Un aumento del 18% dei salvataggi in mare e dei conseguenti sbarchi in Italia sta provocando un cataclisma politico.
Nello sconcerto degli osservatori internazionali, tanto è bastato per aprire un velleitario contenzioso con l’Unione Europea nell'ultimo vertice di Tallinn. Il fallimento era già scritto, l’isolamento del nostro Paese da mettere in conto. Probabilmente tutto questo era voluto: dopo i cattivi risultati della maggioranza di governo alle elezioni amministrative, qualcuno ha pensato di recuperare consenso mediante il vittimismo e la contrapposizione con l’Europa. D’altronde i sondaggi rivelano la salvinizzazione degli atteggiamenti della grande maggioranza degli italiani.
Era inutile e foriero di rischi pretendere che i migranti e richiedenti asilo venissero condotti in porti lontani, costringendo persone allo stremo a viaggi più lunghi e obbligando le navi ad allontanarsi dal teatro delle operazioni per diversi giorni. È verissimo che i ricollocamenti in altri Paesi procedono al rallentatore (siamo a circa 7mila), ma il rimedio non può consistere nell’accrescere i rischi di perdite di vite umane. Semmai bisognerebbe interrogarsi sulle conseguenze della realizzazione degli hotspot, che trattengono in Italia i molti che vorrebbero proseguire il viaggio.
Alla fine, la convergenza con l’UE si sta realizzando sul contrasto degli arrivi. Nuovi fondi alla Libia, fornitura di motovedette, intralci per l’attività di salvataggio in mare delle ONG. Scrive in un rapporto Amnesty International: «Le motovedette libiche aprono il fuoco contro altre imbarcazioni e sono state direttamente coinvolte, con l'impiego di armi da fuoco, nell'affondamento di imbarcazioni con migranti a bordo». Quanto agli obblighi imposti alle ONG, invece di ringraziarle per salvare vite umane in pericolo, ci si preoccupa che non si avvicinino troppo alle coste libiche.
La cultura dei muri si sta purtroppo impadronendo delle sedi decisionali più paludate e solo retoricamente impegnate nella difesa dei diritti umani.