«Suo marito partì con lei». Il lungo esodo dalla terra del patriarcato

Fascicolo: aprile 2024

Come afferma la tradizione ebraica nel testo del Talmud1, «quando parla agli esseri umani, Dio usa il loro linguaggio»: fa cioè ricorso a una lingua storica, che dice il mondo con le categorie della cultura di un determinato tempo. La tradizione cristiana si esprime secondo un “principio d’incarnazione”: la parola di Dio s’incarna in una particolare cultura, condividendone potenzialità e limiti, ma introducendo allo stesso tempo una differenza. È nella medesima pasta, ma come lievito, o sale.

Tuttavia, quella differenza sembra scomparire di fronte al conformismo prevalente. La giustizia della vita buona, che Dio ha sognato per le sue creature fin dalla fondazione del mondo, pare non trovare più posto nelle vicende umane, dominate dalla mentalità comune e dalla cultura storicamente prevalente. La Scrittura narra di questo scarto tragico tra il sogno divino e i tradimenti umani.

A volte sono dei personaggi minori, che paiono quasi irrilevanti nel racconto biblico, a far emergere nuovamente il sogno di Dio per l’umanità. A questa categoria appartiene Paltièl, che occupa solo due versetti nel terzo capitolo del Secondo libro di Samuele, nemmeno lo spazio di un vero e proprio episodio, quasi una parentesi nel racconto dello scontro fra Davide e Saul. Da questa porta appena socchiusa e subito richiusa, intravvediamo lo spiraglio per una discussione a proposito dell’identità maschile, su cui possiamo riflettere a partire dalla nostra attuale esperienza.

La vicenda di Paltièl: una maschilità altra

Ci troviamo nel contesto della narrazione delle gesta di Davide, in guerra con la casa di Saul: una prova di forza nella quale il futuro re si fa sempre più forte, mentre Saul s’indebolisce. Sul campo si confrontano due capipopolo, che parlano il linguaggio tutto maschile della forza, attorno a cui si muovono i loro generali. Per un attimo i riflettori sono puntati su Abner, capo dell’esercito di Saul che, in seguito a un’accusa rivoltagli da uno dei figli del re, decide di passare alle schiere nemiche. Davide lo accoglie tra i suoi, ma a una condizione: Ridammi mia moglie Mical, che feci mia sposa al prezzo di cento prepuzi di Filistei (2Samuele 3,14). Mical, la figlia minore di Saul, amava Davide. All’inizio il padre pensava di sfruttare questo amore per rafforzare il proprio potere. Poi, però, acuendosi lo scontro, la toglie a Davide e la fa sposare al nostro Paltièl, che in questa sua prima comparsa viene chiamato Paltì (1Samuele 25,44), senza nemmeno quel riferimento a Dio (il suffisso -el che conclude il suo nome scritto per esteso). Nella società patriarcale di Davide e Saul, le donne sono merce di scambio: anche se appartengono alla famiglia reale, la loro sorte non sfugge al criterio del vantaggio per l’uomo che ha il potere.

2Samuele 3,14-16

14Davide spedì messaggeri a Is-Baal, figlio di Saul, dicendogli: «Ridammi mia moglie Mical, che feci mia sposa al prezzo di cento prepuzi di Filistei». 15Is-Baal mandò a toglierla a suo marito, Paltièl, figlio di Lais. 16Suo marito partì con lei, camminando e piangendo dietro di lei fino a Bacurìm. Poi Abner gli disse: «Torna indietro!». E quegli tornò.

In questo scenario, Paltièl appare solo come un dettaglio, del tutto irrilevante ai fini dello sviluppo della trama. È come una stella cadente, la cui luce può essere colta solo da chi osserva con estrema attenzione il cielo. Tale luce, sia pure solo per un attimo, ci viene consegnata nella scena del suo distacco forzato da Mical. Ecco le parole del narratore: Suo marito partì con lei, camminando e piangendo dietro di lei fino a Bacurìm (2Samuele 3,16a). Parole che scivolano via, senza che alcun commento le raccolga. Del resto, quale giudizio avrebbero potuto formulare gli altri personaggi presenti sulla scena? Che avrebbero potuto dire, se non che questo Paltièl è quanto meno strano, perché non si comporta da uomo? Si è mai visto un uomo così legato a una donna? Si è mai sentito dire di un uomo che si mette a piangere? Un “vero” uomo, come il guerriero Abner, non può che trattarlo da donnicciola, ordinandogli di tornare a casa, entro quelle mura domestiche dove possono abitare i sentimenti delle donne. «Torna indietro!». E quegli tornò (2Samuele 3,16b).

Ciò che la vicenda di Paltièl porta alla luce è la possibilità di pensare in altro modo l’identità maschile: una questione che sentiamo necessaria in tempi di identità smarrite e di reazioni scomposte. I femminicidi che vengono perpetrati da uomini incapaci di fare i conti con la libertà femminile sono la tragica spia di un problema che investe la comprensione della propria identità, la trama delle relazioni, il modo di stare al mondo. Mentre le donne si sono poste il problema della loro identità di genere, dando vita a gruppi di autocoscienza in cui ci si possa ascoltare e prendere la parola, partendo da sé, dal proprio vissuto e dalla consapevolezza maturata, gli uomini faticano anche solo a pensare un simile processo, dando per scontato che il loro modo di essere sia l’unico possibile, quasi un dato di natura, senza il minimo sospetto che possa essere espressione di una costruzione culturale, di quella che in termini tecnici viene chiamata cultura patriarcale. Qualcuno, tuttavia, prova a mettere in discussione questa cultura millenaria e a ripensare la propria soggettività maschile. Come fa Paltièl con il suo modo di agire.

Da una relazione alla pari alla prevaricazione

Che l’idea di maschilità tipica della cultura patriarcale non facesse parte del piano originario di Dio lo si può intuire fin dai primi versetti della Scrittura. Come leggiamo nei primi 11 capitoli della Genesi, che costituiscono la grande introduzione a tutta la Bibbia, quel Dio che ha posto un argine al dilagare del caos, separando le tenebre dalla luce e le acque dalla terraferma, si stupisce della sua opera, dandone un giudizio positivo. Questa valutazione diviene il ritornello che scandisce il ritmo della creazione, narrata nella prima pagina delle Scritture: è cosa bella, buona, molto buona. In lingua ebraica, questa benedizione originaria si dice tov. Il suo contrario (in ebraico lo tov) appare qualche riga dopo, a proposito dell’uomo (adam, il terrestre, nel testo originale): non è bene che […] sia solo (Genesi 2,18), espressione di un negativo che il Creatore intende, di nuovo, arginare mediante la formazione della donna. Il testo è ad alta densità simbolica e resiste a interpretazioni superficiali. Ci viene detto (Genesi 2,21-22) che Dio, dopo aver fatto calare l’adam in un sonno profondo, ne prende un “lato” (termine normalmente tradotto con “costola”) per dare forma alla donna, pensata come ezer kenegdo, cioè un aiuto che gli stia di fronte, in grado di fronteggiarlo. Letteralmente, un aiuto-contro. Non vi è in questo testo un’idea di complementarità, e ancor meno di subordinazione dell’una all’altro. In principio, l’umanità è plurale, fatta di soggettività maschile e soggettività femminile, l’una di fronte all’altra, chiamate a dar vita all’in-contro, all’“uno” che non sopprime il “due”, a una relazione che non schiaccia la dignità dei soggetti.

Certo, nelle parole maschili che prendono atto della donna, nel canto poetico di Adamo, possiamo scorgere fin da subito l’influenza della cultura patriarcale, che guarda l’altra assimilandola a sé: È osso dalle mie ossa, carne dalla mia carne (Genesi 2,23a). Non solo: Adamo si sente autorizzato a poter definire chi lo fronteggia: La si chiamerà donna perché dall’uomo è stata tolta (Genesi 2,23b). Dietro le parole entusiaste dello stupore, si intravvede già quella prevaricazione maschile che caratterizza la relazione tra i sessi nel regime patriarcale.

Tale racconto, offerto come chiave di lettura con cui guardare gli uomini e le donne protagonisti delle tante vicende che da lì prendono avvio, ci mostra la posta in gioco dell’identità maschile, insieme alla sua deformazione. Quel maschile che era pensato in una relazione alla pari, lo vediamo all’opera come soggetto prevaricatore della donna, in competizione con gli altri uomini. È lui a prendersi tutta la scena pubblica, rinchiudendo la donna nello spazio domestico. Questo è quanto sembra accadere anche nell’episodio in cui appare Paltièl, dove sono all’opera le maschilità di Saul e di Davide, in competizione tra loro, e quella di Abner, che esegue gli ordini senza lasciarsi scalfire dai sentimenti che la sua azione provoca.

In questo contesto di guerrieri spietati, di scaltri uomini politici, Paltièl costituisce l’eccezione. Non sarà lui a mettere in discussione la cultura dominante in cui è immerso: la sua voce non riesce nemmeno a farsi udire. Resta però il gesto di non abbandonare l’amata andandole dietro, insieme a quello di esprimere con il pianto il proprio dolore. Non sono dettagli insignificanti. Anzi, rivelano un altro modo di vivere la maschilità. Nella lingua originale, il primo gesto viene evidenziato con enfasi: Paltièl partì con lei, mettendosi al suo seguito, accompagnando il suo cammino. Nel testo biblico, il verbo “partire”, da Abramo in poi, non indica solo un movimento dei piedi: dice un uscire da sé per inoltrarsi in un nuovo territorio esistenziale. Seguendo Mical, Paltièl non esce solo di casa, ma anche da quel territorio tutto maschile in cui le donne sono pedine nelle mani degli uomini e in cui la connivenza tra uomini su questo punto è data per scontata. Con questo gesto, si ribella a quella logica, e pare operare una rottura con la cultura di tipo patriarcale. Qui vediamo in azione un uomo che non abbandona la propria donna, che ne segue i passi, anche in senso lato, come se proprio dall’amata Paltièl avesse imparato un altro modo di essere uomo.

Uomini che piangono

Insieme al gesto del partire, la scena di Paltièl evidenzia quello del pianto. Nei due libri attribuiti a Samuele il pianto compare a più riprese, perlopiù come espressione di un cordoglio pubblico, ma il pianto di Anna, la donna sterile che diventerà madre di Samuele, e quello di Paltièl sono manifestazioni intime di un sentimento privato che va oltre la ritualità culturale.

In apertura dei libri di Samuele, insieme ad Anna entra in scena il marito Elkanà, altro personaggio minore che emana una luce intensa, capace di illuminare il maschile di nuovo chiarore. Pur pienamente inserito nella cultura patriarcale del tempo – è marito di due donne, Anna e Peninnà – non agisce come gli altri uomini, che avrebbero ripudiato la moglie sterile. Anzi, mostra tutto il suo amore per Anna, le riserva un trattamento speciale e le parla a cuore aperto (1Samuele 1).

Anche le lacrime di Paltièl, che egli non teme di mostrare pubblicamente, dicono l’amore sincero di questo uomo per Mical, non servono a rivendicare un risarcimento per la sposa strappata: questo, al massimo, potrebbe prevedere il copione maschile, non certo l’esternazione di un sentimento affettivo. Con un linguaggio parco e sobrio, ci viene comunicato qualcosa del vissuto di Paltièl, nel momento critico della separazione forzata. Non troviamo un ragionamento sui diritti e i doveri di un uomo, né siamo messi a parte dei suoi pensieri. È il vissuto a parlare. Si tratta di una scelta tipica della narrazione biblica e, in questo caso, persino strategica. Noi uomini sappiamo formulare teorie raffinate e, se ci muoviamo nello spazio ecclesiale, siamo persino in grado di produrre teologie avanguardiste. Ma la questione della maschilità in fondo può essere affrontata solo mettendo a nudo il proprio vissuto, fuoriuscendo dal pensiero astratto, dai giudizi generali e partendo da sé.

L’immagine di Paltièl che cammina al seguito di Mical richiama l’atmosfera del Cantico dei cantici, nel giardino ritrovato in cui coltivare relazioni paritarie, al di fuori della logica del dominio. Questa scena può diventare un simbolo del percorso che gli uomini sono chiamati a compiere, dell’esodo da una casa di schiavitù in cui a subire oppressione sono le donne, mentre gli uomini svolgono il ruolo del faraone. Per ripensare la maschilità è necessaria una fuoriuscita dalla cultura patriarcale, per inoltrarsi verso una nuova terra, al momento solo promessa.

Un esodo necessario

Come per l’esodo d’Israele dall’Egitto, così anche per questo nuovo esodo è necessario un cambio di mentalità, che corrisponde a una nuova nascita. Il poter entrare in una terra in cui scorrano il latte e il miele di una maschilità matura, adulta, rappresenta la conclusione di un cammino che ha alle spalle la lunga gestazione in terra d’Egitto, la rottura delle acque al Mar Rosso e il successivo tempo della formazione nel deserto, che culmina sul Sinai con la consegna delle dieci parole a Mosè da parte di Dio. È lì che avviene la vera liberazione. Come dice la tradizione ebraica, «non bastava che Israele uscisse dall’Egitto; bisognava che l’Egitto uscisse da Israele»2. Bisognava, cioè, liberarsi delle parole del faraone e fare spazio ad altre parole, a un modo alternativo di stare al mondo.

Possiamo liberarci dal modello di maschilità patriarcale solo tramite un paziente lavoro educativo. Lo ha ricordato il padre di Giulia Cecchettin, al funerale della figlia, vittima della violenza del suo fidanzato: «Ci sono tante responsabilità, ma quella educativa ci coinvolge tutti: famiglie, scuola, società civile, mondo dell’informazione… Mi rivolgo per primo agli uomini, perché noi per primi dovremmo dimostrare di essere agenti di cambiamento contro la violenza di genere».

«Parliamo agli altri maschi che conosciamo, sfidando la cultura che tende a minimizzare la violenza da parte di uomini apparentemente normali. Dovremmo essere attivamente coinvolti, sfidando la diffusione di responsabilità, ascoltando le donne, e non girando la testa di fronte ai segnali di violenza anche i più lievi. La nostra azione personale è cruciale per rompere il ciclo e creare una cultura di responsabilità e supporto».

Gino Cecchettin, Discorso al funerale della figlia Giulia

Anche le Chiese sono chiamate a essere un laboratorio di discussione sulla maschilità, favorendo e sostenendo gruppi di uomini disposti a mettersi in gioco: un compito particolarmente urgente nella formazione dei pastori e nei percorsi di catechesi. In questo cammino, Paltièl ci viene consegnato come una parabola, un simbolo che dà a pensare. La luce della sua stella ci indica di camminare in quella direzione, di entrare nella sua casa, di aggiungere la nostra voce alla sua. Nella casa di Paltièl anche noi possiamo cominciare a dire di noi uomini, del nostro vissuto. Sarebbe un enorme passo in avanti per noi, così poco abituati a metterci in gioco, sbilanciati sull’operare, con poca consapevolezza delle costruzioni culturali che ci abitano e che continuiamo a perpetuare.

Non lasciamo solo Paltièl. Diamo credito alla sua testimonianza e iniziamo a dare vita a piccoli gruppi maschili di confronto sul vissuto. Ne va della vita buona sognata da Dio. Ne va della qualità evangelica delle nostre Chiese.

 

Note

1 Talmud Bavli, trattato Yebamot, 74a; Jishmael R., sifre a Numeri 15,31.

2 De Benedetti P., «Perché la Torah fu data nel deserto», in Humanitas, 48 (1993) 355-361.

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