Non lasciarmi
Mark Romanek
Gran Bretagna, USA 2010, 20th Century Fox, Drammatico, 103 min
Analizzare un film come Non lasciarmi obbliga a un necessario svelamento, che certamente toglie allo spettatore il (dis)piacere del colpo di scena finale e allevia gran parte della tensione narrativa su cui è costruita l’intera struttura drammaturgica. I tre protagonisti, Kathy, Ruth e Tommy, non sono normali ragazzi dell’Inghilterra degli anni ’50, ma giovani cloni utilizzati a scopi terapeutici in un universo fantascientifico. La pellicola è tratta dall’omonimo romanzo del pluripremiato scrittore nippo-britannico Kazuo Ishiguro – l’autore anche di Quel che resta del giorno – che decide di ambientare una classica vicenda di matrice science fiction in un contesto marcatamente realista, ricco di particolari storici e d’ambientazione, per condurre il lettore – e lo spettatore – in un territorio totalmente inesplorato. Il film, come il romanzo, è fortemente distopico, vicino, per sensibilità e prospettive, a lavori come 1984 di George Orwell o Fahrenheit 451 di Ray Bradbury, anche se non mette in scena un indesiderabile futuro possibile, ma un passato mai avvenuto. Tale scelta pone sin dall’inizio in una condizione di irrealtà, che rende ancor più coinvolgente e dolorosa la vicenda narrata, perché riguarda direttamente lo spettatore, la sua generazione, il suo passato prossimo e il suo presente. E non è un caso che l’ambientazione sia proprio quella della giovinezza di un pubblico molto adulto (60-70 anni) che si trova a chiedere in questi tempi alla scienza di allungare le aspettative di vita, oltre ogni barriera. Questo cambio di prospettiva rende il film di Mark Romanek estremamente innovativo, sia per la maniacale ricostruzione dello scenario storico, sia per il registro cinematografico, vicino al melò e al dramma romantico, che conduce lo spettatore a immedesimarsi con la vicenda, partecipando alla sofferenza e al dramma dei tre protagonisti. Al centro della vicenda è infatti il cammino dei tre giovani protagonisti alla scoperta di un tragico destino, la loro crescita personale, affettiva e spirituale, la loro ricerca di identità. Nel rapporto con una morte certa, costretti a donare forzatamente la propria vita, i tre ragazzi si trovano a interrogarsi sul significato della vita e su ciò che fa di un corpo un essere umano. In particolar modo, la ricerca di senso diventa il perno su cui si muove Kathy, volutamente ritratta nella sua vulnerabilità e nella sua fiabesca innocenza, instancabile infermiera, amica di Ruth e amante di Tommy, ultimo scoglio di un’umanità degenerata, fredda e cinica. La pellicola finisce così – anche per l’inaspettato colpo di scena rivelatorio – per interrogare direttamente lo spettatore, chiedendogli quale sia il confine dell’essere umano, quali siano i percorsi possibili di una ricerca sostenibile, quale il senso del suo essere al mondo; in un film tenue e al contempo lacerante, che crea con rigore e attenzione un nuovo ibrido visivo che, nel suo piccolo, ha già iniziato una nuova riflessione cinematografica.
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