L'itinerario di ogni essere umano si compone di una moltitudine di episodi più o meno significativi, in una routine in cui i nuovi si incastrano progressivamente nella serie dei vecchi, senza che necessariamente ne abbiamo piena consapevolezza. Ma ci sono eventi che squarciano questa routine, aprendo all'improvviso il nostro sguardo sulla totalità della nostra esistenza e sul senso che intendiamo darle: la gioia di una fecondità inattesa e la prova del lutto, oppure l'angoscia per lo stravolgimento provocato da un incidente e il sentimento di protezione suscitato dalla presenza benefica di una persona vicina. Questi avvenimenti ci dischiudono una diversa comprensione della nostra identità e ci sollecitano a compiere scelte che saranno indicative della direzione che vogliamo imprimere alla nostra esistenza.
Qualcosa di analogo vale anche per le collettività, per i Paesi e per i popoli: periodicamente la storia produce eventi che chiamano in causa la loro identità profonda e sollecitano a decisioni sulla direzione in cui procedere. È stato così per il nostro Paese di fronte alle catastrofi naturali - in particolare i terremoti e le alluvioni che più volte lo hanno colpito -, che hanno messo in moto risposte di generosa solidarietà. È stato così anche di fronte a una emergenza di altra natura, quella del terrorismo, a cui l'Italia seppe reagire serrandosi attorno al valore della democrazia.
Allo stesso modo siamo oggi interpellati dai continui sbarchi di immigrati, in particolare a Lampedusa. Le immagini dei barconi, lo strazio di fronte a donne e bambini che affogano, il carico di sofferenze e di speranze che queste persone portano con sé, hanno aperto un varco nelle coscienze di molti italiani, andando ben oltre gli spettri troppo facilmente agitati dai media e le esternazioni a dir poco sgangherate del mondo politico. Questi sbarchi ci chiamano direttamente in causa, come cittadini, come italiani che festeggiano la loro identità nazionale e i valori di civiltà su cui essa è costruita, che rischiano di andare perduti in decisioni prese d'istinto, senza riflettere adeguatamente sulla portata degli eventi.
Senza negare la complessità della situazione, le contraddizioni dell'apparato normativo esistente, i rischi di abusi, le fatiche della collaborazione internazionale, l'enfatizzazione eccessiva dei media, e senza dimenticare che parte della ricchezza che oggi sentiamo «minacciata» dall'arrivo dei migranti è stata costruita anche sullo sfruttamento delle risorse dei loro Paesi, questi sbarchi riaprono per noi oggi una dinamica antica, che richiede in primo luogo di non chiudere gli occhi. Si tratta dell'esperienza radicalmente umana di sentirsi chiamati in causa dalla sofferenza altrui e contemporaneamente di avvertire la mancanza di risposte adeguate e la resistenza a lasciarci coinvolgere. Questi sbarchi, seguito delle rivoluzioni e delle guerre in Africa settentrionale, pongono un interrogativo su che cosa possiamo, e quindi vogliamo e dobbiamo, essere come Paese.
1. Una storia che ci aiuta
Che l'atteggiamento di fronte alla sofferenza altrui sia rivelatore della qualità umana ed etica della persona è patrimonio comune della cultura occidentale. Lo è per il filosofo illuminista Immanuel Kant, che di fronte al male percepiva la bellezza del destino umano nella necessità del rispetto, così come per l'ebreo Emmanuel Lévinas, per il quale il volto dell'altro costituisce un appello originario alla coscienza. Lo è certamente anche per la tradizione cristiana, per quelle radici da alcuni brandite molto più che praticate. E questo non perché il cristianesimo sia portatore di istanze che riguardano i soli credenti, ma perché costituisce innanzitutto una via di accesso all'autenticità dell'umano, privilegiata per il credente, ma percorribile per ogni uomo.
Per questo ci sembra di aiuto per riflettere sulla situazione presente una famosissima pagina evangelica, quella del buon samaritano (Luca 10, 25-37). La accosteremo provocati anche dalla lettura che il card. Martini ne diede 25 anni fa nella lettera pastorale Farsi prossimo (a cui si riferiscono i numeri citati nel testo; disponibile in <www.chiesadimilano.it>), che diede inizio a un significativo percorso di riflessione e di azione sulla carità nella Chiesa ambrosiana e non solo, e che, come ci mostrano i fatti di questi giorni, mantiene inalterata la vitalità del suo messaggio.
La parabola è un racconto biblico e al tempo stesso molto laico: una scena di vita ordinaria, senza riferimenti a Dio, al culto o alla preghiera, anzi, non priva di venature, per così dire, «anticlericali». Prima di esaminarla occorre sgomberare il campo dai possibili equivoci derivanti dall'utilizzo non sempre corretto che di questo testo è stato fatto. Innanzitutto è bene precisare che non si tratta di una esortazione al buonismo, come lascerebbe pensare l'accezione negativa, o ingenua, che ha assunto il termine «buon samaritano»: una persona capace di generosità eroica, ma al di fuori di un giusto realismo. Ugualmente, nulla nella parabola giustifica l'idea che quello del samaritano sia un comportamento straordinario, come se la carità fosse una esigenza riservata a pochi, che ne hanno il tempo, le doti o l'inclinazione, legittimando un atteggiamento troppo condiscendente di scarico di responsabilità attraverso la delega. Infine, la parabola non rappresenta un monito moralizzante che punta a generare un senso di colpa, paralizzante e particolarmente ostico per la mentalità contemporanea.
La storia è nota: un uomo in viaggio viene assalito, derubato, picchiato e abbandonato morente sul ciglio della strada. Un sacerdote prima, e un levita poi, per caso passano di lì e, vedendo l'uomo sofferente, preferiscono girare alla larga, continuando a seguire i loro programmi o i loro doveri sociali. Infine giunge un samaritano, un eretico disprezzato e odiato più di un pagano, che si prende cura dell'uomo ferito e lo affida a un albergatore, facendosi carico anche del relativo costo.
La parabola è narrata in risposta a un dottore della legge che aveva chiesto a Gesù: «Chi è il mio prossimo?»; l'arco aperto dalla domanda si chiude con la sbalorditiva risposta di Gesù, espressa al dottore della legge e a tutti noi in forma di domanda: «Secondo te, chi si è fatto prossimo dell'uomo aggredito dai briganti?». Come sottolinea il card. Martini, «Prossimo non è colui che ha già con me dei rapporti di sangue, di razza, di affari, di affinità psicologica. Prossimo divento io stesso nell'atto in cui, davanti a un uomo, anche davanti al forestiero e al nemico, decido di fare un passo che mi avvicina, mi "approssima"» (n. 39). Essere «prossimo» non è dunque una caratteristica che discrimina chi la possiede da chi non la possiede, giustificando la limitazione dell'impegno. Essere «prossimo» è qualcosa che si diventa, una dinamica e, in fin dei conti, una scelta.
2. Una dinamica fondamentale
Prima di affrettarsi a tirare conseguenze immediate per l'oggi e sovrapporre noi ai passanti e gli immigrati moribondi in mezzo al mare all'uomo aggredito e ferito, cercando poi a chi tocchi il ruolo del samaritano su cui gettare il dovere della carità, proviamo innanzitutto a comprendere qual è la radice della differenza tra il comportamento del samaritano e quello del sacerdote e del levita: quale meccanismo si è messo in moto nel suo animo, quale concreto cammino egli ha percorso per farsi prossimo di quel disgraziato?
Con i termini di oggi, possiamo dire che la vista dell'uomo ferito rappresentava un appello alla coscienza di chi, senza prevederlo, si è trovato a passare su quel tratto di strada, un appello a mettere in gioco tutta la sua persona: la razionalità e l'intelligenza, ma anche l'affettività, la volontà, la memoria. Come ogni esperienza in cui entra in gioco la coscienza, non mancano gli interrogativi: fin dove posso e debbo spingermi nell'assistere questa persona? Che cosa dice di me il modo in cui reagisco e agisco? Chi è questa persona a cui mi dedico? Qual è la sua più profonda dignità? Che cosa implica impegnarmi in un gesto di soccorso? Qual è il vero bene in gioco? La prossimità diretta a chi soffre invita a porre le domande sul valore della persona umana.
In quella situazione il samaritano «si commosse». O, in maniera più fedele all'originale greco del testo, «fu mosso nelle viscere», nel più profondo di sé. Si fa riferimento a una intensa esperienza interiore, che apre gli occhi sul valore delle cose e apre nuove possibilità di azione: in una parola, lo spinge a «farsi prossimo» in modo concreto (cfr n. 36). Sta qui la vera grandezza del samaritano, più che nelle cure mediche di fortuna o nel metter mano al portafoglio: farsi prossimo è il gesto supremo, che dischiude la promessa del sorprendente ritrovamento dell'umanità nostra e di colui che incontriamo. Siamo di fronte a una comprensione profonda della dinamica della carità, ben diversa dalla sua declinazione puramente assistenziale, che conduce a vedere le persone in difficoltà come sacchi di bisogni da colmare, che, nonostante tutti gli sforzi, non si riempiono mai. O, nella nostra situazione, al timore per il numero di migranti potenziali pronti ad attraversare il Mediterraneo su un barcone, che finisce per ostacolare il soccorso a quelli arrivati oggi.
Per quanto profondamente umano, il comportamento del samaritano non è un automatismo, né il frutto di una miracolosa quanto estrinseca ispirazione divina. L'una o l'altra alternativa escluderebbero la responsabilità: se non scattano, non dipende da me. «Chi pensa così, si è già fatta un'idea completa dell'azione umana e giudica l'intervento di Dio come un'aggiunta o necessaria o inutile. La questione invece è più complessa e affascinante. È il senso stesso dell'azione umana ad essere messo in questione» (n. 35). Questa esperienza è sì un dono che discende dalla gratuita misericordia di Dio, ma si esprime in concreto suscitando e configurando una libertà capace di dedicarsi al bene dell'uomo.
Questa libertà si acquisisce e va preservata nel tempo attraverso la formazione della coscienza, in particolare in una società in cui a spingere verso la carità non ci sono più pressioni od obblighi sociali né spinte ideologiche di alcun tipo. Oggi il richiamo della coscienza alla libertà è avvertito piuttosto come il residuo di un moralismo da mettere a tacere, per cui si preferisce distogliere lo sguardo dal problema, girando alla larga come il sacerdote e il levita, o, meglio ancora, trovare il modo per trasferirlo rapidamente lontano dalla nostra vista: «Föra di ball», come sintetizzerebbe qualche nostro ministro.
3. Farsi prossimo oggi
In una società in cui il discorso pubblico premia chi si gira dall'altra parte e tira dritto per la propria strada, è possibile attivare la dinamica profonda illuminata dalla parabola? «Quali forze vanno risvegliate, quali responsabilità vanno assunte, quali itinerari vanno percorsi» (n. 11)? Sarebbe semplicistico e inopportuno concludere che l'unica soluzione possibile è l'accoglienza indiscriminata di tutti. Se la decisione del samaritano non è il frutto di un impulso spontaneistico momentaneo, come la nostra cultura facilmente tende a pensare, occorre trovare il modo per ripercorrere i passi di quel cammino di formazione della coscienza che lo ha reso capace, di fronte all'imprevisto, di dare una risposta in sintonia con la propria umanità profonda. Quali percorsi occorre attivare nella nostra vita personale, nelle nostre comunità cristiane, nei nostri ambiti lavorativi, nelle famiglie, nella vita sociale locale o nazionale?
Suggeriamo due piste di riflessione, senza dimenticare la continua creatività che il «farsi prossimo» richiede per affrontare situazioni sempre nuove e imprevedibili. Da una parte ci possiamo lasciare ispirare da quello che, nel campo della cooperazione internazionale allo sviluppo, le scienze sociali chiamano proprio «dilemma del samaritano» (cfr GIBSON C., The Samaritan's Dilemma. The Political Economy of Development Aid, Oxford University Press, Oxford-NewYork 2005; VITALE T., «Società locali e governo dei beni comuni. Il Nobel per l'economia a Elinor Ostrom», in Aggiornamenti Sociali, 2 [2010] 97-99) e che riguarda i rischi di un aiuto incondizionato che non può che creare dipendenza, ma che non si vuole interrompere. È la modalità di ricevere l'aiuto a fare la differenza: il «samaritano» può condizionare il proprio aiuto a una partecipazione significativa dei destinatari, ritenendoli soggetti attivi e considerando anche la configurazione delle regole degli spazi di azione in cui sono coinvolti. Si tratta, in altri termini, di cambiare la struttura della situazione.
I destinatari degli aiuti devono essere trattati come proprietari del progetto, in modo che lo sentano come proprio, vi mettano del loro, con responsabilità chiare, ma anche con il diritto di partecipare alle decisioni. Attribuire ai destinatari la comproprietà dei progetti li riorienta, ne modifica le modalità operative e di apprendimento organizzativo in senso collettivo. Il progetto diviene il bene che tutti gli attori coinvolti, compresi i destinatari, hanno in comune. Tornando alla questione degli sbarchi, la valorizzazione delle persone accolte e il sentimento di un progetto e di un bene comuni sono elementi imprescindibili qualsiasi sia la soluzione intrapresa, a partire - bisogna avere il coraggio di dirlo - dalla gestione dei centri di accoglienza.
Una seconda pista di riflessione invita a considerare il ruolo che in questo percorso rivestono l'allocazione delle risorse e la predisposizione di strutture adeguate. È verosimile che nel budget del samaritano, certamente un uomo non ricco se viaggiava da solo, i due denari fossero destinati ad altro, ma egli ha saputo adattarlo all'imprevisto. È frequente, di fronte alle emergenze, sentire invocare i vincoli di bilancio come limite invalicabile, come la ragione di una impossibilità a intervenire. Certamente, e in particolare in questo momento, le risorse non sono infinite ed è giusto, in vista del bene comune, rispettare i vincoli di bilancio. Ma questi non possono diventare un idolo a cui sacrificare la nostra umanità profonda: piuttosto, essi possono essere una occasione per esercitare la creatività, scoprendo come ricombinare in modo diverso i pezzi del puzzle, con il coraggio di collegare i sacrifici non a un triste destino che si è abbattuto su di noi, ma all'attuazione dei valori di fondo che stanno alla base di una vita civile. Posto evidentemente che questo sia vero e che questi valori siano condivisi, sarà possibile presentare i «tagli» per far posto all'imprevisto come una occasione di crescita comune in umanità. E questo stimolerà un ulteriore affinamento della coscienza collettiva.
Il soccorso prestato dal samaritano sarebbe stato certamente più difficoltoso, e forse vano, se lungo la strada non si fosse trovata la locanda. Una società matura, che abbia davvero esercitato la propria coscienza, sa di aver bisogno di strutture, di istituzioni, di programmi capaci di svolgere sistematicamente la funzione di accogliere i più sfavoriti: nel momento del bisogno, tornano utili. Pur riconoscendo la legittimità delle domande sul loro corretto funzionamento e della preoccupazione di evitare sprechi, di fatto negli ultimi due decenni le istituzioni di questo tipo, e non solo nel campo dell'immigrazione, sono state indebolite, smantellate, talvolta anche denigrate, relegate dall'ambito dei pubblici doveri a quello della filantropia privata, quando c'è. Tutto ciò ha diminuito la nostra capacità di accoglienza e probabilmente anche la sensibilità della nostra coscienza a riconoscere quando di accoglienza c'è bisogno.
4. Il valore di un intervento immediato
Per quanto una società disponga di efficaci istituzioni di accoglienza, le situazioni di emergenza continueranno a presentarsi in modo imprevedibile e a richiedere un intervento immediato, che non pretende di risolvere tutto, ma fa ciò che è possibile al momento. Può essere un gesto ambiguo. Può incoraggiare la pigrizia e la menzogna in chi lo riceve, e far nascere in chi lo compie l'idea di sentirsi a posto, senza andare alla radice dei problemi. L'elemosina, intesa come il gesto immediato di fronte a una emergenza imprevista, richiede grande realismo e soprattutto di non farla diventare il surrogato di altri interventi più completi ed efficaci. Tuttavia contiene molti valori. Anzitutto è un gesto di aderenza alla realtà: anche nella nostra civiltà, che ha tecnologizzato persino l'intervento sociale, ci sono situazioni di povertà difficilmente individuabili e sanabili a livello strutturale. Anzi, proprio alcuni meccanismi della nostra civiltà del benessere tendono a produrre disadattati, emarginati, asociali. Occorre certo intervenire perché i meccanismi siano corretti o almeno si trovino rimedi ai loro guasti a livello sociale. Intanto però occorre fare qualcosa. La carità o, altrimenti detto, una coscienza capace di comprendere come rispettare e promuovere la dignità propria e altrui, suggerirà quello che di volta in volta si può fare (cfr n. 70).
Questa prospettiva, tanto vitale quanto impegnativa, riafferma la necessità della formazione delle nostre coscienze, non soltanto per riceverne un richiamo - a volte salutare - al dovere del rispetto altrui. Essa è più profondamente un delicato strumento attraverso il quale ci abituiamo a cogliere i nostri desideri più profondi e a orientarci nelle scelte difficili. Ci auguriamo che come Paese sappiamo cogliere l'opportunità che gli sbarchi ci offrono per camminare in questa direzione. Mentre ci chiedono un aiuto immediato, di emergenza, e la predisposizione di piani per soluzioni più definitive, che dovranno essere articolate e differenziate, gli immigrati che sbarcano sulle nostre coste offrono a noi, come italiani e come Italia, l'opportunità di decidere ancora una volta che cosa vogliamo fare di noi stessi: vogliamo farci i fatti nostri o farci prossimi?