Dall’inizio della pandemia il ritmo delle nostre giornate, della successione di impegni e incontri, di attività e tempo libero, si è modificato in modo profondo. Spesso le parole “tempo sospeso” sono usate per parlare del presente, evocando l’immagine di una vita posta tra parentesi. Che cosa significa tutto questo? C’è un modo ispirato dalla sapienza biblica di vivere questo tempo?
«Un tempo sospeso». Quante volte abbiamo letto, ascoltato o pronunciato queste parole in riferimento all’ultimo anno? Quante volte abbiamo fatto ricorso a questa immagine per descrivere una vita messa in stand by, a livello personale e collettivo, da quando sono stati scoperti i primi casi di COVID-19 in Italia? In questi lunghi mesi sono entrate a far parte del nostro vocabolario quotidiano le parole legate alla pandemia e alle precauzioni necessarie per difenderci. Siamo giocoforza divenuti familiari con la “nuova normalità” in cui siamo stati catapultati, senza preavviso né preparazione, e il modo in cui viviamo le nostre relazioni, il lavoro, il tempo libero è profondamente cambiato. Costretti a restare a casa quanto più possibile, abbiamo dato fondo alle nostre risorse come singoli e società per non lasciarci abbattere, per coltivare la speranza, per individuare strategie che ci permettessero di continuare a restare in contatto, per condividere in modo nuovo gli spazi pubblici e privati.
Tanto è stato fatto, ma in fondo sentiamo che si è trattato di reazioni di difesa e soluzioni transitorie, restando “in attesa”: in attesa che la tempesta passi e si possa riprendere a vivere come prima o – come tanti si augurano – in un modo diverso, più consapevole, più sostenibile. Ecco perché è quasi spontaneo parlare di tempo sospeso: ci troviamo in bilico tra un passato noto e per molti rassicurante, che ci sembra irrimediabilmente lontano, e un futuro dalle tinte incerte, difficile da immaginare. Quello che resta è allora il presente, carico di preoccupazioni e dubbi.
In questo frangente, si corre il rischio che la sospensione di questo periodo si tramuti in un tempo più subito passivamente che vissuto pazientemente, un tempo smarrito, perché si sono persi i riferimenti consolidati e non se ne sono trovati di nuovi, un tempo vuoto di progettualità e pieno di riempitivi di corto respiro, ripiegato su di sé, cieco e sordo di fronte a quanto accade per paura, egoismo, fragilità. Con questo rischio dobbiamo fare i conti tutti, non solo a livello personale, ma anche sociale.
Uno sguardo diverso
Un modo diverso di comprendere queste circostanze è stato indicato da papa Francesco nella preghiera del 27 marzo 2020, in una piazza San Pietro deserta, quando invitava a «cogliere questo tempo di prova come un tempo di scelta. […] Il tempo di scegliere che cosa conta e che cosa passa, di separare ciò che è necessario da ciò che non lo è». L’ atto impegnativo e responsabile di scegliere richiede di scrollarci di dosso il senso di confusione, per riappropriarci di questo tempo che chiamiamo sospeso. In questo compito, ci può venire in soccorso una preghiera pronunciata dal salmista secoli fa: Insegnaci a contare i nostri giorni e acquisteremo un cuore saggio (Salmo 90,12; qui sotto il testo integrale del salmo).
Salmo 90,1-12
1 Preghiera. Di Mosè, uomo di Dio.
Signore, tu sei stato per noi un rifugio di generazione in generazione.
2 Prima che nascessero i monti e la terra e il mondo fossero generati,
da sempre e per sempre tu sei, o Dio.
3 Tu fai ritornare l’uomo in polvere, quando dici: “Ritornate, figli dell’uomo”.
4 Mille anni, ai tuoi occhi, sono come il giorno di ieri che è passato, come un turno di veglia nella notte.
5 Tu li sommergi: sono come un sogno al mattino, come l’erba che germoglia;
6 al mattino fiorisce e germoglia, alla sera è falciata e secca.
7 Sì, siamo distrutti dalla tua ira, atterriti dal tuo furore!
8 Davanti a te poni le nostre colpe, i nostri segreti alla luce del tuo volto.
9 Tutti i nostri giorni svaniscono per la tua collera, consumiamo i nostri anni come un soffio.
10 Gli anni della nostra vita sono settanta, ottanta per i più robusti, e il loro agitarsi è fatica e delusione; passano presto e noi voliamo via.
11 Chi conosce l’impeto della tua irae, nel timore di te, la tua collera?
12 Insegnaci a contare i nostri giorni e acquisteremo un cuore saggio.
Il testo di questo salmo è una sintesi profonda e poetica tra una supplica accorata e una riflessione sapienziale sulla fragilità della vita umana. È una questione che non cessa di interrogarci, poiché non possiamo fare nulla per sottrarci alla morte: Gli anni della nostra vita sono settanta, ottanta per i più robusti e il loro agitarsi è fatica e delusione; passano presto e noi voliamo via (v. 10). Durante questa breve vita nulla ci può proteggere dall’infelicità e dalle sofferenze o mettere al riparo dai drammi collettivi causati da eventi che ci sorpassano, come la pandemia. Nella sua lucida riflessione, il salmo – l’unico attribuito a Mosè, uomo di Dio, per sottolinearne l’importanza – non si limita a prendere atto della caducità della vita, ma riconosce anche che la nostra esistenza è segnata dalla fragilità della coscienza, che desidera il bene ma che può anche scegliere di compiere il male, di ferire, tradire, disprezzare chi ci è vicino o chi non conosciamo (cfr v. 8). La nostra vita è un soffio, ma «è abbastanza lunga per farne o un mezzo di benedizione per gli altri, o al contrario un motivo di sventura».
Di fronte a questo sguardo sulla vita, che potrebbe indurre al pessimismo o al fatalismo, il salmista non si chiude in se stesso, non rifiuta questa vita breve e carica di ombre. Risponde anzi in modo sorprendente con l’invocazione rivolta al Signore: Insegnaci a contare i nostri giorni e acquisteremo un cuore saggio. Questa vita merita di essere vissuta e può trovare nel Signore quel rifugio di generazione in generazione (v. 1), che nessuna realtà umana può assicurare. Ma che passi dobbiamo seguire perché il nostro tempo abbia un senso anche nelle situazioni più difficili e probanti? Una risposta possiamo cercarla nei vari significati del verbo contare usato dal salmista, che ci aiutano a considerare l’esistenza in una prospettiva diversa.
Ancorati alla realtà
In prima battuta, la richiesta di apprendere a contare i nostri giorni contiene un’implicita ammissione: prendere atto che i nostri giorni non sono infiniti. Se li possiamo enumerare è proprio perché sono destinati a terminare. Riconoscere e accettare questo aspetto così fondamentale della nostra esistenza significa essere consapevoli del limite che ci definisce, rendendoci creature e non divinità.
Di fronte a questa condizione di esseri mortali possono emergere le reazioni più disparate. In quest’epoca, in cui la morte è stata bandita dal discorso pubblico, alcuni si affannano a riempire il tempo di impegni e distrazioni per non pensare al suo scorrere, altri si rifugiano nella ricerca di un’artificiosa giovinezza, da prolungare quanto più possibile e con tutti i mezzi a disposizione. Anche in questo aspetto la pandemia ha cambiato in profondità il nostro orizzonte: le notizie di questi mesi hanno riportato al centro dell’attenzione generale «nostra sorella morte corporale», come la chiamava san Francesco d’Assisi. Inoltre, le misure imposte per circoscrivere la diffusione del contagio, impedendoci di salutare le persone care defunte, ci hanno fatto comprendere quanto siano importanti le parole, i gesti, i riti legati al passaggio dalla vita alla morte. In un modo duro, e che avremmo preferito evitare per il dolore sofferto da tante famiglie, abbiamo ripreso contatto con la nostra vulnerabilità. Questo provoca smarrimento, ma se ci pensiamo bene, ciò che ci fa sentire disorientati è la scelta di rimuovere dall’orizzonte un aspetto così essenziale della nostra esistenza.
La richiesta di imparare a contare i nostri giorni contiene allora una domanda ben più radicale: restare ancorati alla realtà che siamo e nella quale viviamo, nella sua concretezza, alle volte nella sua durezza. Proprio questa richiesta riveste un senso profondo e illuminante in questo momento: se guardiamo al presente “sospeso” come un incidente, che prima o poi passerà, lo priviamo di consistenza, lo svuotiamo del suo senso, della sua forza, perché è in questo oggi che viviamo, pensiamo, agiamo, sogniamo.
Allora saper contare i giorni non è solo un invito a prendere consapevolezza della finitezza della nostra vita, ma è anche un antidoto al rischio di fuggire dal presente. Così facendo possiamo resistere alle sirene dell’idealismo disincarnato («come dovrebbe essere») o del ripiegamento intimistico («come vorrei/vorremmo che fosse»), per conservare il contatto con un presente, che può piacerci o deluderci, ma che resta in ogni caso l’ambito in cui si giocano le nostre traiettorie di vita come singoli e come società.
Il valore dei singoli giorni e della loro successione
Un altro senso del contare i nostri giorni ci illumina sul tempo che viviamo: si tratta di riconoscere che non sono tra loro uguali, che ogni giorno ha una sua particolarità e unicità. Per questo vanno contati, potremmo quasi dire misurati e pesati, affinché possano essere apprezzati e vissuti fino in fondo, evitando che si confondano tra loro, andando persi nell’oblio della memoria e quindi davvero sprecati. In tanti abbiamo corso questo rischio, soprattutto nel lockdown della primavera del 2020, quando la percezione dello scorrere del tempo ha rischiato di essere minata dalla ripetitività delle giornate, in particolare per chi era solo, conducendoci a una sorta di apatica stanchezza, rassegnati a vivere le giornate come una serie di déjà-vu in cui non vi era spazio per nulla di inatteso, di nuovo, di appassionante.
Per far fronte a questo atteggiamento, il testo del salmo ci provoca a guardare con occhi attenti anche alla successione routinaria di giorni che sembrano fotocopie, per cogliere ciò che a uno sguardo distratto o spento potrebbe sfuggire perché impercettibile, minuscolo come il granello di senape della parabola evangelica, che è il più piccolo di tutti i semi ma, una volta cresciuto, è più grande delle altre piante dell’orto e diventa un albero (Matteo 13,32). Come i semi posti nel terreno, ogni giorno custodisce potenzialità insospettate, promesse di vita che necessitano di fiducia e creatività, di tenacia, tenerezza e pazienza per divenire realtà. Non è tanto una questione di “fare” (moltiplicare le attività, le videochiamate, gli hobby), quanto di “essere”: essere presenti pienamente, negli incontri con le persone e nei vari compiti svolti lungo il corso della giornata.
Ma perché i giorni non si confondano tra loro è anche importante divenire maestri nell’arte di “cucire”, di saperli collegare e riordinare. In questo modo saremo in grado di cogliere quella trama che li unisce e ne fa la storia della vita di una persona, di una comunità, di un popolo. Si potrà così superare la frammentazione apparente che percepiamo, consapevoli che «contare vuol dire cogliere il senso specifico di una quantità, la sua intrinseca destinazione. Vuol dire organizzare degli insiemi omogenei, gli uni accanto agli altri». Alle volte, è arduo saper cogliere il valore dei giorni, presi nella loro singolarità e come insieme, quando il presente incombe, quando si fanno i conti con situazioni in cui è difficile trovare una via di uscita.
«“Contare i giorni” è l’arte della ripresa. Chi non ha conosciuto il tempo dell’intiepidimento e dell’apatia, il tempo della crisi? “Contare i giorni” significa continuare a camminare ricordando, interpretando i giorni con il loro carico prezioso di desideri e affetti, di responsabilità e fatiche».
Mario Delpini
(Infonda Dio sapienza nel cuore, 49)
In questo caso, un aiuto potente può venire dalla parola, dal dare nome a quanto si vive, anche quando ci sono aspetti che sfuggono, che inquietano.
Raccontare – ancora una sfumatura di contare – ci fa uscire dalla solitudine, rompe la sospensione del tempo in cui ci ritroviamo, per metterci in contatto con altri, disponibili ad accogliere quanto condividiamo. Poco conta che essi vivano la stessa esperienza: quando la forza del racconto sincero e profondo si dispiega appieno, si realizza una comunione che travalica le differenze e le singolarità, senza ignorarle o annullarle. Si crea una storia condivisa, fatta di riferimenti comuni e di episodi singolari, la cui originalità consiste nell’essere in grado di dare un senso al tempo, di mostrare un orizzonte altrimenti nascosto.
Non da soli
Contare, come lo intende il salmista, non significa snocciolare cifre, ma richiede la sapienza di non fermarsi in superficie, per scendere in profondità. Questo processo non può essere puramente individuale. Non è un caso che il salmista dica insegnaci, al plurale, riconoscendo che di fronte ad alcuni eventi – la morte nel testo del Salmo 90 o la pandemia nella nostra quotidianità – siamo «sulla stessa barca», come ricordava papa Francesco.
Non è solo un dato da registrare, ma un’indicazione preziosa. Da un lato, ci dice che non siamo soli, sollevandoci da questa paura. Basta ricordare le storie di solidarietà, di generosità, di altruismo di questi mesi, ad esempio tra vicini di casa o nelle corsie degli ospedali, riconosciute anche dal presidente Mattarella con il conferimento della più alta onorificenza nazionale a uomini e donne che si sono distinti nel servizio alla comunità.
Dall’altro, ci chiama a responsabilità, perché le risposte a grandi interrogativi possono essere trovate solo coniugando gli sforzi e tenendo conto di tutti. In questo senso, la vicenda dei vaccini è paradigmatica delle contraddizioni che viviamo: l’impegno profuso da migliaia di ricercatori ha portato a risultati impressionanti in tempi brevi, ma non tutti potranno beneficiarne allo stesso modo e negli stessi tempi. Siamo così ricondotti alla questione delle scelte sollevata dal Papa e dei criteri che ci guidano. Non a caso il salmista chiede di acquistare un cuore saggio. Serve a poco essere divenuti maestri nel contare i nostri giorni se questo poi non si traduce nella capacità di viverli in pienezza e in comunione con gli altri.
Una speranza concreta
Abbiamo assaporato le tante suggestioni che il versetto insegnaci a contare i nostri giorni e acquisteremo un cuore saggio custodisce. Abbiamo visto che ci apre un cantiere promettente e impegnativo per sottrarci alla claustrofobica idea di essere da soli in un tempo sospeso. Il rinvio alla realtà del tempo che viviamo, al valore dei singoli giorni e al loro senso può aiutare a scrollarci di dosso l’impressione di vivere tra parantesi, sospesi tra un prima ormai smarrito e un dopo ancora sconosciuto.
Rinnovare lo sguardo su questo tempo non è solo un modo per riconciliarci con un presente faticoso e riannodare i fili con il nostro passato, è soprattutto il dischiudersi di un dono per il futuro. Entrare in questa prospettiva ci apre a una speranza costruttiva, ben diversa dall’irenico pensiero che tutto si risolverà, che tutto andrà bene. Questa speranza si radica in una consapevolezza profonda, nel sentire e sapere che i progetti in cui siamo impegnati, le attività quotidiane e le relazioni, hanno un valore e un senso, al di là dell’esito finale, quando investiamo in essi in modo sincero e autentico le nostre vite, quando è la sapienza del cuore a guidare le nostre scelte. Una convinzione che vale pure in questo periodo di quarantene e lockdown, di limitazioni di vario genere e di una quotidianità trasformata. Anche adesso il presente si offre nella sua concretezza, mostrandoci che la sospensione del tempo non è un dato ineluttabile e sollecitando un cambio consapevole e responsabile del nostro atteggiamento di fondo, perché la risposta è dentro di noi, non solo come singoli, ma come collettività.
Note