L'eco mediatica e le polemiche suscitate da ricorrenti casi di cronaca e l'animato dibattito attorno all'iter della legge su consenso informato e disposizioni anticipate di trattamento evidenziano la complessità e la delicatezza di una materia che interseca diverse dimensioni: da quella medico-scientifica a quella normativa, per arrivare a quella etica.
Riteniamo utile fare anzitutto chiarezza sulla terminologia utilizzata in questo ambito e sulla diversità di situazioni a volte impropriamente accomunate. Per questo pubblichiamo un commento di don Maurizio Chiodi - professore di Teologia morale nella Facoltà teologica dell’Italia settentrionale, membro del Gruppo di studio sulla bioetica di Aggiornamenti Sociali - che alla fine del suo intervento offre anche alcuni criteri per un orientamento etico.
Prosegue l’iter della proposta di legge
«Norme in materia di consenso informato e di disposizioni anticipate di trattamento», che, dopo la conclusione dei lavori della Commissione Affari Sociali, è all’esame dell’aula della Camera. Il percorso legislativo sarà ancora lungo e continuerà a sollevare interrogativi etici, sui quali è difficile rintracciare un dibattito serio. A questo scopo, è indispensabile distinguere tra sedazione profonda, accanimento terapeutico, eutanasia e suicidio assistito.
La sedazione profonda o palliativa, regolata in Italia da una legge del 2010, riguarda i pazienti per cui non è più possibile alcun tipo di terapia (proporzionata): constatata l’irreversibilità del processo del morire, essa consiste nella somministrazione di analgesici che addormentano il paziente, sospendendo ogni altra “terapia”. La morte sopravviene non per una dose letale di analgesici, ma, in genere, per insufficienza respiratoria. Questa pratica è altra cosa dal suicidio assistito e dall’eutanasia, e si riconduce al rifiuto dell’accanimento terapeutico.
Quest’ultimo si fonda su un giudizio di proporzionalità delle “terapie” mediche. Ci sono casi infatti in cui certe cure, tecnicamente possibili, non sono più da considerare una forma della cura, che è il senso della medicina. Non tutto ciò che è tecnicamente possibile è eticamente buono. Esiste un limite anche agli interventi terapeutici. Non ammetterlo significa cadere nella pretesa di rimandare senza fine la morte, senza riconoscerla come momento costitutivo della vita. Il giudizio di proporzionalità comporta una valutazione dei danni e dei benefici che ogni cura arreca. È parere comune che questo giudizio spetti in ultima analisi al paziente, anche attraverso le Dichiarazioni anticipate di trattamento, qualora non sia più cosciente. Egli però non può decidere da solo, perché non esiste da solo. La sua autonomia non è assoluta, ma si iscrive sempre in un contesto di relazioni: con i familiari, il medico e l’équipe curante, gli amici, i volontari.
Il rifiuto dell’accanimento va distinto dall’eutanasia, la cui forma più nota è quella volontaria: per porre fine alle proprie sofferenze, il paziente chiede al medico di causargli la morte. Altra cosa ancora è il suicidio assistito: il medico non pratica l’eutanasia, ma pone il paziente in condizione di terminare la propria vita.
La difficoltà maggiore, in tali distinzioni, è di riferire le differenze alle situazioni concrete. Spesso infatti non si tratta di scegliere tra bianco e nero, ma tra sfumature di grigio. La complessità delle situazioni ci fa intuire quanto scrivere una legge che possa essere non solo condivisa, ma anche interpretata in modo univoco, sia un vero impegno di civiltà.
La questione di fondo è il rischio di dimenticare l’esperienza della morte, con l’enigma che la contraddistingue: essa è un evento non in nostro potere, che ci sollecita a una decisione nella quale ne va del senso intero e definitivo della vita. Perciò il problema non è “se” morire, ma “come” morire e “come” accompagnare l’altro alla morte, sostenendo lui e i suoi familiari in questo momento difficile. Il punto, per credenti e non credenti, è come decidiamo di noi stessi, dinanzi a ciò che può apparire un destino tragico o una soglia oltre la quale continuare a sperare. Per il credente, la morte non perde il carattere angoscioso, ma diventa l’occasione di affidarsi a quel Dio che, nella Pasqua di Gesù, gli ha aperto una speranza eterna, «speranza contro ogni speranza» (Rom 4,18), perché egli non ne è l’origine.
Maurizio Chiodi