Occasione, non castigo!

Fascicolo: maggio 2020

Come discernere la voce di Dio nel delicato momento che stiamo attraversando? Quali sono le parole che ci rivolge, capaci di essere lampada per i nostri passi e luce sul suo cammino (cfr Salmo 119,105)? Sono tra le domande più radicali che risuonano, in modo più o meno esplicito, nel cuore dei credenti, disorientati come tutti in questi giorni di pandemia. Sono tante le risposte banali e affrettate che si levano, anche all’interno della compagine ecclesiale, contribuendo a creare confusione, paura, se non addirittura scandalo. Risposte che rischiano perfino di distorcere l’immagine di Dio, presentandolo come vendicativo e assetato di punizioni: niente di più lontano dall’identità del Dio biblico, rivelata in Gesù e nella sua Pasqua.

Nondimeno, si riaffaccia una domanda antica: perché Dio “permette” il male? La Sacra Scrittura non offre una risposta teorica, ma narra alcune storie che permettono di confrontarci con il mistero del male in una prospettiva di fede. Una suggestiva, anche se poco conosciuta, icona biblica è la guarigione prodigiosa del re Ezechia, raccontata in Isaia 38.

Isaia 38,1-8

1
In quei giorni Ezechia si ammalò mortalmente. Il profeta Isaia, figlio di Amoz, si recò da lui e gli disse: «Così dice il Signore: “Da’ disposizioni per la tua casa, perché tu morirai e non vivrai”». 2 Ezechia allora voltò la faccia verso la parete e pregò il Signore 3 dicendo: «Signore, ricòrdati che ho camminato davanti a te con fedeltà e con cuore integro e ho compiuto ciò che è buono ai tuoi occhi». Ed Ezechia fece un gran pianto. 4 Allora la parola del Signore fu rivolta a Isaia dicendo: 5 «Va’ e riferisci a Ezechia: “Così dice il Signore, Dio di Davide, tuo padre: Ho udito la tua preghiera e ho visto le tue lacrime; ecco, io aggiungerò ai tuoi giorni quindici anni. 6 Libererò te e questa città dalla mano del re d’Assiria; proteggerò questa città”. 7 Da parte del Signore questo ti sia come segno che il Signore manterrà questa promessa che ti ha fatto. 8 Ecco, io faccio tornare indietro di dieci gradi l’ombra sulla meridiana, che è già scesa con il sole sull’orologio di Acaz». E il sole retrocesse di dieci gradi sulla scala che aveva disceso.

 

Malattia e reazione di fede di Ezechia

Il grande sovrano di Giuda (sul trono dal 715 al 687 a.C.), celebre per le sue coraggiose riforme in campo religioso (cfr 2Re 18,3-7a; 2Cronache 31,1), cade vittima di una violenta malattia, la cui natura e le cui cause restano inespresse. Sembra che il libro di Isaia, ponendo il racconto in connessione narrativa con i capitoli precedenti sull’invasione assira (capp. 36-37), faccia della malattia del sovrano una rappresentazione della situazione di Gerusalemme e dei suoi abitanti. Come nella malattia mortale di Ezechia è personificata quella dell’intera nazione, così nella sua guarigione – come precisato in modo esplicito nel v. 6 – “prende corpo” quella del Paese, la sua liberazione dalla mano del re d’Assiria.

In un primo momento, Isaia non sembra essere di grande conforto; anzi, si limita a confermare al re la gravità della patologia: Da’ disposizioni per la tua casa, perché tu morirai e non vivrai (v. 1). Nel mondo antico era comune che un malato richiedesse un oracolo divino sull’esito della propria infermità. Qui, invece, il sovrano di Giuda non domanda l’intervento del profeta, che lo visita di propria iniziativa. La comparsa di Isaia sulla scena in modo così brusco e con un messaggio così fatale stupisce il lettore, soprattutto perché manca ogni giustificazione di un annuncio tanto drastico. Si confrontino ad esempio le parole di Isaia con quelle ben motivate di Elia nei confronti di Acab dopo l’iniqua condanna a morte di Nabot (cfr 1Re 21): Così dice il Signore: «Hai assassinato e ora usurpi! […] Nel luogo ove lambirono il sangue di Nabot, i cani lambiranno anche il tuo sangue. […] tu ti sei venduto per fare ciò che è male agli occhi del Signore. Ecco, io farò venire su di te una sciagura e ti spazzerò via. Sterminerò ad Acab ogni maschio, schiavo o libero in Israele» (1Re 21,19.21).

Per Ezechia – e per il suo regno assediato – pare non esserci più speranza, ma il sovrano non si arrende e in questa condizione di angoscia rivolge a Dio la sua preghiera: Signore, ricordati che ho camminato davanti a te con fedeltà e con cuore integro, e ho compiuto ciò che è buono ai tuoi occhi (v. 3). «Ezechia si volta verso la parete della sua stanza: il gesto di un cuore affranto che si chiude al resto del mondo per entrare in intimità al cospetto di Dio con una dolente supplica. Egli ricorda i suoi meriti dinanzi al suo Signore, meriti, in formulazione deuteronomistica, che lo hanno reso un re esemplare. La supplica è accompagnata con uno scoppio di pianto» (Nobile M., 1-2Re, Paoline, Milano 2010, 439-440). La preghiera di Ezechia ha una configurazione significativa, in quanto non vi emerge né il pentimento per le proprie azioni, né la riprovazione o l’accusa nei confronti di Dio e del suo modo di agire: è una pura confessione di fede. Il sovrano implora Dio di ricordare in che modo si sia comportato nei suoi anni di governo, rispettandone sempre le disposizioni; si sottomette totalmente al suo giudizio e alla sua volontà, anche di fronte a qualcosa di difficile da accettare.

In questo modo il testo intende mostrare la grandezza morale di Ezechia, servo di Dio, buono e fedele, che non ha nulla da rimproverarsi, anche nel momento in cui si trova di fronte a una morte certa e imminente. Mostrando questa fede esemplare, il testo punta a chiarire che la liberazione del re dalla sua infermità, come quella di Giuda dall’invasione straniera, è da considerare come atto speciale di protezione da parte di Dio, consono alla grandezza altrettanto speciale di questo sovrano.

 

La promessa della guarigione

La preghiera, innalzata con fede e irrorata di lacrime, non rimane inascoltata ed è lo stesso profeta ad annunciarlo: Dice il Signore […]: Ho udito la tua preghiera e ho visto le tue lacrime; ecco io aggiungerò ai tuoi giorni quindici anni (v. 5). A livello formale, questo ulteriore intervento di Isaia si configura come “oracolo di assicurazione”: per mezzo del suo profeta Dio interviene a scacciare dal cuore del credente la paura, offrendone anche le opportune motivazioni. Dal dettato oracolare si coglie che il Signore ha apprezzato e accolto la supplica del re e, nella salvezza che si appresta a concedere, troverà conferma il legame con la dinastia davidica, di cui Ezechia è membro illuminato. Il re non è ancora stato guarito, ma ha ricevuto una solida garanzia di nuova vita, che gli consente di continuare a perseverare nel suo atteggiamento di fede. In fondo è la stessa dinamica che si ritrova nel cap. 37: l’annuncio profetico dell’affrancamento di Gerusalemme dalla minaccia assira ha la forma di una promessa (cf Isaia 37,7.29), alla quale il re e la sua città devono prestare fede in attesa di vederne il compimento (cfr Isaia 37,36-38).

Ma il pronunciamento profetico non si esaurisce qui: Libererò te e questa città dalla mano del re d’Assiria; proteggerò questa città (v. 6). Nella redenzione di Ezechia dalla potenza mortale della malattia prenderà forma anche la redenzione di Gerusalemme dalla potenza altrettanto mortale di Ninive e del suo esercito. Questa associazione fra la malattia-guarigione fisica del sovrano e la condizione per certi versi paragonabile della nazione intera non rappresenta una novità nel libro di Isaia. Infatti, già nel cap. 1 – una sorta di ouverture dell’intero scritto profetico – Isaia utilizzava il paragone con un corpo malato, ormai sulle soglie delle morte, per descrivere la situazione del regno: Tutta la testa è malata, tutto il cuore langue. Dalla pianta dei piedi alla testa non c’è nulla di sano, ma ferite e lividure e piaghe aperte, che non sono state ripulite né fasciate né curate con olio (Isaia 1,5b-6).

«Riprendendo la descrizione del cap. 37, in cui la preghiera del re aveva rovesciato quella che sembrava essere una condanna a morte per Sion, anche qui Ezechia segue l’unica via rimasta: prega (38,2). Prende posizione sulla base della sua fedeltà davanti a Dio – una cosa che la nazione non può fare! Dio ode la preghiera, come nel cap. 37, e di conseguenza viene pronunciata una nuova parola profetica: al re è accordata una promessa di nuova vita (38,5). Ma non solo questo: la preghiera del re salva anche una città che non ha precedenti di fedeltà a cui ricorrere o su cui fondare il proprio appello alla misericordia di Dio. La città viene salvata per la preghiera del re, per i suoi anni di fedele servizio e per il suo procedere davanti a Dio con cuore integro. Ciò che la città non può fare per i propri meriti, può farlo, e lo fa, il re» (Seitz C.R., Isaia 1-39, Claudiana, Torino 2012, 266).

Al fine di confermare l’affidabilità della promessa, Isaia offre al re un segno: l’ombra della meridiana solare di Acaz retrocederà di dieci gradi. Nel racconto parallelo di 2Re 20, a Ezechia è concesso di decidere in quale direzione l’ombra della meridiana debba spostarsi, e opta per il movimento più innaturale, e quindi più convincente.

2Re 20,8-11

8
Ezechia disse a Isaia: «Qual è il segno che il Signore mi guarirà […]?». 9 Isaia rispose: «Da parte del Signore questo ti sia come segno che il Signore manterrà questa promessa che ti ha fatto: vuoi che l’ombra avanzi di dieci gradi oppure che retroceda di dieci gradi?». 10 Ezechia disse: «È facile per l’ombra allungarsi di dieci gradi. Non così! L’ombra deve tornare indietro di dieci gradi». 11 Il profeta Isaia invocò il Signore che fece tornare indietro di dieci gradi l’ombra sulla meridiana, che era già scesa sull’orologio di Acaz.

È probabile che il segno debba essere interpretato proprio in relazione alla rassicurazione che Ezechia ha ricevuto. Il movimento a ritroso dell’ombra solare alluderebbe al tempo ulteriore di vita concesso al sovrano, invitato a riconoscere l’affidabilità della promessa in questo segno prodigioso. Alcuni commentatori fanno notare anche come il rimando alla meridiana di Acaz non sia casuale: quell’atto di fede, al quale il padre di Ezechia era stato a suo tempo sollecitato, ma che non aveva avuto il coraggio di compiere (cfr Isaia 7, in particolare vv. 10-17), ora è compiuto dal figlio; e grazie a questo atto di fede da parte del suo capo, tutta la nazione troverà salvezza.

 

La malattia come opportunità

Come abbiamo già sottolineato, in questo testo non si dà motivazione della malattia di Ezechia. A differenza di tanti altri passaggi della Scrittura, dove esperienze tragiche della vita sono associate più o meno direttamente alla colpa commessa, qui la sventura che colpisce il re non ha apparente spiegazione; quindi, non può essere banalmente definita come castigo. Grazie anche alla voce profetica, diviene invece occasione per una svolta nella vita di Ezechia e della comunità a lui affidata. Il primo intervento di Isaia ha un solo scopo: aiutare il re a cogliere la serietà della propria condizione. Rimovendo ogni infondata e illusoria speranza, Isaia spinge il sovrano a guardare in faccia la realtà, suscitando in lui un vero movimento interiore: uno scatto del cuore, che consente anche a questo passaggio drammatico della vita di diventare incredibilmente e inaspettatamente fecondo. Ezechia riconosce che la vita – la sua, come quella di tutto il suo popolo – è nelle mani di Dio, consegnata al suo giudizio e alla sua misericordia. Nelle sue parole non si intravvede smarrimento, paura, o rabbia, ma la coscienza di appartenere a qualcuno; e questo qualcuno non tarda a manifestarsi. Forse il vero motivo di consolazione dell’intera vicenda non sta tanto nella guarigione finale del sovrano e nella concessione di un prolungamento della sua esistenza terrena, quanto nel fatto che Dio conferma anche in questa circostanza di non essere insensibile al pianto e alla sofferenza dei giusti. Di fronte all’uomo che si volge con coscienza retta verso di lui, il Signore non resta indifferente.

 

Una potenzialità positiva, anche nel dramma

Potersi volgere nuovamente e sinceramente verso Dio è forse l’opportunità che ci è data in questo tempo doloroso di prova: non un gesto disperato, ma un cosciente affidamento a un Padre che non può restarsene indolente, perché sarebbe contro la sua stessa natura. In questi giorni suscita commozione pensare a quante persone e a quante famiglie, nella discrezione delle proprie abitazioni e in comunione con i loro preti, anche grazie agli strumenti che la tecnologia mette a disposizione, tengono rivolto il loro sguardo, e quello di tutta la Chiesa, verso quel Dio che è Padre, il Dio di Gesù. E volgersi verso Dio vuol dire necessariamente anche volgersi verso il prossimo, in particolare verso coloro con i quali condividiamo normalmente la vita, al punto da considerare la loro presenza un dato scontato; qualcosa che non suscita più stupore e desiderio di ringraziamento.

È, dunque, possibile anche e soprattutto in questa stagione di prova tornare a volgersi con tutto il cuore verso Dio, e quindi verso il prossimo, con un atto di autentico affidamento, libero da ogni pretesa e capace di prescindere dall’ottenimento di un risultato pur desiderato. E questa è una buona notizia, che merita di essere comunicata e celebrata.

 
3 maggio 2020
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