Stando alle dichiarazioni di oggi di Juncker, siamo di fronte a una vera svolta nelle politiche dell’asilo e forse anche più in generale dell’immigrazione in Europa.
Le convenzioni di Dublino e la stessa agenda europea di maggio viaggiano verso l’archivio, se agli annunci odierni seguirà lunedì l’approvazione del piano e se i governi nazionali adotteranno le decisioni conseguenti.
La Germania ha guidato il cambiamento di rotta, imprimendo un segno nuovo alla sua leadership europea. Le immagini dell’accoglienza dei profughi tra gli applausi, accompagnati dall’inno alla gioia, anticipano un’Europa diversa e migliore. Il merito è ancora maggiore se si pensa che in questo paese da gennaio a luglio si sono verificati 330 attacchi a centri di accoglienza per rifugiati.
Alcune anticipazioni di un nuovo orientamento della Germania erano già trapelate, con l’annuncio di un’accoglienza incondizionata per i profughi provenienti dalla Siria dilaniata dalla guerra. Ma l’accelerazione del cambiamento ha a che fare con il rapporto tra mass media, emozioni e decisioni politiche. Le immagini del bimbo siriano morto in mare e delle famiglie di profughi in cammino attraverso le frontiere dei Balcani hanno provocato un soprassalto di umanità, e forse di realismo prima in Germania e in Austria, poi nelle politiche europee. L’impressione è che i leader politici del Vecchio Continente abbiano colto il momento favorevole per prendere decisioni ormai mature, forse inevitabili, approfittando di una finestra di opportunità: un raro istante in cui nelle opinioni pubbliche la pietà per le vittime e la solidarietà umana hanno preso il sopravvento sulle ansie xenofobe e sulle chiusure egoistiche.
Non è che i dati citati da Juncker, sui numeri dei rifugiati accolti in Europa rispetto a quelli riparati in Libano, siano stati scoperti oggi. Semplicemente, mancava la convenienza politica e forse il coraggio morale per tirarli fuori e assumere scelte congruenti.
Certo, i nodi ancora da sciogliere non mancano. Le quote rappresentano un passo avanti, ma hanno un serio limite, antropologico e morale: non tengono conto delle aspirazioni dei richiedenti asilo. I rifugiati sono persone, non scarti imbarazzanti da suddividere in modo più o meno equo. Hanno conoscenze, legami e desideri che non necessariamente collimano con le destinazioni loro assegnate. In altri termini, potrebbero non accettare di essere spediti in Spagna o in Finlandia, o una volta inviati forzosamente in un determinato paese, potrebbero decidere di trasferirsi altrove. In questo caso perderebbero il diritto alla protezione umanitaria?
Un altro problema è quello di scongiurare rischiosi viaggi per mare, senza però impedire a chi fugge di raggiungere luoghi sicuri. Le politiche di reinsediamento, di cui Cameron si è fatto alfiere per non sottostare alle quote decise a Bruxelles, dovrebbero salire di priorità. Bisognerebbe raccogliere le domande di asilo il più vicino possibile alle aree di crisi, esaminarle in tempi rapidi e, in caso di accettazione, provvedere a trasferire i profughi con regolari viaggi aerei.
Un terzo nodo riguarda la contropartita delle quote, ossia l’impegno a identificare e registrare i profughi al momento dello sbarco. Qui le incognite sono due: anzitutto, non è detto che i profughi desiderino essere registrati nei luoghi di sbarco, e forzarli appare discutibile. In secondo luogo, giacché il piano Juncker prevede di distribuire 160.000 persone, il rischio è che i profughi in eccedenza rimangano a carico dei paesi di approdo, anche contro la loro stessa volontà.
Da ultimo, segnalo un problema più inerente al dibattito italiano sull’accoglienza dei rifugiati. Da più parti nelle settimane scorse, e in questi giorni dal ministro Alfano, è stata avanzata la proposta di disseminare i richiedenti asilo sul territorio, pochi per ogni comune: una traduzione frettolosa delle parole del Papa, che ha parlato di famiglie e di parrocchie. Apparente buon senso, che guarda però in una sola direzione, quella di una presunta maggiore accettazione sociale.
Per contro però disseminarli avrebbe almeno due limiti. Primo, li isolerebbe: due o tre rifugiati, che nemmeno si sono scelti tra loro, dovrebbero vivere insieme, magari in piccoli paesi di montagna, lontano da tutto e da tutti. Secondo, renderebbe più difficile organizzare attività d’integrazione, dai corsi di italiano alle attività socialmente utili. Semmai, servirebbe maggiore impegno e controllo sull’organizzazione effettiva di queste attività da parte dei soggetti gestori dell’accoglienza. La proposta della disseminazione rafforza implicitamente l’idea che l’importante è che non diano fastidio alla gente, si facciano notare il meno possibile. Come riempiono le giornate, che cosa si fa per promuoverne l’integrazione, sembrano interessare assai poco. Senza contare che non è affatto scontato che il loro arrivo non sollevi comunque resistenze e conflitti.
Siamo dunque agli inizi di un nuovo cammino, ma la strada di un’Europa e di un’Italia più accoglienti è ancora lunga e impervia.