Silvia Romano, mia figlia e quella valanga di fango
Esattamente cinque anni fa all’alba accompagnavo mia figlia in partenza per Erbil (Iraq), dove aveva accettato un posto di lavoro come cooperante per Terre des Hommes Italia. Naturalmente avevo il cuore in tumulto, ma era il lavoro per cui si era preparata fin dai tempi del liceo e poi nel percorso universitario, alternando gli studi con i Cantieri della solidarietà della Caritas ambrosiana, ossia con esperienze di volontariato estivo all’estero. Era già stata per un anno in Mongolia con AiBi (Amici dei bambini), unica donna italiana ad affrontare l’inverno mongolo.
Mia figlia ormai vive in Iraq da cinque anni. Come responsabile locale della sua ONG si occupa dei minori e delle famiglie dei campi profughi. Ha raccolto e distribuito aiuti alimentari in questo periodo di confinamento. Ha promosso progetti come l’assunzione di padri rifugiati come fattorini delle consegne di cibo a domicilio, i cosiddetti riders, fornendo loro le motociclette necessarie grazie alla cooperazione italiana. Ha selezionato e fatto assumere altri rifugiati come rappresentanti di una multinazionale del settore alimentare, che aveva bisogno di raggiungere e rifornire i commercianti al dettaglio.
Non ama essere definita volontaria: ha un contratto, sia pure a progetto, e guadagna uno stipendio. Non ha mai riportato rischi o minacce, vive sola, ma osserva norme di sicurezza, soprattutto quando deve andare a Baghdad. Insomma, è una che “se l’è andata a cercare”, e persiste nella scelta.
Ho pensato a tutto questo leggendo e ascoltando anche solo qualche spruzzo della valanga di fango e livore che ha investito Silvia Romano, e con lei tutti i cooperanti italiani all’estero. Non pochi a quanto pare, comprese persone che rivestono cariche pubbliche, pensano ai cooperanti come ingenui turisti che si avventurano da incoscienti in luoghi pericolosi. Altri li considerano anime belle che sognano di salvare il mondo ignorandone la durezza. I più faziosi li additano come fantaccini delle odiate ONG, assurte al rango di nemici pubblici nelle campagne sovraniste.
Vanno ristabiliti invece alcuni semplici dati di realtà. I cooperanti hanno punti di contatto con i lavoratori delle imprese italiane che operano all’estero, talvolta nei medesimi paesi; e altri punti di contatto con i missionari, come ha ricordato Marco Tarquinio su Avvenire. Come i missionari e anche molti lavoratori, operano per migliorare le condizioni di vita delle popolazioni locali.
La differenza con chi lavora in un’impresa è che non generano profitti (economici) per i propri imprenditori. In compenso i cooperanti promuovono l’immagine dell’Italia all’estero, rendono tangibile l’amicizia del nostro paese e il suo sostegno allo sviluppo delle aree più tribolate e delle popolazioni più provate.
Aiutare gli altri “a casa loro” o è solo uno slogan polemico, oppure comporta degli impegni conseguenti, compreso l’invio di personale qualificato sul posto.
Per gli Stati più evoluti, la cooperazione internazionale è diventata addirittura una carta da spendere nelle relazioni diplomatiche. La Svezia e la Norvegia, per esempio, godono di un prestigio nei paesi in via di sviluppo molto maggiore del loro peso politico ed economico, ma derivante dal loro impegno umanitario.
Certo le attività di cooperazione in regioni fragili o pericolose vanno progettate e gestite con criterio, evitando di mandare le persone allo sbaraglio, minimizzando gli inevitabili rischi, fornendo le coperture assicurative necessarie. L’hanno affermato anche i responsabili delle associazioni del settore. Aggiungerei: l’Italia nel panorama internazionale si distingue per la miriade di piccole e piccolissime ONG. Quasi uno specchio della vitalità micro-imprenditoriale del nostro paese, con i suoi pregi e i suoi limiti. L’accreditamento e il monitoraggio pubblico, insieme all’auto-regolamentazione, possono promuovere maggiore selettività, coordinamento, aderenza a codici di condotta condivisi.
Non credo però che lo spettacolo inqualificabile dell’odio derivi da una visione informata della cooperazione internazionale e del suo possibile miglioramento. Al fondo vedo una componente antropologica: il fastidio verso chi coltiva valori etici e ideali umanitari di cui molti si sentono incapaci. Abbattere l’immagine di chi ha osato sognare un mondo migliore è un modo per sentirsi confermati nella verità della propria grettezza. Speriamo che il nostro Paese continui invece a generare ragazze come Silvia Romano e mia figlia, capaci di prendere sul serio i loro ideali.
21 maggio 2020
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