«La pace non è soltanto assenza di guerra, ma una condizione generale nella quale la persona umana è in armonia con se stessa, in armonia con la natura e in armonia con gli altri», con queste parole papa Francesco si rivolgeva ai fedeli riuniti in piazza San Pietro qualche anno fa (Angelus del 4 gennaio 2015), invitando con forza a impegnarsi a costruire la pace, cessando di alimentare i conflitti o di rifugiarsi in un silenzio complice di fronte alle ingiustizie. D’altronde, l’anelito per la pace da sempre accompagna l’umanità e non è certo meno pressante oggi. E anche se in Italia, a differenza di tante altre regioni del mondo, non viviamo da decenni situazioni di guerra, il desiderio di pace non è certo meno forte di fronte alle contrapposizioni che dividono il Paese, agli episodi di violenza dalle diverse matrici, ai piccoli e grandi soprusi. Per resistere alla tentazione di ritenere la pace impossibile, una mera utopia, ci è di aiuto la Bibbia, in particolare i testi profetici, che più volte si misurano in modo concreto su che cosa sia la pace e come poterla costruire.
La pace non c’è: profezia e menzogna
Un primo aspetto su cui la profezia ci invita a riflettere è la facilità con cui si dà credito alla presenza della pace, ovvero si tende ad affermare che tutto va bene, che non ci sono problemi, che le cose sono esattamente come dovrebbero essere. Questo appare molto rassicurante ed esime da ogni sforzo per operare cambiamenti.
I testi profetici ci attestano più volte di questa tendenza a dire che tutto funziona perfettamente, come ad esempio Geremia 6,13-15. Le parole riportate dal profeta sono pronunciate in un contesto drammatico. La distruzione di Gerusalemme è ormai prossima e Geremia dichiara che presto la sventura si abbatterà dal Settentrione (Geremia 6,1), indicando la direzione da cui arrivavano gli eserciti nemici. In tutti i modi il profeta afferma, in nome del Signore, che Gerusalemme è in questa situazione a causa dei suoi peccati: Come fluisce l’acqua da una sorgente, così da essa scorre l’iniquità. Violenza e oppressione vi risuonano, dinanzi a me stanno sempre dolori e piaghe (v. 7). Il peccato di Gerusalemme è di natura sociale: violenza e oppressione riguardano la relazione con il fratello, ma è toccata in modo diretto anche la relazione con Dio (dinanzi a me, dice il Signore).
Un appello di conversione è rivolto al popolo, ma il profeta indica due elementi problematici, che costituiscono un ostacolo. Il primo è la mancanza di ascolto della Parola di Dio: A chi parlerò, chi scongiurerò perché mi ascolti? Il loro orecchio non è circonciso, non sono capaci di prestare attenzione. La parola del Signore è per loro oggetto di scherno, non ne vogliono sapere (lett. “non si compiacciono in essa”, Geremia 6,10). Il Signore cerca qualcuno con cui parlare, che davvero ascolti, ma non c’è. Per questo la sua Parola suona per loro come qualcosa di cui prendersi gioco (oggetto di scherno) e in cui non trovano alcun piacere.
Il secondo limite è l’incapacità di riconoscere la difficoltà del momento presente. La presunzione che ci sia già la pace è come un muro, che impedisce a Dio di operare nella vita del credente e nella società. Il testo attribuisce una particolare responsabilità ai capi: dal piccolo al grande e dal profeta al sacerdote, per indicare quanti dovrebbero curarsi del buon andamento della vita religiosa della comunità (vv. 13-14). Si parla di frodi, di azioni ingannevoli, di falsità. C’è una ferita grave, ma non è presa in seria considerazione ed è curata alla leggera. Questo impedisce ogni reale cambiamento. Geremia conclude: «Dovrebbero vergognarsi dei loro atti abominevoli, ma non si vergognano affatto, non sanno neppure arrossire. Per questo cadranno vittime come gli altri, nell’ora in cui li visiterò crolleranno», dice il Signore (v. 15).
Il primo aspetto su cui la profezia ci rende attenti è a scrutare se dietro l’apparenza di una situazione tranquilla vi sia davvero la pace. In altri termini, non viviamo in un mondo irenico, dove tutto funziona in maniera perfetta. Per questo chi dichiara una pace a buon mercato è un bugiardo. Potremmo tradurre per noi: la pace non è il dato di partenza, né nella relazione con gli altri né nella nostra relazione con Dio.
L’invito dei profeti a non dare per scontata la presenza della pace serve a mettere in cammino chi ascolta, per ripartire in modo serio alla ricerca di una pace possibile. Il tema compare spesso nel contesto delle visioni, solo in Isaia ne troviamo otto, distribuite lungo tutto il libro (2,1-5; 8,23 - 9,6; 11,1-9; 32,1-20; 35,1-10; 55,1-13; 60,17-22 e 65,17-25). Tutte le visioni di pace presenti nel Proto-Isaia (cioè quelle fino al capitolo 39) mostrano un passaggio dal giudizio severo alla speranza-pace. Tale passaggio è repentino e, da un certo punto di vista, del tutto ingiustificato. Per coglierne il senso ci soffermiamo sulla prima visione (2,1-5), mettendola in relazione con Isaia 1, in cui Dio litiga con il suo popolo perché quest’ultimo possa ritrovare la strada buona e, subito dopo, compare uno straordinario, “ingiustificato” annuncio di pace. Un accostamento suggerito anche dall’autore biblico, che ha posto due inizi praticamente identici in Isaia 1,1 e 2,1.
Lavorare per la giustizia
Il primo capitolo di Isaia si presenta come un testo programmatico che, con grande forza, pone in primo piano la questione della giustizia ed è formato da due rîb consecutivi, cioè quella modalità narrata dalla Bibbia in cui due parti in lite si confrontano direttamente, senza la presenza di un terzo come arbitro.
Il primo rîb, composto da una parte punitiva (vv. 2-9) e una propositiva (vv. 10-20), si apre con l’accusa che il Signore rivolge al suo popolo, paragonandolo a dei figli ribelli e insensati, stolti (vv. 2-4). Segue la descrizione (vv. 5-7) delle conseguenze disastrose del peccato (perché il peccato è male e fa male, distrugge, devasta). Quindi compare il tema del resto che comunque Dio conserva in vita (vv. 8-9), segno della sua misericordia, non dovuta, gratuita.
Il v. 10 contiene l’invito forte e solenne ad ascoltare, che segnala l’importanza di quello che Dio sta per dire e i vv. 11-15 mettono in luce quello che viene chiamato “rifiuto dei sacrifici”, che va ben compreso, perché non si tratta di un rifiuto generale né generico. Innanzitutto si specifica l’identità degli ascoltatori – capi di Sodoma, popolo di Gomorra – e capiamo che il problema è il peccato, visto che si menzionano proprio queste due città. Si afferma poi che i sacrifici sono inutili, vani (v. 13) e se ne offre la ragione: non posso sopportare delitto e solennità. Il v. 15 ulteriormente precisa: le vostre mani grondano sangue. Il testo poetico gioca a un doppio livello: le mani di chi offre un sacrificio sono ovviamente macchiate di sangue a motivo del sacrificio stesso, ma quello che qui si vuol dire è che, dietro il sangue “ovvio” dell’animale offerto, ce n’è anche dell’altro nascosto, occulto, ovvero quello delle vittime delle ingiustizie perpetrate da questi capi corrotti.
Eppure Dio chiama a fare la pace. Nei vv. 16-17 troviamo un invito esplicito a cambiare il proprio comportamento, ad affrontare un processo di purificazione, ad adottare un nuovo modo di vivere, secondo giustizia. Si chiede innanzitutto di imparare a fare il bene. La Bibbia è straordinariamente realista e profondamente conoscitrice della realtà dell’essere umano. Sa che il bene non è un dato, non è qualcosa che si fa in maniera spontanea, ma dev’essere appreso e richiede esercizio. Per arrivare a fare il bene, bisogna quindi cercare il diritto, la giustizia. Anche qui non è qualcosa di acquisito. Dal verbo ebraico impiegato (darash) proviene la parola midrash, cioè la ricerca appassionata e intelligente di modalità creative per comprendere e interpretare la Scrittura: la giustizia non si ottiene senza ricerca intelligente.
Più in concreto sono date alcune indicazioni pratiche: soccorrete l’oppresso, rendete giustizia all’orfano, difendete la causa della vedova. Nella Scrittura il giusto rapporto con Dio non è mai separato dal giusto comportamento con il fratello, in particolare il più debole. L’essere umano agisce secondo vera giustizia quando il suo comportamento è improntato alla cura nei riguardi delle categorie fragili, strutturalmente prive di difesa. Vivendo in modo adeguato il rapporto con l’altro si costruisce un mondo all’insegna della giustizia e, quindi, si prepara il terreno per una pace autentica. Perché senza giustizia la pace non sarà possibile!
Nei vv. 18-20 vi è l’ultimo appello. Se prima il Signore dichiarava inutile il presentarsi di fronte a Lui con mani macchiate di sangue, adesso invita il popolo a venire e a discutere con Lui, offrendo una nuova possibilità. Dio non si arrende e propone un incontro nuovo e rigenerante, che cambi dall’interno quello che l’essere umano da solo non può cambiare. È necessario attingere all’esperienza del perdono perché il male fatto resta, con le sue conseguenze. Il Signore promette allora che il peccato, rosso scarlatto, diventerà bianco come la neve e come la lana: Dio farà questo. I vv. 19-20 propongono inoltre l’alternativa tra la docilità e la ribellione. Le conseguenze previste sono quelle tipiche delle conclusioni dei trattati di alleanza: a chi fa il bene è promesso il bene, a chi fa il male è minacciata la spada divorante. Un modo per dire che il futuro del popolo non dipende dalla volontà di Dio (come invece si tenterà di dire nel momento della difficoltà), ma dalla libera decisione di Israele.
Bellissimo è che questa offerta sia rivolta ai capi di Sodoma, popolo di Gomorra quando l’alleanza è stata ampiamente tradita. Il futuro di salvezza non è promesso a giusti irreprensibili, ma a peccatori che sono scampati alla collera. Entrare in questo percorso e accettare la nuova offerta di perdono è la collaborazione minima che all’essere umano è domandata.
Nessuno, però, risponde all’offerta del Signore, che non può far nulla senza l’assenso dell’essere umano, anche in una forma del tutto minima. Di fronte a questa resistenza al cambiamento, Dio non si ferma, ma rilancia. La seconda parte di Isaia 1 contiene un nuovo testo di accusa e di promessa, in cui in modo ancora più esplicito si mette a tema la questione della giustizia. Nei vv. 21-23 vi sono altre accuse ed è usata l’immagine offensiva della prostituzione, per provocare qualche reazione, a cui segue l’annuncio di quanto il Signore intende fare: una grande purificazione (vv. 24-26). Dio lavora per un ritorno all’origine buona, ma non accadrà senza perdere qualcosa, senza accettare un dolore, una morte, una separazione: qualcuno entrerà in questo processo, mentre altri si autoescluderanno.
Scrive Willem Beuken: «La vera domanda non è se ci sia o meno la possibilità di sfuggire al giudizio, ma se il giudizio condurrà o meno a una trasformazione degli abitanti di Sion» (Beuken W.A.M., «The Literary Emergence of Zion as a City in the first Opening of the Book of Isaiah [1,1-2,5]», in Witte M. (ed.), Gott und Mensch im Dialog. Festschrift für Otto Kaiser zum 80 Geburtstag, De Gruyter, Berlino 2004, 464). Insomma, il cambiamento non è automatico né “miracoloso”: di fronte all’ingiustizia Dio agisce, propone, ricomincia, insegue, promette, purifica, castiga, richiama, ecc. Ma è solo se la persona acconsente che avvenga qualcosa di nuovo: a essa è affidata la responsabilità della giustizia.
Alla fine di Isaia 1 abbiamo questa situazione: alcuni si lasciano purificare e altri persistono nella ribellione. Grazie ai primi, Dio può cambiare nome alla città: Dopo questo sarai chiamata “Città della giustizia”, “Città fedele”. Un principio di giustizia crea la possibilità della novità per tutta la città, per tutto Israele.
In cammino verso la pace
Con Isaia 2,1 si ha un nuovo inizio, come se il libro intero ricominciasse, come se, già dal secondo capitolo, fosse chiaro che ci vuole un nuovo inizio anche nella relazione con Dio. La prospettiva, infatti, cambia in maniera piuttosto profonda. Siamo sempre a Gerusalemme, anzi, addirittura sul monte del tempio (al centro del centro), ma ci siamo spostati be’aḥārît hayyāmîm, un’espressione difficile da tradurre perché può significare «nel succedersi dei giorni, nel seguito dei giorni» oppure «alla fine dei giorni», con un senso escatologico.
Dopo la purificazione parziale di Gerusalemme in Isaia 1, si ha un allargamento di prospettiva a due livelli: il tempo in cui si realizza l’opera di Dio e i suoi destinatari. Rispetto al tempo, ci troviamo in un momento futuro non precisato, dopo la purificazione, quando Gerusalemme godrà di una nuova stabilità. Il monte è ben saldo e stabilito in una posizione di superiorità, maggiormente elevato, destinato a divenire luogo particolarmente significativo e di riferimento. Rispetto ai destinatari, ci sarà spazio per tutte le genti. Non sarà necessario fare alcun tipo di proclama o ricorrere a forme di proselitismo, perché saranno i popoli stessi a decidere di mettersi in cammino e ad auto-incitarsi per intraprendere questo pellegrinaggio: Venite, saliamo... Si incamminano verso Gerusalemme per ricevere un insegnamento dal Dio di Giacobbe. Il v. 3 utilizza due volte la radice yarah, prima come verbo (perché ci istruisca) e poi come sostantivo (si parla infatti di torah). Nella nostra traduzione troviamo “legge”, ma la torah è in realtà molto di più: è legge, ma insieme è insegnamento, istruzione, direttiva per la vita. Una volta ricevuto l’insegnamento esso viene attuato, in quanto si cammina nei suoi sentieri.
I commentatori vedono una stretta connessione tra questo testo e quello che era stato chiesto in Isaia 1,10: Ascoltate la parola del Signore... prestate orecchio alla torah del nostro Dio... Si utilizzano le medesime espressioni, non più rivolte a persone che non vogliono obbedire al Signore, ma a popoli stranieri che aderiscono spontaneamente alla Parola di Dio. Difficile immaginare un ribaltamento più completo. In Isaia 1 si era inoltre parlato di gravi carenze nel rendere giustizia (v. 23) e di una purificazione che avrebbe permesso ai giudici di ritornare alle loro mansioni in modo appropriato (v. 26), per concludere con un riscatto di Sion in termini di diritto (v. 27). In questa nuova situazione che coinvolge tutti i popoli, il Signore stesso assume la funzione di giudice e di arbitro, completamente equo. Allora si può vivere un disarmo totale e a questo punto la pace è possibile! Il Signore è garante della possibilità della pace perché le sue leggi/istruzioni creano le condizioni per un comportamento fraterno, all’insegna della giustizia: obbedire ai suoi comandi significa vivere nella giustizia e, quindi, far sgorgare la pace. Le armi cessano di essere necessarie. Per questo, non vengono solo provvisoriamente accantonate, ma definitivamente distrutte e convertite in qualcosa di utile come gli strumenti agricoli, per produrre vita anziché morte.
La pace – lo sappiamo per esperienza quotidiana – non è un dato scontato. Il primo passo, ci dicono i profeti, è fare verità e vedere a che punto siamo; ognuno probabilmente troverà qualche “zona di guerra” nel suo cuore e nei suoi rapporti. Il secondo passo è mettere in cantiere un cammino verso la giustizia, verso il bene (da imparare), ricordando che non potrà esserci pace autentica là dove le mani grondano sangue (Isaia 1,15), sotto varie forme. Infine, Isaia 2 descrive l’adesione di tutti a un insegnamento che promuove la vita. Se accettiamo come giudice Colui che è sommamente giusto, sarà allora possibile uscire dalla paura dell’altro, deporre le armi e costruire un luogo dove tutti i popoli possono vivere insieme. Non si tratta di qualcosa di semplice, ma nemmeno di totalmente utopico, altrimenti la Parola di Dio sarebbe solo un inganno. Isaia 2,5 si chiude così: Casa di Giacobbe, venite, camminiamo nella luce del Signore. La via della pace, secondo i profeti, ha molto a che fare con questa luce che illumina i passi dell’umanità; percorrerla significa assumere in prima persona una responsabilità, mettendo il nostro impegno e le nostre energie perché essa possa splendere senza che noi siamo di ostacolo.