individualità, risucchiata da un bruciante inseguimento di rassicurazioni o fusioni con chi o ciò che è ritenuto “uguale a me”. Di conseguenza, l’apertura al tuo prossimo secondo il criterio del lo avete fatto a me è ben più di uno stimolo motivazionale a fare qualcosa di bene, poiché costituisce un autentico principio di realtà: non è reale ciò che si autorealizza, ma ciò che si realizza all’interno e mediante l’interazione continua con l’alterità (ivi, 125-127). Così, l’autorità apre al prossimo, ossia a quell’irriducibile altro che interagisce con l’Io di ogni individuo, consentendogli di crescere e di dilatare la vita (eterna, appunto), senza perdersi nelle piccolezze dell’autoreferenzialità.
I dodici troni, ossia l’apertura alla comunità
L’immagine dei dodici troni consente di cogliere un’ulteriore apertura dell’autorità verso l’alterità. Poco prima di farne menzione, il Maestro ha parlato del cammello che passa per la cruna dell’ago, in seguito all’incontro con un ricco (Matteo 19,16-22). L’argomento di fondo è che l’ingresso nel regno di Dio avviene per scelta e non è scontato. Tuttavia, obiettano i discepoli, la decisione personale non basta: l’offerta è esigente, chi ce la può fare? Gesù non nega che sia impegnativo da un punto di vista umano; però, non è lo stesso dal punto di vista divino. Così passa dalla cruna al trono: Quando il Figlio dell’uomo sarà seduto sul trono della sua gloria, alla rigenerazione del mondo, siederete anche voi su dodici troni a giudicare le dodici tribù d’Israele (Matteo 19,28). Con queste parole, il Figlio dell’uomo seduto sul trono autorizza i discepoli a sedere a loro volta su dei troni, rendendoli partecipi della sua stessa azione nella storia, descritta con il verbo giudicare.
Come sempre, i dettagli sono preziosi per interpretare il racconto. Innanzi tutto, la promessa non consiste in una specie di ingresso premio in un posto bello: piuttosto, la comunità dei discepoli viene autorizzata a partecipare all’azione del Figlio dell’uomo, che opera nella storia umana. Questo implica assumersi la propria responsabilità e spendersi nella realtà dove si è presenti. Inoltre, questa autorizzazione valorizza l’interazione con gli altri: infatti, a ciascuno è dato il proprio trono, ma l’azione del giudicare è compiuta da tutti e dodici insieme, congiuntamente con il Figlio dell’uomo. Nessuno agisce per conto proprio e l’azione di giudizio è effetto della cooperazione di tutti (azzardando, si potrebbe pensare che questo sia l’opposto della competizione). Risulta pertanto che il Figlio dell’uomo attiva per i discepoli un’apertura che non è circoscritta alla loro piccola comitiva; anzi, egli li fa interagire in modo che siano strutturalmente protesi al di fuori del loro gruppo. Siamo persino oltre la logica che oggi si ritrova nei processi di team building: non interagiamo prima tra di noi, al fine di agire poi per gli altri; ma mentre interagiamo tra noi, agiamo già per gli altri. L’apertura verso la comunità che viene promossa, dunque, da questa comprensione dell’autorità sospinge per sua natura verso l’altro che è fuori dal gruppo, sollecitando il coinvolgimento attivo di tutti.
Un’autorità possibile?
Allora, che tipo di autorità può farci vivere la storia? Un’autorità che trova le sue motivazioni nell’apertura verso l’altro. «Dove non ci sono solo io, lì anche io sono più felice»: parafrasando sant’Agostino («Ubi enim non ego, ibi felicius ego», De continentia, XIII,29), potremmo dire che oggi necessitiamo dell’autorità perché abbiamo bisogno dell’alterità. Quel “più” di felicità di cui parla il vescovo di Ippona non va confuso con un semplice appagamento. L’aggettivo “felice” porta in sé un senso di fecondità, di santità e di sapore che è saldo e non fugacemente emotivo: laddove l’individuo riconosce la presenza dell’altro e all’altro si apre, allora si dischiude questa felicità, che il Vangelo chiama vita eterna, vita infinitamente salda.
E l’autorità? L’autorità non può sostituirsi a nessuno: l’apertura verso l’altro non si può appaltare. Eppure l’autorità è strategica, perché può sostenere, valorizzare e sollecitare ciascuno affinché si apra all’altro. Da questa responsabilità, l’autorità non può tirarsi indietro. Non lo fa nemmeno Dio. Qualcuno potrebbe obiettare che non si può parlare dell’autorità degli uomini prendendo a misura l’autorità di Dio. Per certi versi, avrebbe anche ragione. Prendiamo allora sul serio l’autorità di Dio, che è capace di guardare tutto come un inizio, con l’estro tipico di colui che è Creatore e Salvatore, e che ci propone molteplici vie per aprirci all’altro. Però, vale anche la pena di non lasciar cadere la provocazione che Gesù pronuncia poco prima di parlare dei dodici troni (Matteo 19,26): Questo è impossibile agli uomini, ma a Dio tutto è possibile. Non è la rivendicazione di un superpotere, altrimenti il discorso si fermerebbe lì. È, appunto, una provocazione: e se provassimo a guardare le cose dal punto di vista di Dio?
Risorse
Dupont J. (1986), Le tre apocalissi sinottiche, EDB, Bologna.
Magatti M. – Martinelli M. (2021), La porta dell’autorità, Vita e Pensiero, Milano.
Martinelli M. (2015), «Lo straniero siamo noi: identità in relazione», in Vita e pensiero, 2, 122-128.