Reciproco amore

Fascicolo: febbraio 2014
Molte coppie scelgono di leggere dei brani del Cantico dei cantici per la celebrazione del loro matrimonio, sentendosi rappresentate da questa Parola così sorprendentemente vicina a ciò che stanno vivendo. In effetti “il poema più bello” (il titolo ebraico del libro ha il senso di un superlativo) canta l’amore fra uomo e donna con una concretezza e un’intensità uniche nella Bibbia.
Tuttavia la lettura del Cantico, limitata a questi testi scelti, ne riduce il messaggio all’aspetto sentimentale, molto coinvolgente ma superficiale, se non inserito nel quadro più ampio di tutto il poema e del contesto sociale a cui si riferisce. In particolare, si perde il rilievo critico verso la cultura del tempo e quindi la profondità e l’attualità di un testo biblico poco noto, anche perché ingiustamente escluso dalla liturgia festiva cattolica.

A una lettura più attenta e globale, infatti, si nota come i riferimenti all’istituzione, cioè il matrimonio, siano quasi assenti, mentre abbondino quelli all’eros, sebbene l’unione sessuale degli amanti sia solo evocata e mai descritta. Questi due aspetti sono tenuti in secondo piano dal Cantico per far risaltare ciò che precede, fonda e permette una relazione d’amore davvero unica, fedele e stabile: né l’eros, né l’istituzione possono infatti garantire la verità e la durata di un’esperienza così essenziale e costitutiva dell’umanità. In questo senso il poema indica nel suo insieme il cammino degli amanti verso l’origine e il fondamento della loro unione.

Un poema al femminile
L’analisi filologica indica il III sec. a.C. come probabile periodo di composizione del testo, ma alcune parti potrebbero risalire anche a epoche più antiche. Il Cantico si presenta come il libretto di un’opera teatrale in versi, articolato in una serie di dialoghi. I protagonisti sono un uomo e una donna volutamente anonimi, cosicché tutti possano identificarsi con loro. Solo verso la fine del poema lei viene chiamata «la Sulammita», ma non si tratta di un nome proprio, bensì di un appellativo che può riferirsi alla sua città natia o derivare dalla radice šlm, pace, una sorta di corrispettivo femminile di Salomone.
Non c’è una vera e propria storia, le vicende della coppia si svolgono quasi fuori dal tempo, assumendo la forma di paradigma della relazione d’amore in sé, rispetto alla quale il contesto storico si presenta di aiuto o di ostacolo al percorso verso l’unione perfetta. Questo confronto fra ideale e reale si basa sul ruolo e la caratterizzazione della Sulammita, figura capace di mettere in discussione ancora oggi gli stereotipi con cui viene descritta e celebrata la relazione di coppia.

In Israele, dal punto di vista legale, la donna era considerata una proprietà personale del padre prima e del marito poi. Il matrimonio non era basato sull’amore, ma nasceva da un patto fra le famiglie di origine, per cui la dimensione giuridica e istituzionale prevaleva nettamente su quella sentimentale. Questo modo di impostare la relazione uomo-donna si trova codificato in alcuni testi della Mishnah, in cui, a partire dal II sec. d.C., viene trascritta la legge religiosa ben più antica, fino ad allora tramandata oralmente. Secondo alcuni rabbini, il marito poteva ripudiare la propria moglie anche per futili motivi, come il fatto che lei abbia rovinato il suo pasto o l’aver trovato una donna più bella di lei (cfr Gittin 90a).
Il Cantico, invece, presenta la figura femminile come protagonista attiva nella relazione, secondo una linea di pensiero che non trova spazio nei testi legislativi più tardi, ma non isolata nella Bibbia, come testimoniano anche altri scritti biblici dell’età ellenistica, detti “sapienziali” perché nati dall’incontro tra la cultura ebraica e quella dei popoli vicini (cfr BITTASI S., «Donna forte», in Aggiornamenti Sociali 2 [2013] 158-162).
Il ruolo principale, infatti, nel Cantico spetta proprio alla Sulammita: su 116 versetti, ben 68 sono recitati da lei, 34 dall’amato e 14 dagli altri personaggi, al punto da far ipotizzare un’autrice all’origine del poema, un unicum nel panorama biblico (cfr ANDRÉ LACOQUE, Come pensa la Bibbia. Studi esegetici ed ermeneutici, Paideia, Brescia 2002, 237-262).
Al dato quantitativo fa riscontro quello qualitativo, cioè la caratterizzazione della donna. Parlando di sé dice: Bruna io sono, ma bella, o figlie di Gerusalemme ... Non guardatemi così perché sono bruna, il sole mi ha abbronzata. I figli di mia madre si sono adirati con me, mi han messo a custodire le vigne. Ma la mia vigna, quella mia, non l’ho custodita (1,5-6).
Poi, rivolgendosi all’amato, chiede: Dimmi, o amore dell’anima mia, dove pascoli il gregge, dove ti riposi a mezzogiorno, perché non sembri una che si vela presso le greggi dei tuoi compagni (1,7).

Fin dall’inizio la Sulammita si presenta al di fuori dei canoni del suo tempo, siano essi estetici, morali o culturali. Infatti è scura di pelle, abbronzata dal sole della campagna, mentre il colorito chiaro era segno della bellezza e della nobiltà di chi viveva all’ombra dei palazzi, in città; si ribella alla coercizione esercitata su di lei dai suoi fratelli nel tentativo di proteggere il buon nome suo e della sua famiglia; prende l’iniziativa e va in cerca dell’amato, a costo di passare per una che si vela, ovvero una prostituta. Così appariva alle guardie che la trovano di notte alla ricerca dell’amato e perciò la trattano male, ma senza riuscire a intimorirla più di tanto: Ho aperto al mio diletto, ma il mio diletto se n’era andato, era scomparso. L’anima mia venne meno per la sua scomparsa. L’ho cercato, ma non l’ho trovato. L’ho chiamato, ma non mi ha risposto. Mi hanno trovata le guardie che fanno la ronda in città. Mi hanno percosso, mi hanno ferita, mi hanno tolto il mio velo di dosso le guardie delle mura. Vi scongiuro, figlie di Gerusalemme, se trovate il mio diletto, cosa gli direte? Che sono malata d’amore (5,6-8).
L’apparenza inganna le guardie: in realtà si tratta di una donna coraggiosa, spinta dall’amore a sfidare gli stereotipi, capace di trasgredire le convenzioni sociali pur di unirsi al suo amato, ma non per questo infedele, anzi, del tutto protesa verso l’unico amore: Il mio diletto è mio e io sono sua (2,16), o ancora: Alle nostre porte c’è ogni genere di frutti squisiti, freschi e anche stagionati. Mio diletto, li ho conservati per te (7,14). La conferma, poi, viene dall’amato, l’unico che può intendere appieno il comportamento dell’amante: Tutta bella sei, amica mia, e in te non c’è macchia (4,7).Giardino chiuso sei sorella mia, sposa, fontana chiusa, sorgente sigillata (4,12). Questo modo non convenzionale di rappresentare la relazione di coppia trova riscontro nei due riferimenti del Cantico: al racconto della creazione, in verticale, e alla società reale, in orizzontale.

Ritorno all’origine
Lo scenario degli incontri tra gli amanti è spesso bucolico, con evidenti riferimenti al giardino dell’Eden (cfr 6,1-2). Anche quando vengono impiegati riferimenti espliciti alla relazione sessuale, non si trova mai una valutazione morale, l’eros non è descritto con quell’accezione negativa, di possessività e dominio, acquisita dopo la trasgressione dei progenitori, anzi, l’intenzione esplicita del Cantico è di riportare la relazione al suo splendore originario. Quando lei afferma: Io sono per il mio diletto e a me si volge il suo desiderio (7,11), usa il termine ebraico tešûqâ, riprendendo quanto detto da Dio alla prima donna in Genesi 3,16: «Verso il tuo uomo sarà il tuo desiderio (tešûqātēk) e lui ti dominerà». Nel riferirsi a quella parola, però, il Cantico introduce due modifiche essenziali: la fa pronunciare alla donna verso l’uomo e omette la seconda parte, dovuta alla corruzione del rapporto seguita al peccato.
In tal modo, si crea una situazione speculare a quella della Genesi, come se la donna del Cantico rispondesse e confermasse da parte sua la verità dell’esclamazione del primo uomo che trova in lei il vero “tu” con cui mettersi in relazione, alla pari e non come con gli animali a cui ha appena dato il nome: «Questa volta lei è ossa delle mie ossa e carne della mia carne» (Genesi 2,23). In un contesto sociale che poteva interpretare Genesi 3,16 come una legittimazione da parte di Dio del dominio dell’uomo sulla donna, il Cantico ricorda che quella parola è la presa d’atto della situazione venutasi a creare dopo la trasgressione, ma, in realtà, «al principio non fu così» (Matteo 19,8).
Questa ripresa al femminile della situazione originaria si concentra, in orizzontale, nel punto focale da cui si osserva la relazione di coppia: la reciprocità.
Per esprimere in versi tale qualità essenziale del rapporto d’amore, nei dialoghi si ascolta spesso lui ripetere con parole proprie quanto già espresso da lei e viceversa, in particolare quando l’uno esalta la bellezza dell’altra: Come sei bella, amica mia, come sei bella. I tuoi occhi sono colombe dietro il tuo velo. I tuoi capelli sono come un gregge di capre che scendono dal monte di Galad (4,1). E gli fa eco l’amata che ripete: Il suo capo è oro puro, i suoi riccioli grappoli di palma, neri come il corvo. I suoi occhi come colombe su ruscelli d’acqua (5,11-12).
La reciprocità viene anche dichiarata apertamente nel già citato v. 2,16, ripetuto come un ritornello, ma a parti invertite, nel v. 6,3: Io sono del mio diletto e il mio diletto è mio. Ma è soprattutto la scelta dei gesti d’amore da cantare a sottolineare la reciprocità della relazione. Infatti, anche se i riferimenti all’unione sessuale sono alquanto espliciti, il Cantico si limita ad evocarla, non la rappresenta e non per pudore o moralismo, ma perché viene data la priorità ad altre manifestazioni, quali il bacio, l’abbraccio, la ricerca (tra l’altro, tutti descritti da lei), le carezze: Mi baci con i baci della sua bocca! (1,1). La sua sinistra sotto il mio capo e la sua destra mi abbraccia (2,6). Sul mio letto, nelle notti, ho cercato l’amore dell’anima mia, ho cercato, ma non l’ho trovato (3,1). Come sono dolci le tue carezze, sorella mia, sposa, come sono dolci le tue carezze più del vino (4,10).

Si tratta di gesti simmetrici, in cui non è possibile distinguere chi ne sia il soggetto e chi l’oggetto: nel bacio, nell’abbraccio, nella ricerca, nelle carezze, chi dei due bacia, abbraccia, cerca, accarezza e chi è baciato, abbracciato, cercato, accarezzato? Non così l’unione sessuale, di per sé asimmetrica e quindi più esposta al rischio di non-reciprocità, che richiede preparazione ed equilibrio per non scadere in un rapporto di forza. Ecco perché il Cantico predilige le manifestazioni preliminari al compimento sessuale dell’unione e mostra piuttosto la fase di preparazione e ricerca reciproca degli amanti, il cammino che devono fare perché anche il gesto d’amore più intimo e intenso sia vissuto nella reciprocità, alla pari.
Così il Cantico traccia poeticamente la via per la quale il rapporto uomo-donna può procedere verso l’incarnazione di una vera e radicale relazione d’amore e la trascendenza dell’origine rendersi presente nell’immanenza di una storia. Questa via attraversa anche la trasgressione, quando l’ambiente circostante impedisce l’espressione libera del proprio amore, ma non varca mai la soglia della strumentalizzazione, la riduzione dell’altra/o a sé. Per questo il Cantico rifiuta la sessualizzazione della relazione di coppia e libera l’amore dagli stereotipi e dagli aspetti di genere forieri di rapporti di forza, asimmetrici, senza peraltro annullare le differenze, ma tenendole in equilibrio. Il gioco degli amanti che si cercano e si perdono esprime l’alleanza necessaria a questo equilibrio fra il desiderio, derivante dall’assenza, e la legge, necessaria in presenza dell’altra/o (cfr RECALCATI M., Cosa resta del padre? La paternità nell’epoca ipermoderna, Raffaello Cortina, Milano 2011, 74). L’amore vero, insomma, ha in sé la sua propria legge.

Amore sponsale
Allo stesso modo, per andare all’origine, il Cantico non canta l’amore matrimoniale, non insiste sulla dimensione istituzionale della relazione, prevalente nella società dell’epoca. L’amata viene generalmente chiamata “amica mia” e solo in alcuni versetti è detta “sposa”, appellativo, però, unito anche a “sorella mia”: Vieni con me dal Libano, sposa (4,8), Sono arrivato nel mio giardino, sorella mia, sposa (5,1). L’unione sessuale, poi, viene considerata come un valore in sé, non c’è mai riferimento alla finalità procreativa, che era, invece, l’aspetto principale preso in considerazione nel diritto familiare.
Non si può certo dire, per questo, che il Cantico esalti “l’amore libero”, ma non se ne può fare neanche l’emblema dell’amore coniugale. I moti dell’amore di cui si parla sono i segni del nuziale nell’erotico, è l’amore sponsale che si emancipa dall’erotico per reinvestirsi in altre regioni della relazione amorosa (cfr RICOEUR P., Come pensa la Bibbia. Studi esegetici ed ermeneutici, Paideia, Brescia 2002, 263-298). Senza tali segni né l’eros, né l’istituzione, da soli, possono durare.
Non a caso, allora, il “sigillo” arriva alla fine del poema, quando gli amanti, attraverso un percorso di ricerca, unione e separazione, hanno imparato a vivere la loro passione nella reciprocità: Mettimi come il sigillo sul tuo cuore, come il sigillo sul tuo braccio, perché forte come la morte è l’amore, tenace come gli inferi la passione. Le sue vampe sono fiamme di fuoco, una fiamma divina (8,6). Da questo punto di vista siamo di fronte a un testo biblico che potrebbe essere davvero una fonte di ispirazione per la vita di coppia, se gli si lasciasse la possibilità di mettere in questione gli stereotipi di genere e le precomprensioni radicate nella tradizione e nella cultura contemporanea che si millanta come anti-tradizionale.
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