Riforma del Terzo settore: le sfide aperte

La Legge delega di riforma del Terzo settore, approvata dal Parlamento il 6 giugno 2016, attende, entro il giugno 2017, l'emanazione dei decreti attuativi. I contenuti di questi ultimi saranno decisivi per formulare un giudizio complessivo sulla legge e per capire se questo può essere un passaggio decisivo per ridare slancio a una realtà che attraversa un momento di stanchezza. 
Nel numero di febbraio di Aggiornamenti Sociali, i due sociologi Emanuele Polizzi e Tommaso Vitale, dopo avere brevemente ripercorso le più importanti dinamiche del Terzo settore italiano da Tangentopoli ad oggi, approfondiscono i contenuti della nuova legge, evidenziandone sia gli aspetti positivi sia gli elementi di ambiguità. Di seguito uno dei paragrafi, qui l'articolo integrale.


La riforma del Terzo settore risponde alle sfide di oggi?


La riforma qui riassunta prefigura dunque numerosi cambiamenti, la cui reale capacità di incidere sulla vita degli enti di Terzo settore dipenderà molto dal modo in cui si darà attuazione alla Legge delega e dal successivo operato degli enti coinvolti: il Ministero, i Comuni e le Regioni e gli stessi soggetti del Terzo settore, soprattutto nelle reti di secondo livello. Possiamo però richiamare fin d’ora l’attenzione su alcune questioni, innanzi tutto la dinamica di ibridazione tra Terzo settore e altri settori delineata dalla riforma. 

La lettura del testo di legge, e ancor prima la retorica dominante negli ultimi anni nel dibattito interno al Terzo settore italiano, mostra che l’idea centrale è stata la sua progressiva ibridazione anzitutto con il mondo del profit, con l’intento di portarlo fuori dalla dipendenza dal settore pubblico, specie nei servizi di welfare, al fine di acquistare una crescente capacità di sostenersi con le risorse e gli strumenti del mercato, ancorché di un mercato sociale (inteso cioè come mercato dei servizi di tipo sociale). A questo riguardo, appare utile domandarsi a quali modelli economici, gestionali e di relazione con i clienti/utenti si intende fare riferimento per portare avanti questo processo di ibridazione. Perché possa portare a un valore aggiunto non basta che il Terzo settore sappia assumere una maggior capacità di “stare sul mercato”, ma che i modelli aziendali nelle organizzazioni siano adattati alle specificità dei servizi alla persona (Fazzi 2013, De Ambrogio e Guidetti 2016), che ha al proprio centro la relazione ed è quindi difficilmente standardizzabile in schemi predisposti e replicabili (come avviene in tanti modelli “profit”; cfr Barbetta, Ecchia e Zamaro 2016). Se tale ibridazione dovesse avvenire solo nel primo dei due sensi, si concretizzerebbe il rischio del passaggio da un modello di servizio irrigidito dalle logiche burocratiche dell’ente pubblico a un altro di tipo aziendalista altrettanto rigido (Villa 2009).  

Anche il reperimento di risorse economiche sul mercato presenta alcuni rischi che meritano attenzione, primo fra tutti quello dell’esclusione. Servizi che vogliono sostenersi autonomamente sul mercato potrebbero essere accessibili solo a chi è più fornito di risorse economiche e di strumenti di scelta, lasciando fuori i soggetti più poveri e fragili, che sono già oggi in difficoltà in tutti i territori del welfare locale. In secondo luogo, vi è il rischio che la dipendenza in maniera dominante da investitori e donatori privati finisca per esporre gli enti del Terzo settore a logiche di allocazione delle risorse di tipo mecenatesco (cioè condizionate dalla discrezionalità del donatore) ed effimere, in risposta ai bisogni più visibili, per i quali un gesto di dono è emotivamente più gratificante. Entrambi i rischi possono essere affrontati se i soggetti del Terzo settore saranno in grado di bilanciare l’ibridazione con il profit con un saldo radicamento nei terreni associativi e culturali dai quali provengono, senza perdere così la propria capacità di lettura della realtà e azione strategica. Peraltro, proprio la compresenza, tipica di grandi associazioni come Acli e Arci, di una forte vocazione associativa e territoriale e di una capacità di erogare servizi, anche in forme professionalizzate, aveva costituito uno dei punti di forza del Terzo settore italiano. Se non preservata, tale doppia vocazione del Terzo settore rischia di mettere a repentaglio proprio questa parte del mondo associativo italiano (Biorcio e Vitale 2016).

Vi è poi una questione connessa con il passaggio dell’attenzione dai requisiti burocratici alle attività svolte e al loro impatto sociale. Pur essendo in sé un passaggio apprezzabile, non si possono sottacere i rischi di una classificazione delle attività e di una misurazione degli impatti che si fermi a un livello superficiale o formale, usando per la valutazione indicatori unidimensionali e rigidi, invece di privilegiare approcci di tipo sperimentale e incrementale alla misurazione dell’impatto, con un’attenzione ad ampliare il campo di valutazione, per esempio includendo anche il coinvolgimento di utenti e stakeholder nella governance degli enti (Fazzi 2016).

Un’altra questione rilevante della riforma è il rapporto del Terzo settore con il welfare pubblico. La riforma cerca giustamente di tracciare una strada per costruire rapporti di minor dipendenza degli enti associativi dal welfare pubblico, ma sarebbe irrealistico immaginare che si possa del tutto prescinderne. Ancora oggi vi sono numerosi servizi alla persona e alle comunità locali che non si potrebbero svolgere senza un sostegno pubblico. Il ruolo principale del Terzo settore, peraltro, non si gioca tanto o solo sul piano operativo, ma anche sul fronte dell’advocacy, individuando bisogni e rivendicando diritti sociali, e della sperimentazione di risposte innovative (questo vale per altro anche per il settore culturale e per quello sportivo). Di conseguenza è ancora importante soffermarsi sui luoghi e gli strumenti previsti nel welfare pubblico per dare voce al Terzo settore. Di tale questione però la riforma non si occupa se non in modo del tutto marginale. Ciò appare un impoverimento del dibattito sul ruolo pubblico del Terzo settore, che pure negli anni ’90 e nei primi anni 2000 aveva assunto un peso importante, in occasione soprattutto della riforma del sistema dei servizi sociali (L. n. 328/2000).

Infine va segnalato il tema, spesso poco discusso, del rinnovamento della classe dirigente. La riforma pone il tema dell’innovazione sociale come orizzonte strategico per il Terzo settore, intendendo con ciò la capacità di individuare azioni capaci di rispondere in modo innovativo e più efficace ai bisogni e ai problemi sociali attuali. La domanda che si pone per molti degli enti di questo mondo consiste nel capire come coinvolgere i soggetti che hanno una maggior capacità di innovazione sociale, in particolare le generazioni più giovani. La riforma individua nel servizio civile un importante vettore di afflusso di giovani nelle organizzazioni di Terzo settore; ma, oltre a questo aspetto, si deve considerare quale rapporto instaurare con i soggetti che già oggi sperimentano azioni di innovazione sociale, come per esempio le numerose esperienze di start up che utilizzano le nuove tecnologie telematiche e digitali per servizi a impatto sociale (Polizzi e Bassoli 2016). 

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Fazzi L. (2016), «Buona economia senza buone istituzioni? Prime riflessioni dopo la legge delega su Terzo settore e impresa sociale. Intervista a Luca Fazzi», a cura di Floris F., in Animazione Sociale, 300, 3-13.
De Ambrogio U. – Guidetti C. (2016), La coprogettazione. La partnership tra pubblico e Terzo settore, Carocci, Roma.
Barbetta G.P. – Ecchia G. – Zamaro N. (2016), Le istituzioni non profit in Italia. Dieci anni dopo, il Mulino, Bologna.
Villa M. (2009), «Logiche di intervento e valore della cura: fra cittadini e istituzioni», in Costa G., La solidarietà frammentata. Le leggi regionali sul welfare a confronto, Bruno Mondadori, Milano.
Biorcio R. – Vitale T. (2016), Italia civile, Donzelli, Roma. 
Polizzi E. - Bassoli M. (2016), Le politiche della condivisione. La sharing economy incontra il pubblico, Giuffrè, Milano.

02 febbraio 2017
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