Non ha mancato di suscitare polemiche la notizia che a breve anche la liturgia adotterà una nuova traduzione del Padre nostro. A Messa diremo quindi «Non abbandonarci alla tentazione, ma liberaci dal male» (Matteo 6,13), al posto del tradizionale «Non ci indurre in tentazione, ma liberaci dal male» che abbiamo imparato fin da piccoli. Il cambiamento avverrà per fasi: molte diocesi hanno deciso di adottare la nuova versione del messale in lingua italiana, che contiene diversi cambiamenti, tra cui quelli al testo del Padre nostro, a cominciare dall’inizio del nuovo anno liturgico (29 novembre, prima domenica di Avvento). La “novità” diventerà obbligatoria a partire dalla Pasqua 2021 (4 aprile).
Se i critici presentano questa decisione come un abbandono della tradizione, una più attenta riflessione ci fa invece scoprire che la nuova versione rende meglio il senso dell’originale greco, mentre quella vecchia rischia di essere fuorviante: potrebbe portare a pensare che Dio si compiaccia di spingere al male. Ma che cosa realmente significa l’ultima richiesta della preghiera insegnata da Gesù? In che cosa consiste la tentazione di cui parla?
Il termine greco tradotto con tentazione (peirasmos) – unitamente al verbo tentare (peirazein), che ha la stessa radice – presenta una particolare ricchezza semantica: può indicare la prova, la tentazione propriamente detta, la trappola, l’allettamento al male (cfr Lamarche P., Évangile de Marc, Gabalda, Paris 1996, 336). Si tratta di significati con sfumature diverse, strettamente connessi tra loro. I passi del Nuovo Testamento in cui ricorre riprendono una tematica già presente nel Primo Testamento, da cui è quindi necessario partire.
Dalla prova alla tentazione
Prendiamo come testo di riferimento Deuteronomio 8,1-5, che descrive i tratti essenziali della prova vissuta da Israele dopo l’uscita dall’Egitto.
Deuteronomio 8,1-5
1Abbiate cura di mettere in pratica tutti i comandi che oggi vi do, perché viviate, diveniate numerosi ed entriate in possesso del paese che il Signore ha giurato di dare ai vostri padri. 2Ricordati di tutto il cammino che il Signore, tuo Dio, ti ha fatto percorrere in questi quarant’anni nel deserto, per umiliarti e metterti alla prova, per sapere quello che avevi nel cuore, se tu avresti osservato o no i suoi comandi. 3Egli dunque ti ha umiliato, ti ha fatto provare la fame, poi ti ha nutrito di manna, che tu non conoscevi e che i tuoi padri non avevano mai conosciuto, per farti capire che l’uomo non vive soltanto di pane, ma che l’uomo vive di quanto esce dalla bocca del Signore. 4Il tuo mantello non ti si è logorato addosso e il tuo piede non si è gonfiato durante questi quarant’anni. 5Riconosci dunque in cuor tuo che, come un uomo corregge il figlio, così il Signore tuo Dio corregge te.
Liberati dalla mano oppressiva del Faraone, gli israeliti devono avventurarsi in un luogo in cui la vita è continuamente minacciata, in cui si fa esperienza della propria fragilità e si avverte il pericolo incombente della morte. In quanto tale, il deserto costituisce una
prova decisiva, dal momento che «tocca il concetto stesso del vivere, riguarda il senso della vita umana» (Bovati P.,
Il libro del Deuteronomio 1-11, Città Nuova, Roma 1994, 116). Che senso ha uscire dalla schiavitù per entrare in una terra arida, abitata da serpenti velenosi e da scorpioni e infestata da bande di predoni? Tradotto in termini esistenziali: che senso ha venire al mondo per ritrovarsi in un ambiente ostile, esposti alla malattia e alla morte? (cfr Teani M.,
«Entrare, Uscire», in
Aggiornamenti Sociali, 4 [2012] 340-344). È un interrogativo che, prima o poi, attraversa ogni coscienza.
È qui che la prova si trasforma in tentazione vera e propria, nella misura in cui spinge a perdere la fiducia nell’Origine della vita e a diffidare di tutto e di tutti. Il rischio è di finire per cedere a una visione angusta dell’esistenza, giungendo a «identificare la propria sopravvivenza biologica con il mistero della vita» (Bovati P., «Significare la vita. Riflessioni sul capitolo primo della Genesi», in Jori A. et al., La responsabilità ecologica, Studium, Roma 1990, 114). La tentazione, in tal modo, si rivela una trappola dentro cui si cade (cfr l’espressione entrare in tentazione di Marco 14,38), una sorta di laccio che cattura (cfr 1Timoteo 6,9: quelli invece che vogliono arricchirsi, cadono nella tentazione, nell’inganno). Il ripiegamento su di sé, infatti, rende asfittici, impedisce di vivere davvero, prigionieri come si è della preoccupazione per il proprio futuro (cfr Matteo 6,25-34; Ebrei 2,14-18, commentato più sotto). La conseguenza è che resta soffocata la fede come atto di fiducia elementare nella bontà della vita, una fede che nella Scrittura si configura come fiducia in una Presenza affidabile che accompagna e sostiene ciascuno nel proprio cammino (cfr Theobald Ch., Transmettre un Évangile de liberté, Bayard, Paris 2007, 21-38).
Il senso della prova-tentazione
Secondo Deuteronomio 8,2 è Dio stesso che, durante i quarant’anni di cammino nel deserto, ha messo alla prova Israele. Come interpretare tale affermazione? Certamente non nel senso che Dio operi per far cadere i suoi fedeli. Il libro del Siracide, dopo avere ricordato in 2,1 che chi decide di mettersi al servizio del Signore incontrerà la prova-tentazione (preferiamo mantenere i due termini per evidenziare le sfumature di significato di peirasmos), mette in guardia dal pensare che sia Dio a tentare al male (cfr 15,11-12). La Lettera di Giacomo non lascia adito a dubbi: Dio non tenta nessuno (1,13). Anzi! Come assicura Paolo, nel tempo della prova-tentazione Dio darà il modo di uscirne per poterla sostenere (1Corinzi 10,13). Tentatore per eccellenza è invece il diavolo (cfr Matteo 4,3; Luca 22,31).
Qual è, allora, l’intento che Dio persegue, sottoponendo Israele alla prova del deserto? È un intento prettamente pedagogico, come si evince da Deuteronomio 8,5: Riconosci in cuor tuo che, come un uomo corregge il figlio, così il Signore tuo Dio corregge te. Il verbo ebraico tradotto con correggere appartiene alla terminologia sapienziale e può essere reso con ammaestrare, dare una lezione; infatti la versione greca lo rende con il verbo paideuein (educare, ammaestrare). L’insegnamento che Dio vuole impartire ha un solo scopo: condurre Israele a riconoscere che l’unico bene, indispensabile per vivere, è quanto esce dalla bocca del Signore (Deuteronomio 8,3). La manna, con cui Dio ha nutrito il popolo nel deserto, «è solo un segno di ciò che fa vivere l’uomo veramente. Mosè dice a Israele: comprende il significato della manna colui che riconosce che l’uomo vive non di pane (ciò che esce dalla terra e entra nella bocca dell’uomo), ma piuttosto della parola del Signore, di ciò “che esce dalla bocca di Dio” (che viene dal cielo) per entrare là dove l’uomo può accoglierlo, nell’orecchio e nel cuore» (Bovati P., Il libro del Deuteronomio, cit., 115).
La prova ha un intento benefico. Non è una operazione di controllo, architettata dal Signore, né è qualcosa che si sovrappone all’esistenza dal di fuori, ma ne fa parte. È attraverso la vita reale che Dio educa gli esseri umani. È la vita stessa, con le sue oscurità e tribolazioni – di cui il deserto è figura emblematica – a mettere alla prova, facendo emergere l’alternativa con cui ognuno si deve misurare: la fiducia di fondo che, nonostante tutto, la vita ha un senso o la diffidenza radicale nei confronti della realtà.
Gesù, provato in tutto come noi
I vangeli sono concordi nel sottolineare come la prova-tentazione abbia accompagnato tutta la vita di Gesù e abbia raggiunto il culmine al tempo stabilito della passione (cfr Luca 4,2.13; 22,3.40). Su questo punto cruciale si sofferma anche la Lettera agli Ebrei. Interessato a presentare Gesù come l’unico mediatore capace di riannodare la relazione tra Dio e l’umanità, il brano di Ebrei 2,14-18 (vedi il riquadro qui sotto) mostra come egli sia in grado di operare tale mediazione in quanto, da una parte, gode della totale fiducia di Dio e, dall’altra, è pienamente solidale con la condizione propria dell’umanità, segnata dalla debolezza e dalla fragilità e, in definitiva, esposta alla morte. Gesù si è fatto veramente uno di noi, senza privilegi e salvacondotti.
Ebrei, 2,14-18
14 Poiché dunque i figli hanno in comune il sangue e la carne, anche Cristo allo stesso modo ne è divenuto partecipe, per ridurre all’impotenza mediante la morte colui che della morte ha il potere, cioè il diavolo, 15e liberare così quelli che per timore della morte erano soggetti a schiavitù per tutta la vita. 16Egli infatti non si prende cura degli angeli, ma della stirpe di Abramo si prende cura. 17Perciò doveva rendersi in tutto simile ai fratelli, per diventare un sommo sacerdote misericordioso e degno di fede nelle cose che riguardano Dio, allo scopo di espiare i peccati del popolo. 18Infatti, proprio per essere stato messo alla prova e avere sofferto personalmente, egli è in grado di venire in aiuto a quelli che subiscono la prova.
Ma c’è di più. Oltre che caratterizzata dal limite creaturale, la condizione umana risulta inquinata dal peccato, è una condizione di schiavitù. Nel momento in cui viene al mondo, ogni essere umano si trova inserito in una trama di relazioni distorte, a partire da quella con Dio. Avendo perso il riferimento all’Origine della vita, non riuscendo più a riconoscere l’iniziativa di Amore che precede e accompagna la vicenda di tutti e di ciascuno, diventa preda dell’angoscia. La realtà gli appare minacciosa e passa il proprio tempo cercando di difendersi. Proprio su questa condizione fa leva l’azione del diavolo, che così tiene le persone schiave per tutta la vita (v. 15), prigioniere della loro paura di perdersi. Resosi solidale con la nostra storia, Gesù ha sperimentato in prima persona le fatiche e le angosce che accompagnano la vicenda di ogni essere umano. Egli stesso è stato messo alla prova in ogni cosa come noi, escluso il peccato (Ebrei 4,15). Non gli è stata risparmiata nessuna delle tribolazioni dell’esistenza. Ma non ha peccato! Non ha ceduto alla tentazione di ripiegarsi, sfiduciato, a difesa del proprio angusto spazio vitale. Invece, cosciente dell’affidabilità di Dio e del suo progetto sulla storia, ha dato la sua vita per amore. Avendo attraversato vittoriosamente la prova-tentazione, è in grado di venire in aiuto di chiunque si trovi ad affrontare gli stessi insidiosi passaggi (cfr 2,18).
L’invocazione nella prova-tentazione
Voi siete quelli che avete perseverato con me nelle mie prove (Luca 22,28). Queste parole di Gesù, pronunciate nell’imminenza del suo arresto, indicano che il cammino dei discepoli passa inevitabilmente attraverso le prove che egli per primo ha affrontato. Come è possibile non essere sopraffatti in tali cruciali frangenti? Gesù ammonisce che è necessario vegliare e pregare senza stancarsi (cfr Matteo 26,41; Luca 22,40). Non stupisce che, insegnando il Padre nostro ai suoi discepoli, abbia posto a conclusione della preghiera la richiesta di aiuto per superare la prova-tentazione.
Il verbo greco utilizzato da Matteo (eis-pherein), reso nella versione latina della Volgata con il verbo inducere, da cui la traduzione italiana non ci indurre, significa letteralmente “portare dentro”. È possibile interpretare in senso permissivo la forma in cui il verbo ricorre (cfr Zerwick M., Analysis philologica Novi Testamenti graeci, PIB, Roma 1966, 14) e tradurre: non lasciare che entriamo nella tentazione. Detto in altre parole: non permettere che, nel momento della prova, cadiamo preda della tentazione (di perdere la fede). Secondo gli esegeti, questa interpretazione risulta coerente anche con la possibile ricostruzione della frase in aramaico, la lingua parlata da Gesù (cfr Manzi F., «“Nessuno dica: sono tentato da Dio”. La progressiva rivelazione biblica sull’origine demoniaca della prova/tentazione», in La Scuola Cattolica, 1 [2011] 30-31). Già sant’Ambrogio traduceva: «non permettere che cadiamo nella tentazione», come ricorda il cardinal Martini (Il Padre Nostro. Non sprecate parole, San Paolo, Cinisello B. [MI] 2016, 120).
È ormai chiaro: nel Padre nostro non si prega Dio perché ci sia evitata la prova-tentazione. Si chiede di non essere sopraffatti una volta che si sarà presentata. La consapevolezza della nostra fragilità ci conduce a chiedere al Signore che ci custodisca, quando saremo tentati di perdere la fede. Gesù, con la vita prima che con le parole, ci ha insegnato che nelle fatiche e nelle oscurità di ogni giorno è possibile aprirsi con fiducia a un Dio vicino e affidabile. Tale apertura muta lo sguardo sulla realtà, aiuta a cogliere i segni, sovente appena percettibili, della presenza del Signore nella trama quotidiana degli eventi. «Segni della creazione, segni delle piccole cose in cui Dio si manifesta come creatore provvidente, segni dati al credente per camminare nella povertà, nella privazione, nella fatica quotidiana. Accogliere questi segni è già superare la prova» (Bovati P., Deuteronomio 1-11, cit., 117).
Le tentazioni dei popoli
Il cambiamento di parole che si pronunciano frequentemente, talvolta magari in modo automatico o per abitudine diventa l’occasione di interrogarsi sul loro significato, che altrimenti si rischia di dare per scontato. Ma la novità è opportuna soprattutto perché ci obbliga a mettere meglio a fuoco il vero significato biblico di termini come prova e tentazione, scoprendo magari che ne avevamo una idea non pienamente corretta, da cui derivava una immagine distorta di Dio. Ben venga un piccolo cambiamento lessicale che ci aiuta a fare chiarezza.
In questa esplorazione del significato di prova e tentazione nella Bibbia, abbiamo scoperto anche qualcos’altro che smentisce l’idea comune di tentazione. Come abbiamo visto, nel brano dell’Esodo a essere tentato non è un singolo, ma un popolo intero. Anche i popoli, le comunità e le collettività sono esposti a prove, e possono smarrire il senso del vivere insieme, e la fiducia che esiste un bene comune la cui promozione consentirà a tutti condizioni migliori di vita. Se cedono a questa tentazione, le società perdono coesione, si frantumano sotto la spinta degli interessi particolari e a farne le spese sono i più poveri e vulnerabili, che si trovano emarginati ed esclusi anziché inclusi.
Le tentazioni dei popoli sono la base delle chiusure, dell’innalzamento di muri e barriere, delle ostilità che generano tensioni e conflitti, che conducano a destinare risorse agli armamenti anziché allo sviluppo umano. In fondo, possiamo pensare alla recentissima enciclica Fratelli tutti come a una meditazione di papa Francesco proprio sulle tentazioni dei popoli e delle società. Così, quando il cambiamento del testo del Padre nostro ci costringerà a fermarci, potremo riflettere anche sulle tentazioni a cui siamo esposti come popolo, e soprattutto chiedere aiuto e ispirazione per superarle senza cedervi. Il bene comune di noi tutti e la vita di tante persone ne trarranno vantaggio.