Quale futuro ha, oggi, la fede cristiana? La risposta che diamo a questa domanda non può che basarsi su un esercizio di ascolto del presente, che ne restituisca tutta la complessità. Siamo oggi di fronte alla scena di un tempo incerto, nel quale molti nostri strumenti di comprensione del fenomeno religioso si rivelano inadeguati. Assistiamo alla diffusione di una religiosità ambivalente, la quale propone, in contemporanea, fondamentalismi violenti e forme disincarnate di spiritualità, spesso ridotta alla misura dei bisogni individuali. Il libro di Salvarani è un tentativo di dare una lettura teologica di questo tempo paradossale, diviso fra la precarietà esistenziale e la ricerca di soluzioni “forti”, identitarie e carismatiche. Una crisi che, nelle parole dell’A., risiede nel «timore di coniugare identità e fragilità» (p. 168). Il rapporto fra queste due categorie rappresenta una chiave di lettura del libro: da un lato, l’identità come riferimento a una tradizione di fede, che attribuisce un senso e un orizzonte all’esistenza; dall’altro, l’incertezza proveniente dal fatto che lo sguardo credente sulla vita è oggi provocato da cambiamenti radicali nella comprensione del mondo e dell’umano.
Salvarani compie questa analisi del nostro momento, alla luce della fede; lo fa, interrogando la Scrittura ebraica e cristiana, non per cercarvi un rimedio all’incertezza del presente, ma proprio per interrogarla attraverso la coscienza della fragilità, assunta in modo maturo come condizione della libertà umana. Si instaura, in tal modo, una sorta di circolarità: si cerca luce sull’attuale condizione di fragilità della fede, proprio indagando, all’interno del testo sacro, come questa situazione è già stata vissuta e capita dagli autori biblici.
Tre opzioni guidano questa lettura della Bibbia.
La prima consiste nel valorizzare la Scrittura come testo culturale, capace di parlare al di là delle frontiere religiose. Se un classico della letteratura è un’opera in grado di comunicare a distanza dal proprio contesto d’origine – è per questo che leggiamo ancora Omero e Shakespeare – la Bibbia si conferma, a una lettura non pregiudiziale, un deposito straordinario di esperienza umana, carico degli interrogativi di senso che da sempre impegnano l’essere umano. Salvarani si volge alle riletture letterarie dei personaggi e degli episodi biblici svolte da autori come Fëdor Dostoevskij, Herman Melville, Ernest Hemingway, Isaac B. Singer, ma anche da musicisti come Leonard Cohen e Vinicio Capossela. Va sottolineato che questa lettura culturale della Bibbia è esattamente il contrario della separazione fra cultura e fede, che è la chiave di volta e il comune denominatore dei vari neotradizionalismi, cristiani, islamici, o altro. Sono in gioco, infatti, opzioni teologiche affatto diverse. La religione intesa come contro-cultura, incompatibile con la contemporaneità, presuppone che la rivelazione dia forma “dall’alto” alla vita del credente, secondo modalità e contenuti che resterebbero, altrimenti, del tutto inaccessibili. Al contrario, il dialogo fra fede e cultura si basa sul presupposto di una continuità fra l’esperienza umana, con il suo deposito di saggezza “laica”, e l’illuminazione della fede. Il secondo approccio, assai più del primo, è radicato nella tradizione teologica cattolica.
La seconda opzione è il recupero del carattere originariamente interculturale e interreligioso della Scrittura, tramite il confronto con le sue fonti non ebraiche. La Bibbia si rivela così come testo dialogico nel suo stesso sorgere, frutto di una dialettica continua fra la fede nel Dio d’Israele e la sapienza dei pagani.
La terza è la valorizzazione, da un punto di vista cristiano, delle interpretazioni rabbiniche del testo sacro. Salvarani segue una linea tracciata da autori come Paolo De Benedetti e Sergio Quinzio, i quali dalla riflessione ebraica hanno appreso un modo di leggere la Bibbia che non è esegesi in senso tecnico, volta a stabilirne il senso univoco, ma interrogazione appassionata, dialogo anche drammatico e conflittuale con il Dio che ci parla.
Percorrendo la Bibbia, Salvarani fa una scelta tematica: sei personaggi – Giona, Noè, Giacobbe, Giobbe, Qohelet, Gesù – colti e descritti nella loro fragilità umana, fatta di resistenze, ribellioni, fallimenti. Questa dimensione di precarietà, lungi dall’essere una macchia che contamina la purezza del messaggio biblico, ne rappresenta, al contrario, la profonda incarnazione nel tessuto, anche tragico, della storia. Apprendiamo così che, dal punto di vista biblico, la fragilità «non solo fa integralmente parte della nostra vita, ma ne rappresenta, almeno potenzialmente, lo spazio del riscatto, forse l’occasione per fornire di senso l’esistenza» (p. XXIII).
Scopriamo allora che il “tempo incerto” non è solo il nostro, ma è anche quello dell’uomo biblico. Centrale, a questo riguardo, è la riflessione di Salvarani sul libro di Qohelet: un «testo di crisi» (p. 103) e di radicale contestazione dei parametri religiosi del passato. Testimone del venire meno delle certezze della fede d’Israele, basate sull’alleanza e sulla presenza di Dio garantita dal Tempio, Qohelet non arriva a proporre una sintesi teologica nuova. Non lo fa, perché, se «c’è un tempo per ogni cosa» (Qohelet 3,1), il suo non è il tempo per affermare verità rassicuranti. Al contrario, è il tempo nel quale la fede deve metabolizzare la propria incapacità di pronunciare la parola ultima su ogni realtà. Per questo è un libro che possiamo sentire vicino a noi. Qohelet comprende che la fede deve essere formulata in modo diverso da quello della tradizione e apre la strada di una possibile «teologia dal basso» (p. 99), che si mette in ricerca del sacro, a partire dalla valorizzazione delle esperienze del quotidiano: «mangia il tuo pane con gioia, e bevi il tuo vino con cuore allegro... godi la vita con la donna che ami» (Qohelet 9,7-9). Su queste basi – ed è un aspetto che l’A. avrebbe potuto sviluppare maggiormente – possiamo individuare un primo punto di partenza per ripensare oggi la fede: interrogare il desiderio di vita e di felicità che abita ogni persona, coglierne gli accenti, scrutarne le prospettive.
Queste riflessioni si innestano su un tema teologico fondamentale, che è la rivelazione, cioè il modo nel quale Dio si fa conoscere. Il volto di Dio che emerge dalle narrazioni dell’Antico Testamento è quello di un creatore che si rende vulnerabile, consegnandosi all’imprevedibile divenire della relazione con l’umanità e, in particolare, dell’alleanza più volte tradita e puntualmente rinnovata con il popolo d’Israele. Il volto di Dio si scopre infine, definitivamente, nel volto umano di Cristo ed è credibile proprio in virtù – qui sta il paradosso cristiano – della sua fragilità di creatura terrena. La vulnerabilità del corpo di Cristo è la cifra del consegnarsi di Dio alla storia, senza garanzie di successo. Anche la teologia dell’incarnazione è una teologia “dal basso”, un ripensamento del divino a partire dalla condizione umana. C’è un’implicazione di fondo fra teologia e antropologia religiosa: l’esperienza della fede biblica assume il carattere incompleto della nostra comprensione del mondo, che mai si risolve in un discorso teologico esaustivo. Tuttavia, in Gesù troviamo anche «tutto ciò che [...] si costituisce come ragione d’essere della stessa umanità: aspirazione alla giustizia e lotta per la totale liberazione dalle proprie schiavitù, ricerca della bellezza, testimonianza alla verità che può rendere liberi» (p. 130). Si può cogliere qui un secondo, possibile punto di partenza – si tratta di un’altra occasione lasciata un po’ cadere dall’A. – per dire oggi la fede cristiana: esplicitare, nel messaggio biblico, il progetto di umanizzazione dell’essere umano e del mondo. La vita di Cristo, infatti, apre a una prospettiva del tutto nuova per comprendere la fragilità umana: quando essa è consapevolmente accettata, può essere trasformata in libertà compiuta, in capacità di incontro e di dono.
Come risponderà la Chiesa a questi tempi? Forse mai, come ora, essa ci è apparsa in tutta la sua precarietà e fragilità, anche scandalosa. L’ultimo capitolo del libro cerca una risposta a questa domanda. E la proposta è chiara: la Chiesa deve imparare ad abitare la precarietà. La propria, in primo luogo, accettando che è finito il tempo nel quale essa guidava la società con mano ferma e rinunciando alle tentazioni, sempre ricorrenti, di un’improbabile religione civile. Ma si tratta di accogliere e amare anche la precarietà del mondo attuale, cogliendone le fatiche, le aspirazioni, le possibilità: «raccogliere la sfida insita in questa fase di permanente transizione eletta a orizzonte vitale; capire e amare questa condizione» (p. 169). Fragilità equivale a umanità e i “tempi incerti” che viviamo altro non sono che il tempo dell’umanità. La “teologia dei tempi incerti” ci invita, in ultima analisi, a un amore incondizionato per gli uomini e le donne concreti del nostro tempo, così come sono.
In conclusione, il libro di Salvarani ha almeno due meriti. Il primo è l’adozione di un modo di leggere la Bibbia, che rivela e mette in gioco tutte le potenzialità della Scrittura come libro di vita, capace di aiutarci, ancora oggi, a interpretare la nostra esperienza. Il secondo è che ci aiuta ad assumere la fragilità come elemento positivo della condizione cristiana. Il fatto di non disporre di una parola ultima su ogni realtà non deve apparire come un difetto del cristianesimo di oggi: si tratta, al contrario, di un dato permanente, che è necessario valorizzare come presupposto di un esercizio maturo della libertà.