L’industria petrolifera si confronta oggi con l’obiettivo della transizione energetica. La prospettiva di abbandonare i combustibili fossili si scontra con reti d’interesse che si fondano su dinamiche interne alle imprese, in particolare i sistemi retributivi. Quale ruolo può essere svolto dall’etica del lavoro in questo scenario? Quale margine di decisione etica hanno i dipendenti della compagnia petrolifera Total? L'articolo di Pierre-Louis Choquet, ricercatore francese, affronta queste domande a partire da una descrizione delle caratteristiche del colosso con sede a Parigi. Di seguito la parte introduttiva, nel numero di novembre di Aggiornamenti Sociali l'articolo completo.
Il problema della responsabilità delle multinazionali del petrolio e del gas nell’aggravarsi del cambiamento climatico è particolarmente sconcertante. Al centro dell’attenzione durante la COP 21, le grandi imprese del settore si erano mostrate consapevoli del problema, dichiarando (non senza ostentazione) il proprio sostegno al carbon pricing e l’ambizione di favorire una transizione rapida al gas, due condizioni ritenute a loro giudizio sufficienti per non superare la soglia dei 2 °C di riscaldamento. Solo due anni dopo, Patrick Pouyanné, dirigente della Total, dichiarava che la sua impresa era pronta «a rilanciare quest’anno grandi progetti per preparare il futuro», un riferimento implicito all’allora previsto avvio di progetti di estrazione in Iran, Uganda e Brasile. Sebbene ostenti velleità di innovazione, la compagnia francese continua a investire sui combustibili fossili, cosa largamente incompatibile con il cambio di rotta richiesto dall’obiettivo di non superare la soglia dei 2 °C.
Ma questa prospettiva è davvero allettante? Molti soggetti della società civile ne dubitano. A essere messa in discussione è la stessa legittimità del lavoro dei dipendenti della Total: questi ultimi hanno margini di manovra per contribuire alla trasformazione della loro impresa in tempi tanto stretti? In altri termini: possiamo ancora ritenere che l’etica individuale sia di qualche aiuto per riorientare i potenti vincoli strutturali a cui risponde l’industria petrolifera? Per rispondere a questa spinosa domanda, è necessario prima di tutto comprendere il quadro entro il quale avvengono le scelte etiche delle persone interessate da questa situazione, soprattutto per quanto riguarda il sistema remunerativo.
Total: un vero e proprio agente geologico?
Per la Total, le attività estrattive coinvolgono flussi di materiali tali che potremmo, quasi senza esitazione, attribuire alla compagnia petrolifera lo status di agente geologico a pieno titolo: uno studio recente ha stimato che il gruppo ha contribuito allo 0,8% delle emissioni globali totali di CO2 dall’inizio dell’era industriale (Heede 2014). Combinando una miriade di operazioni (campagne sismiche, perforazione di pozzi) in una catena di produzione integrata, l’impresa trasferisce notevoli quantità di carbonio dalla litosfera all’atmosfera, attraverso la fornitura di combustibili fossili a consumatori quasi obbligati.
Ma cosa intendiamo, esattamente, per “la compagnia Total”? La si può considerare costituita, da un lato, da una forza lavoro collettiva: i dipendenti del gruppo (96.019 nel 2015) e quelli di aziende subappaltatrici che, presenti nelle fasi della filiera produttiva in tutto il mondo, sono spesso essenziali; dall’altro, da un capitale, raccolto in gran parte da investitori istituzionali attraverso i mercati finanziari. Dal 2010 sono stati investiti ogni anno più di 20 miliardi di euro per consentire lo svolgimento delle operazioni e lo sviluppo di nuove infrastrutture petrolifere e del gas: sono necessari ogni volta impianti di proporzioni titaniche per le trivellazioni a 2mila metri sotto il livello del mare al largo della costa nigeriana, per costruire un impianto sopraelevato di liquefazione del gas sul permafrost siberiano o setacciare milioni di metri cubi di sabbia bituminosa in Alberta (Canada)… impianti che cambiano irrimediabilmente i paesaggi.
Pur essendo dispersi in vari luoghi e incapaci di farsi un’immagine chiara, attraverso la divisione del lavoro, delle molteplici ramificazioni di ciò a cui partecipano, i dipendenti della Total svolgono attività che, combinate tra loro, costituiscono un vero e proprio “lavoro sociale”, nel senso inteso da Durkheim. Il loro lavoro collettivo contribuisce tanto alla riproduzione materiale della società industriale, attraverso la produzione quotidiana di 2,34 milioni di barili equivalenti di petrolio, quanto all’indebolimento degli ecosistemi che la ospitano: questi stessi barili rappresentano un potenziale di emissione di 1,12 milioni di TEQ CO2 (quasi l’equivalente delle emissioni giornaliere francesi).
La compagnia petrolifera si definisce così, in primo luogo, attraverso una capacità colossale di proiezione materiale, che essa realizza mobilitando la forza lavoro. Ma non possiamo comprendere questo dispiegamento delle attività della Total se non cogliamo di sfuggita il “negativo” (nel senso fotografico del termine) che la accompagna: quello di un continuo e incontrollato rimodellamento dei contorni del nostro fragile ecosistema globale. Da questo punto di vista, la compagnia appare un agente geologico a pieno titolo, letteralmente capace di muovere il cielo e la terra.