Photocopier

di Wregas Banuteja
Indonesia 2021, Netflix, 130 min., drammatico
Scheda di: 
Fascicolo: giugno-luglio 2022

Perché accade che la vittima di un abuso sessuale non venga creduta? Accade perché esiste un sistema sociale, organizzato in modo tale che non le si presti credito. Photocopier, opera prima, pluripremiata in patria, dell’indonesiano Wregas Bhanuteja, aiuta a riflettere su questo concetto e sulle disuguaglianze di classe e di genere che gravano sulla giustizia.

Suryani è una studentessa universitaria di Giacarta, proveniente da una famiglia modesta e radicata nella morale islamica tradizionale. Durante una festa con coetanei di condizione più agiata e più disinvolti di lei, beve alcolici – si intuisce, per la prima volta – e si risveglia la mattina dopo nel proprio letto; non ricorda nulla ma scopre di essere stata riportata a casa nel cuore della notte da uno sconosciuto, svenuta, dando scandalo in tutto il vicinato e che alcune foto che la ritraggono ubriaca sono già irrimediabilmente comparse sul suo profilo social. Le conseguenze sono drammatiche: privata dell’indispensabile borsa di studio e messa alla porta dal padre, ripara a casa di un amico, che gestisce un negozio di fotocopie, un luogo buio e soffocante che diventa il centro nevralgico della storia. Qui, sfruttando le proprie competenze informatiche, Suryani inizia un percorso a ritroso per ricostruire gli eventi della serata, fino a scoprire che forse non si è trattato di una sbornia: forse è stata drogata, forse è stata vittima di un’aggressione sessuale, forse altri studenti, ragazzi e ragazze, hanno subito la stessa sorte. Ma la ricerca della verità si scontra con un muro di omertà e pregiudizi: per la famiglia, per le autorità universitarie, Suryani è già colpevole per avere bevuto a una festa e i mezzi economici del suo presunto molestatore sono sufficienti per impedire ogni indagine.

La storia si snoda in ambienti claustrofobici, densi di fumo di sigaretta e dove lampeggia continuamente la luce verde della fotocopiatrice, simbolo di qualcosa che vuole essere moltiplicato, divulgato, ma che viene sistematicamente soffocato e ricacciato nell’ombra. Non a caso i giovani, prima per scherzo, poi con intento di denuncia, fotocopiano parti del proprio corpo, volendo così rendere pubblico qualcosa che dovrebbe essere unico e privato, ma che non lo è più, dal momento che ha subito violenza ed è stato così, in qualche modo, espropriato. Fanno da contraltare le riprese esterne, nelle quali le squadre di disinfestazione spargono nelle strade fumi atti a contrastare l’epidemia di dengue, mentre un altoparlante informa la popolazione che l’operazione serve a «drenare, coprire e seppellire» il virus; la metafora è fin troppo evidente e allude a un male endemico, che viene coperto senza essere eliminato.

Il film non è esente da limiti: soprattutto nel finale, il regista si fa prendere la mano dal climax poliziesco e introduce un paio di sequenze, completamente fuori luogo. Tuttavia, Photocopier è apprezzabile per l’efficacia con cui svela i meccanismi del cosiddetto victim blaming, cioè la colpevolizzazione della vittima, e l’insieme di condizionamenti sociali che rendono difficile la denuncia degli abusi. Se il pubblico italiano deve tenere conto anche della distanza culturale dal contesto di origine del film, alcune dinamiche legate alla violenza e alla sua copertura omertosa appaiono familiari anche a noi e aiutano a porsi davanti a questi fenomeni assumendo la prospettiva più importante, quella delle vittime.

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