Ospitalità

Fascicolo: dicembre 2012

L’ospitalità è una delle più antiche e diffuse forme di virtù sociale dell’umanità. Da sempre la migrazione e la necessità di spostamenti delle persone che accomunano ogni cultura e civiltà richiedono l’accoglienza da parte di coloro che già vivevano in un determinato territorio. Le radici di questa virtù sono certamente da ricercare nell’obbligo all’aiuto reciproco, specie in considerazione che la necessità di essere accolto è esperienza che prima o poi chiunque si trova a fare. Così per garantire che chi ne ha bisogno possa trovare accoglienza, ogni religione e sapienza umana ha sempre posto l’ospitalità come un obbligo sacro. Presso tutte le culture, il venire meno ai sacri dettami dell’ospitalità rituale comportava sanzioni divine, oltre che umane.
È quindi degno di nota il fatto che nell’Antico Testamento non si trovi nessun comandamento al riguardo, e che l’ospitalità non fa parte delle virtù per le quali sia prevista una speciale benedizione (o maledizione nel caso di trasgressione dell’obbligo dell’accoglienza). Anzi, a differenza di molte lingue antiche, l’ebraico non sembra conoscere neppure una parola per denominare l’ospitalità, tanto che, quando ne avrà bisogno, la letteratura rabbinica conierà un termine a partire dal greco. Eppure proprio all’ospitalità e all’accoglienza (perché ci sia ospitalità occorre essere capaci di accoglienza, ecco perché i due termini in questo articolo saranno spesso usati come sinonimi) sono legate molte storie bibliche. I patriarchi prima e l’intero popolo poi si presentano originariamente come “stranieri” che possono vivere solo se “accolti” da altri. La vicenda di Abramo, il padre per eccellenza di Israele, ne è paradigma essenziale.

Abramo, l’ospitato che ospita
Abramo, colui che è uscito dalla sua terra per andare in un luogo che Dio gli avrebbe indicato (cfr Genesi 12, 1), viene presentato come un viaggiatore che deve essere accolto da re, principi e popoli per poter vivere, finché si stabilirà presso le Querce di Mamre (13, 18), luogo tradizionalmente collocato nella zona dell’attuale Hebron. Il popolo di Israele sarà chiamato a riconoscersi in questa icona del viaggiatore forestiero, come bene esprime la sua confessione di fede, che comprime in un sola frase tutta la vicenda storica da Abramo a Mosè con queste parole: Mio padre era un Arameo errante; scese in Egitto, vi stette come un forestiero con poca gente e vi diventò una nazione grande, forte e numerosa (Deuteronomio 26, 5). Così l’arameo errante è ora chiamato a mostrare la sua ospitalità per avere la benedizione della discendenza.

Genesi 18, 1-10
1Poi il Signore apparve a lui alle Querce di Mamre, mentre egli sedeva all’ingresso della tenda nell’ora più calda del giorno. 2 Egli alzò gli occhi e vide che tre uomini stavano in piedi presso di lui. Appena li vide, corse loro incontro dall’ingresso della tenda e si prostrò fino a terra, 3 dicendo: «Mio signore, se ho trovato grazia ai tuoi occhi, non passare oltre senza fermarti dal tuo servo. 4 Si vada a prendere un po’ d’acqua, lavatevi i piedi e accomodatevi sotto l’albero. 5 Andrò a prendere un boccone di pane e ristoratevi; dopo potrete proseguire, perché è ben per questo che voi siete passati dal vostro servo». Quelli dissero: «Fa’ pure come hai detto». 6 Allora Abramo andò in fretta nella tenda, da Sara, e disse: «Presto, tre sea di fior di farina, impastala e fanne focacce». 7 All’armento corse lui stesso, Abramo; prese un vitello tenero e buono e lo diede al servo, che si affrettò a prepararlo. 8 Prese panna e latte fresco insieme con il vitello, che aveva preparato, e li porse loro. Così, mentre egli stava in piedi presso di loro sotto l’albero, quelli mangiarono. 9 Poi gli dissero: «Dov’è Sara, tua moglie?». Rispose: «È là nella tenda». 10 Riprese: «Tornerò da te fra un anno a questa data e allora Sara, tua moglie, avrà un figlio».

Il racconto dipinge l’ospitalità tipica del nomade (si dice che Abramo vive in una tenda, anche se già dal cap. 13 sappiamo che il luogo è divenuto la sua dimora stabile), che avvolge di ritualità ogni gesto per poter mettere a proprio agio i viandanti. Così Abramo non chiede i loro nomi: secondo gli antichi canoni il “nome” dell’ospite, ovvero la sua etnia, la sua tribù, la sua posizione nella rete sociale, ecc., poteva essere chiesto solo dopo che egli si fosse nutrito e riposato, così da non “inquinare” l’accoglienza con considerazioni di altro genere. Anche le parole di Abramo esprimono i canoni della cortesia e della finta umiltà tipicamente orientali. Quello che viene offerto come un po’ d’acqua e un boccone di pane si rivela essere: focacce per circa 30 chili  di farina (ogni sea corrisponde a circa 7 litri, quindi qui l’equivalente di circa 10 kg di farina), un vitello tenero e buono, panna e latte fresco! Questo slancio nell’accoglienza è assolutamente gratuito: il testo, che pure avverte che è il Signore a presentarsi ad Abramo, ci dice anche qual è la sua percezione immediata: egli alzò gli occhi e vide che tre uomini stavano in piedi presso di lui (v. 2). Addirittura la lettura successiva dei rabbini modifica lievemente ma significativamente il testo: Dio apparirebbe ad Abramo subito dopo i tre angeli e si sente dire da Abramo, che sta correndo a prendere il vitello, di aspettare lì e di non andare via perché non può badare a lui (a Dio!) senza aver prima adempiuto al suo dovere di ospitalità nei confronti dei tre viandanti (Abot R.N. 7; si ricordi che secondo altri testi rabbinici Abramo è il fondatore degli alberghi e delle locande: Gen. Rab. 39, 14).
Questa capacità di ospitalità permetterà alla promessa della discendenza di Abramo e Sara di diventare una realtà. Per comprendere la portata di questa promessa di vita, occorre ricordare che Abramo e Sara sono ormai anziani. La prospettiva di una possibile generatività risulta quindi completamente al di fuori delle energie umane della coppia. Rimanendo cioè all’interno di ciò che è possibile a questi due vecchi, nell’orizzonte del noto e del prevedibile non si può immaginare alcuna apertura alla vita e al futuro. 
Ecco perché è importante la connessione tra l’ospitalità capace di accogliere e la generatività che questo testo propone. Accogliere significa infatti fare spazio all’inatteso, che si tratti della diversità dell’altra persona (come i tre viandanti che si materializzano davanti ad Abramo senza essersi preannunciati) o di un evento che muta la propria vita. Il “fare posto” apre ad Abramo – e come proposta, a ogni lettore del testo – la possibilità di una vita “nuova”, proprio perché non prevedibile e inattesa. L’episodio alle querce di Mamre propone al popolo di Israele e a ogni lettore del testo che la chiave di ogni possibile generatività è l’accoglienza. Non è quindi un caso che proprio questo aspetto sarà sottolineato con forza nel messaggio evangelico e neotestamentario.

Accogliere: fare spazio
L’ospitalità richiede ben di più che permettere l’esistenza dell’altro. Certamente, è già un grande passo di umanità la concessione che l’altro possa esistere nella sua alterità e diversità, “accanto” a me. Tuttavia ben diverso è l’atteggiamento necessario per fargli spazio e permettergli di entrare dentro la “mia casa”. È particolarmente significativo che una delle cifre della relazione dell’umanità con Dio in Gesù Cristo sia proprio la categoria dell’ospitalità: dinanzi a un Dio che si fa presenza nella vita del mondo, l’atteggiamento da assumere non può che essere quello dell’accoglienza. Non è un caso che l’ultima immagine di Dio che il Nuovo Testamento ci offre sia proprio quella di qualcuno che promette di arrivare (cfr Apocalisse 22, 20) e, in questo, assume la condizione di chi bussa alla porta attendendo che gli venga aperta: Ecco: sto alla porta e busso. Se qualcuno ascolta la mia voce e mi apre la porta, io verrò da lui, cenerò con lui ed egli con me (Apocalisse 3, 20). Anche il Vangelo di Giovanni esprime il mistero dell’incarnazione con le stesse categorie: Veniva nel mondo la luce vera, quella che illumina ogni uomo. Era nel mondo e il mondo è stato fatto per mezzo di lui; eppure il mondo non lo ha riconosciuto. Venne fra i suoi, e i suoi non lo hanno accolto. A quanti però lo hanno accolto ha dato potere di diventare figli di Dio: a quelli che credono nel suo nome […] E il Verbo si fece carne e venne ad abitare in mezzo a noi (Giovanni 1, 9-14).
Così, se relazionarsi a Dio è innanzi tutto accoglierlo, fargli spazio, non meraviglia che lo stesso atteggiamento sia richiesto anche nei confronti delle altre persone, addirittura riconoscendo loro una qualità divina. Accogliere qualcuno è fondamentalmente accogliere Dio, e non ospitare chi bussa alla nostra porta viene paragonato al non ospitare Dio stesso. Vari sono i brani che esprimono questo principio fondamentale, spesso ricordando proprio l’esperienza di Abramo a Mamre: Non dimenticate l’ospitalità; alcuni, praticandola, senza saperlo hanno accolto degli angeli (Ebrei 13, 2); ero straniero e mi avete accolto (Matteo 25, 35; cfr anche i vv. 38.40.43-45).

C’è un episodio evangelico che in modo particolare rende ragione della necessità dell’accoglienza e riflette sul dinamismo caratteristico della disponibilità a fare spazio: si tratta dell’ospitalità che le due sorelle Marta e Maria offrono a Gesù così come è descritta nel Vangelo di Luca.

Luca 10, 38-42
38Mentre erano in cammino, entrò in un villaggio e una donna, di nome Marta, lo ospitò. 39 Ella aveva una sorella, di nome Maria, la quale, seduta ai piedi del Signore, ascoltava la sua parola. 40 Marta invece era distolta per i molti servizi. Allora si fece avanti e disse: «Signore, non t’importa nulla che mia sorella mi abbia lasciata sola a servire? Dille dunque che mi aiuti». 41 Ma il Signore le rispose: «Marta, Marta, tu ti affanni e ti agiti per molte cose, 42 ma di una cosa sola c’è bisogno. Maria ha scelto la parte migliore, che non le sarà tolta»

Apparentemente l’ospitalità di Marta (solo lei è nominata nel v. 38 come colei che ospita Gesù!) segue tutti i criteri di quella messa in pratica da Abramo, vista sopra. C’è lo stesso darsi da fare frenetico per servire (Genesi 18, 5: … il vostro servo; Luca 10, 40: … a servire) e mentre tutti aiutano Abramo a preparare il cibo, qui Marta rimane sola a farlo. In realtà la differenza fondamentale tra i due è proprio la capacità di fare spazio all’altro nella sua diversità, che si tratti dell’ospite o della sorella, senza cercare di assorbirlo nei propri doveri, nella propria impostazione di vita o visione del mondo. Se di primo acchito siamo portati ad accomunare Abramo e Marta, il testo ci svela invece che l’atteggiamento profondo del patriarca è più vicino a quello di Maria: come quest’ultima seduta ai piedi del Signore, ascoltava la sua parola (Luca 10, 39), Abramo, mentre i tre viandanti mangiano, stava in piedi presso di loro sotto l’albero (Genesi 18, 8). Abramo non impone ai tre viandanti neppure la propria modalità “culturale” di mangiare, come sarebbe accaduto se li avesse invitati alla propria tavola: prepara il cibo e lascia tutta la libertà ai suoi ospiti. In questa area di convivenza libera avviene il dialogo che immette la novità vitale nella vicenda di Abramo. Egli sarà capace di ascolto e di accoglienza di questa “parola” (che si farà carne nel figlio Isacco) – così come lo dovrà essere Sara sua moglie nei versetti che seguono – proprio perché è stato capace di fare spazio ai suoi ospiti. Lo stesso fa Maria nei confronti di Gesù. Per lei come per Abramo accogliere vuol dire porre a se stessi un limite aprendo all’altro uno spazio. Per entrambi la parte migliore diventa possibile soltanto a questa condizione. Ed è una parte che occorre scegliere, proprio perché coinvolge un atteggiamento di radicale disponibilità nei confronti dell’“altro” che si presenta come portatore di una diversità. Accoglierla o rifiutarla diventa la discriminante tra l’inizio di una nuova vita e una lenta ma inesorabile morte (quale quella di Marta sotto il peso delle incombenze domestiche).

L’ospitalità accogliente come funzione sociale
Queste considerazioni permettono di allargare lo sguardo da atteggiamenti individuali più o meno virtuosi a quello che potremmo definire un vero e proprio stile sociale. Sappiamo bene dalla storia come la vitalità e la longevità di una civiltà (di una cultura, di un “impero”) siano direttamente proporzionali alla sua capacità di accogliere popolazioni differenti, facendo loro spazio sia fisicamente sia culturalmente. Quando invece l’atteggiamento diviene ossessivamente difensivo e la società si organizza secondo il detto latino «hospes hostis» (ovvero ogni straniero è nemico), si assiste a un veloce e inesorabile degrado che finisce per travolgere anche chi pensava di difendersi da un pericolo e garantirsi la sopravvivenza. La parabola dell’antica Roma è paradigmatica di una dinamica che ha accomunato, pur in epoche e situazioni quanto mai differenziate, tutti i grandi imperi dell’umanità.
Come società occidentali in un tempo di crisi ci troviamo di fronte alla stessa sfida. Da una parte ci sentiamo sotto assedio delle molte (troppe?) diversità culturali, religiose, etiche, economiche; dall’altra, in particolare in Italia, sembriamo aver smarrito la capacità di rinnovarci, di generare il nuovo. Siamo un po’ come Abramo, seduti con il fiato corto nell’ora più calda del giorno (che in un clima desertico è un momento critico). Solo l’inattesa irruzione di qualcun altro può rimetterci in piedi e in movimento.
Immediato pensare che questo “altro” possano essere i tanti “forestieri” che vivono accanto a noi senza aver ancora incontrato un’accoglienza compiuta, dagli abitanti delle molte Chinatown ai richiedenti asilo ospitati in Centri di accoglienza che spesso si trasformano in luoghi di quasi detenzione (Cfr Peri C., «Difficili mediazioni. Una ricerca-azione sugli insediamenti spontanei di rifugiati», in Aggiornamenti Sociali 11 [2012] 784-791). Colpiscono a questo proposito le parole di José Angel Oropeza, uno dei dirigenti dell’Organizzazione internazionale per le migrazioni: «Nonostante il periodo di crisi, nessuno può negare il contributo che gli immigrati hanno dato e danno all’Italia e allo sviluppo del Paese. D’altronde la migrazione è un fenomeno epocale che riguarda tutto il mondo e di fronte al quale è necessario che i governi scelgano cosa fare: adottare una politica di chiusura o, come suggeriamo noi, promuovere invece una politica di apertura, riconoscendo il ruolo delle migrazioni come parte integrante dell’economia mondiale e i migranti come componenti essenziali per la piena ripresa dalla crisi economica contemporanea» (a margine della presentazione del Rapporto Annuale sull’Economia dell’Immigrazione 2012, Fondazione Leone Moressa, 11 ottobre 2012, in <www.fondazioneleonemoressa.org/newsite/2012/10/4246>).
Ma la questione non riguarda evidentemente soltanto immigrati e stranieri. In una società dove cresce la frammentazione e la disuguaglianza, quale accoglienza trovano i sempre più numerosi disoccupati presso le fasce più protette della popolazione? O precari ed esodati da parte di chi ha un posto di lavoro regolare? In quale senso possiamo dire che le case di riposo sono luoghi di accoglienza (e non di “rifiuto”) per i nostri anziani?

Solo un ripensamento radicale dell’atteggiamento di fronte al diverso e delle pratiche di accoglienza da parte della nostra società può darci la chiave che dischiude una promessa di vita che sia al contempo culturale e sociale.
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