Social street, quando il “buon vicinato” è possibile

Siamo sempre più interconnessi con il mondo – grazie alle nuove tecnologie, alla Rete e ai social network – ma sempre più a-sociali con i nostri vicini di casa. Siamo globali, ma non siamo più (molto) locali. Come è possibile tornare ad abitare, nel senso pieno del termine, la città, i quartieri, le strade, i condomini? Come sviluppare socialità di prossimità? Come si può abitare vicini e connessi, anche grazie ai social network? L’esperienza delle social street, nata a Bologna nel 2013 e ormai diffusa non solo in tutta Italia ma anche all’estero, dimostra che il “buon vicinato” è ancora una via percorribile per ridare respiro al tessuto sociale. Ne parla Cristina Pasqualini, sociologa dell'Università Cattolica di Milano, nel suo articolo sul numero di gennaio 2019 di Aggiornamenti Sociali. Di seguito alcuni passaggi dell'articolo, scaricabile in pdf a questo link. 



Tra le diverse strategie messe in campo in questi anni per ridare forma e sostanza al vicinato, alcune sono di tipo tradizionale/analogico (il cohousing, la cooperativa di abitanti, il condominio solidale, gli ecovillaggi), altre digitali (le piattaforme e le app di sharing economy su base locale, come vicinimiei.it e nextdoor.it). 

A queste esperienze possiamo affiancare una terza via innovativa, di natura ibrida in quanto coniuga l’analogico e il digitale, che si sta dimostrando efficace e, per certi aspetti, rivoluzionaria. È il fenomeno delle social street, strade anonime che diventano sociali grazie a vicini di casa che decidono di connettersi senza ricorrere a una piattaforma creata ad hoc, ma sfruttando le potenzialità di Facebook. 

Il primo esperimento di social street è nato a Bologna nel settembre 2013, in una piccola strada del centro storico, via Fondazza, grazie a Federico Bastiani che, trasferitosi da poco in città con moglie e figlio piccolo, aveva necessità di risolvere un problema pratico di vita quotidiana: trovare dei compagni di gioco per suo figlio. Il primo passo è stato quello di costituire un gruppo chiuso su Facebook, scendere in strada e promuoverlo con dei volantini, che ne mettessero in chiaro le finalità: conoscersi e aiutarsi tra vicini di casa. In pochi giorni si sono iscritti al gruppo Facebook diversi vicini, che si sono dati appuntamento online, ma anche offline. Questa è la storia della prima social street, che nel tempo è cresciuta, è stata raccontata e ha ispirato tante altre strade sociali in Italia e nel mondo. 

Per monitorare il fenomeno, nel gennaio 2014 viene avviato l’Osservatorio sulle social street presso l’Università Cattolica di Milano, che realizza sistematicamente un lavoro di monitoraggio dei gruppi presenti su Facebook, oltre che di ricerca sui luoghi fisici, entrambi necessari per la natura ibrida del fenomeno. 

A differenza di altre esperienze digitali, le social street si distinguono per alcuni ingredienti assolutamente peculiari. La loro finalità primaria è promuovere la socialità tra i vicini di casa, fare in modo che entrino in contatto, instaurino relazioni personali soddisfacenti, innescando sul territorio un’arte del buon vicinato, così come lo ha inteso anche l’arcivescovo Mario Delpini nel suo discorso alla città di Milano, il 6 dicembre 2017. Gli streeter possono scambiare con i propri vicini informazioni, offrire aiuto e servizi gratuitamente, mettere a disposizione degli altri il proprio tempo, le proprie competenze, sia per finalità ludiche che impegnate. 

L’idea sostenibile, sottesa a questi gruppi, è che non è tanto importante possedere, quanto condividere. Ad esempio, nella social street di San Gottardo Meda Montegani a Milano si sono innescate una serie di pratiche collaborative di buon vicinato: un’auto privata messa a disposizione dei vicini; un altro esempio è la Portineria 14, un bar in cui si possono far recapitare pacchi, lasciare le proprie chiavi di casa, un punto di raccolta di beni di prima necessità che vengono poi destinati a chi ha più bisogno nel quartiere, consegnati personalmente dalle stesse “portinaie”. 

Per chi fa parte di una social street, impegnarsi per un buon vicinato significa aderire a un “patto informale”, che prevede il rispetto di alcune regole fondamentali, che escludono l’utilità economica, l’interesse politico e la comunicazione aggressiva. Non solo: le social street praticano l’inclusione sociale, provando idealmente a coinvolgere tutti. Il vicinato è eterogeneo, composito, differenziato per età, nazionalità, capitale culturale, sociale ed economico. Si può pensare di vivere vicini e connessi se il vicinato presenta una tale complessità? Questa è la vera sfida. Le social street non sono gruppi di interesse in senso stretto; sono un vicinato eterogeneo che condivide la volontà di connettersi e occuparsi collettivamente del bene comune, a partire dal digitale, per poi scendere in strada. Un altro ingrediente che caratterizza le social street è la gratuità. Il dono rafforza le relazioni sociali tra vicini di casa, le rende virtuose. Chi riceve prova un sentimento inusuale e potente nei confronti del donatore e della comunità in generale: la gratitudine. Il ritorno non economico, potremmo dire relazionale, è indubbiamente importante quanto quello economico.

Il vicinato sociale 2.0 non è una associazione né un comitato di quartiere, tuttavia, in alcuni casi l’interlocuzione con gli Enti locali può rivelarsi utile o necessaria. In alcune città italiane sono state avviate sperimentazioni, “buone alleanze”, che vanno sotto il nome di “patti di collaborazione”. 

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Immagine tratta da www.milanocittastato.it

24 gennaio 2019
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