Sulla mancata abrogazione del reato di clandestinità

Maurizio Ambrosini
La vicenda della mancata abrogazione del reato di clandestinità è emblematica del rapporto tra politiche dichiarate, fenomeni sociali che dovrebbero regolare, messaggi rivolti all’opinione pubblica.

Il reato è stato definito da molti autorevoli magistrati inutile e persino controproducente. Canzio (Corte di Cassazione) ha parlato di “uso simbolico del diritto penale”. Si tratta di un reato introdotto dal governo Berlusconi-Maroni nel 2009, che comporta un’ammenda da 5.000 a 10.000 euro, ma che rimane senza effetto perché l’immigrato irregolare non ha in Italia conti correnti o beni registrati che possano consentire la riscossione.

Al contrario, i processi comportano degli oneri per lo Stato perché impegnano risorse scarse come quelle del personale degli uffici giudiziari e perché lo straniero ha diritto alla difesa e quindi al patrocinio a spese dello Stato. Le espulsioni non vengono attuate, se non in pochi casi, non perché le norme non sono sufficientemente severe, ma perché mancano le risorse per attuarle: accordi con i paesi di origine, posti nei centri di identificazione ed espulsione, voli aerei da organizzare, scorte di polizia da destinare ai rimpatri.

Il reato era stato introdotto per dare all’opinione pubblica il messaggio di un governo che usa il pugno duro con gli immigrati irregolari, ed è stato mantenuto “per non dare un messaggio sbagliato all’opinione pubblica” come ha dichiarato il ministro Alfano. Ossia non per ragioni di sostanza, ma per ragioni di immagine e di comunicazione. Si può aggiungere: per non offrire all’opposizione un argomento di facile presa.

La politica dunque rinuncia a regolare i fenomeni sociali secondo giustizia, razionalità, equilibrio tra i diversi interessi: si fa comunicazione. Abdica al compito di governare, dedicandosi a quello di raccogliere consenso.

2 febbraio 2016
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