«Chi ha pianto per la morte di questi fratelli e sorelle? Chi ha pianto per queste persone che erano sulla barca? Per le giovani mamme che portavano i loro bambini? Per questi uomini che desideravano qualcosa per sostenere le proprie famiglie?»: papa Francesco sollevava questi interrogativi nell’omelia pronunciata a Lampedusa nel luglio del 2013, dove aveva scelto di compiere il suo primo viaggio per ricordare le vittime di un naufragio accaduto poco tempo prima e per manifestare con un gesto concreto la propria vicinanza. Da allora sono trascorsi dieci anni e tristemente il Mediterraneo continua a essere un luogo di morte per migliaia di persone (più di 26mila dal 2014, secondo i calcoli, inevitabilmente per difetto, del Missing Migrant Project dell’Organizzazione internazionale per le migrazioni). Il naufragio avvenuto all’alba del 26 febbraio a pochi metri dalla costa di Steccato di Cutro (KR), in cui hanno perso la vita decine di persone (nel momento in cui scriviamo le vittime accertate sono 86 e 16 i dispersi), ha ricordato questa tragica realtà anche ai più cinici e distratti. Quanto accaduto ha profondamente scosso l’opinione pubblica e ha infiammato il dibattito politico, in Italia e in Europa, in una ridda di prese di posizione, messaggi di cordoglio e polemiche. Basterà tutto questo a «risvegliare le nostre coscienze perché ciò che è accaduto non si ripeta», come affermava papa Francesco a Lampedusa?
Ricette vecchie e insufficienti
All’indomani del naufragio, il mondo politico ha scelto di confermare i paradigmi e le scelte operative del passato, figlie di una concezione della politica migratoria dominata dalla priorità assegnata alla ideologia della sicurezza, nonostante gli eventi quotidiani ne mettano in dubbio sensatezza ed efficacia. Lo dimostrano le misure inserite dal Governo Meloni nel Decreto legge approvato nella seduta del Consiglio dei ministri tenutasi a Cutro il 9 marzo scorso, ampiamente mediatizzata e altrettanto contestata.
Secondo la dicitura ufficiale data dal Governo, il testo del D.L. n. 20/2023 contiene «disposizioni urgenti in materia di flussi di ingresso legale dei lavoratori stranieri e di prevenzione e contrasto all’immigrazione irregolare» e si concentra soprattutto su una serie di misure repressive. In particolare, vi è un inasprimento delle pene nei confronti degli “scafisti”, sono semplificate le procedure per l’esecuzione dei decreti di espulsione e la costruzione di nuovi centri di permanenza per i rimpatri, è rivista in senso limitativo l’applicazione della protezione speciale finora riconosciuta agli stranieri che hanno imparato l’italiano e lavorano, o che hanno legami familiari con persone che vivono nel nostro Paese. Poche e di scarso impatto sono le novità sul fronte della gestione legale degli ingressi in Italia, limitate al “decreto flussi” per l’ingresso di lavoratori, a cui difficilmente hanno accesso quanti vivono in Paesi dove sono in corso guerre o vi sono regimi oppressivi. Come è stato sottolineato da p. Camillo Ripamonti, presidente del Centro Astalli, si tratta di «una serie di proposte senza regia, che raccontano il volto di una politica priva di una visione d’insieme sul tema migratorio» («Consiglio dei Ministri a Cutro. “Il diritto d’asilo ancora una volta calpestato e impoverito”», 10 marzo 2023, in <www.centroastalli.it>).
Questa impostazione non costituisce una novità: pur con alcune differenze nei toni o sulle misure proposte, per quanto riguarda la politica migratoria negli ultimi anni i Governi italiani si sono attenuti a una comune filosofia, focalizzata più sulla prevenzione dell’ingresso illegale delle persone che sull’individuazione di modalità organizzate per consentire l’accesso legale di quanti desiderano migrare e soprattutto di quanti sono costretti a scappare dai propri Paesi. Eppure il passaggio al secondo approccio non costituisce un’alternativa utopica: vi sono esempi importanti già in atto, come i corridoi umanitari o la risposta eccezionale di fronte all’emergenza dei profughi ucraini. Vi è poi il serio contributo di parte della società civile che ha elaborato proposte concrete, in cui si tiene conto sia della realtà del nostro territorio sia delle esigenze manifestate da quanti migrano, come nel caso della campagna “Ero straniero. L’umanità che fa bene”.
Tuttavia questo approccio non riscuote sufficiente ascolto, non solo in Italia, ma anche a livello UE. Gli Stati membri non riescono ad accordarsi per siglare un Patto sulla migrazione per andare oltre la logica del Regolamento di Dublino, che azzera la solidarietà europea scaricando la gestione del “problema” sui pochi Paesi di primo ingresso, ma si ritrovano uniti nel sostenere gli onerosi accordi con alcuni Paesi vicini alle frontiere dell’UE, come Turchia e Libia, pagati per trattenere quanti vogliono raggiungere un’Europa che è sempre più una “fortezza” impaurita.
Alla caccia del capro espiatorio
Bloccati in questa situazione senza apparente via di uscita – le scelte per blindare l’ingresso in Europa non producono gli effetti sperati, ma manca una volontà politica abbastanza forte per intraprendere altre strade – tragedie come il naufragio di Cutro, con il loro carico di vite spezzate, sollecitano tutti noi a prendere posizione e richiedono a quanti ricoprono incarichi sul piano politico o amministrativo una rilettura critica del proprio operato, mentre la magistratura indaga per ricostruire quanto è accaduto nella notte dell’incidente e accertare se vi siano state omissioni nel prestare soccorso.
Nei giorni successivi al naufragio, ben poco è stato messo in discussione da parte dei rappresentanti del nostro Governo, impegnati piuttosto a cercare capri espiatori, a cui addossare la colpa della morte di decine di persone, tra cui numerosi bambini. Tra i responsabili sono state additate persino le vittime del naufragio, colpevoli di aver lasciato il proprio Paese, come ha sottolineato il ministro dell’Interno Piantedosi in una dichiarazione rilasciata a breve distanza dal naufragio e rimbalzata su tutti i media: «La disperazione non può mai giustificare condizioni di viaggio che mettono in pericolo la vita dei propri figli», aggiungendo che lui non lascerebbe mai l’Italia perché «educato alla responsabilità verso quello che si può dare al proprio Paese». Le parole di uno dei naufraghi sopravvissuti, proveniente dall’Afghanistan come la maggior parte delle persone imbarcate su questa carretta del mare, offrono una lettura molto diversa: «Scappiamo dalle nostre case, in Afghanistan, perché siamo minacciati di morte. Se non partissimo il nostro destino sarebbe comunque segnato» (Marino D., «A migliaia sulla spiaggia del naufragio: “Le stragi in mare ora vanno fermate”», in Avvenire, 12 marzo 2023, 9). A bordo c’erano anche siriani, iraniani, palestinesi, pachistani: cittadini di Paesi distrutti dalle guerre, sottoposti al potere di regimi dispotici, in cui i diritti sono costantemente violati, Paesi dove la vita è a rischio per le condizioni di estrema povertà o per le sempre più frequenti catastrofi ambientali.
Anche la scelta di inasprire le pene per gli scafisti, che saranno ricercati in «tutto il globo terracqueo», come da roboante dichiarazione della presidente Meloni nella conferenza stampa dopo il Consiglio dei ministri a Cutro, rientra in questa logica di individuare qualcuno da punire. Gli scafisti, però, non sono che l’ultimo anello della catena di trafficanti, quello meno importante. In alcuni casi, non sono neanche membri della rete criminale che organizza i viaggi, ma migranti, spesso giovanissimi, che in virtù di un minimo di esperienza nella navigazione vengono scelti dai trafficanti per guidare l’imbarcazione in cambio del prezzo del viaggio. Fintanto che le possibilità di entrare legalmente in Europa saranno così limitate, questi viaggi, per quanto lunghi, pericolosi e costosi, costituiranno l’unica possibilità per tanti migranti, e saranno un affare redditizio per quanti gestiscono il traffico delle partenze da Libia, Tunisia o Turchia. A chi sostiene che per queste persone sarebbe più semplice e forse anche meno costoso venire in aereo, vale la pena ricordare che senza il passaporto “giusto” nei Paesi europei, Italia inclusa, non si entra, nemmeno con il visto turistico.
Non direttamente coinvolte nel caso di Cutro, ma da tempo sul banco degli accusati sono le ONG impegnate a soccorrere con le proprie navi i migranti in difficoltà nel Mediterraneo centrale. Le loro attività sono state rese ancor più difficili dai provvedimenti adottati dal Governo negli ultimi mesi, in particolare il cosiddetto Decreto legge ONG (ufficialmente D. L. 2 gennaio 2023, n. 1, Disposizioni urgenti per la gestione dei flussi migratori, poi convertito con modificazioni dalla L. 24 febbraio 2023, n. 15), criticato dal Consiglio d’Europa perché non conforme agli obblighi assunti dall’Italia in materia di diritti umani e di diritto internazionale. Eppure dopo l’introduzione delle nuove misure i viaggi dei migranti non si sono interrotti; anzi gli sbarchi sono triplicati rispetto allo stesso periodo del 2022, a conferma che non è la presenza delle ONG a incentivarli, ma una pluralità di fattori. D’altronde, in base ai dati disponibili, solo il 10% dei migranti che giungono via mare in Italia è soccorso dalle ONG; nella maggioranza dei casi i migranti arrivano in modo autonomo, oppure soccorsi da Guardia di finanza e Guardia costiera.
Evitare miopi semplificazioni
Alla luce di tutto questo, due aspetti si impongono all’attenzione.
In primo luogo, vi è una preoccupante semplificazione, eccessiva e quasi grossolana, della realtà delle migrazioni: le decisioni di partire vengono bollate come irresponsabili; la lotta ai trafficanti si concentra sugli scafisti, che sono ai margini dell’intera organizzazione criminale; l’impatto delle ONG è amplificato a dismisura. Per una scelta comunicativa probabilmente compiuta pensando al proprio elettorato di riferimento, e a cui la narrazione mediatica fa da cassa di risonanza, si enfatizzano questi elementi, distorcendo la realtà anziché coglierla nel suo insieme: non si riconosce l’interazione tra i diversi fattori economici, politici, sociali e culturali di un fenomeno complesso come le migrazioni; non si presta attenzione ai punti di vista di tutti i soggetti coinvolti, a partire da coloro che lasciano i loro Paesi per migrare; le soluzioni prospettate finiscono per essere così armi spuntate, perché figlie di una visione ristretta.
Emerge qui il secondo aspetto da considerare: la riduzione a problemi di ordine pubblico delle questioni sociali, in particolare quelle a cui è sensibile l’elettorato favorevole al Governo. Lo si coglie sia sul piano comunicativo, ad esempio nel registro verbale delle varie prese di posizione e nella criminalizzazione dei migranti, sia a livello di decisioni, che insistono sull’inasprimento delle sanzioni penali. Vale per i migranti, ma anche per molti altri casi: dalla “colpevolizzazione” dei poveri (ad esempio i percettori del reddito di cittadinanza) all’introduzione del nuovo reato legato all’organizzazione dei rave party, che sanziona fatti già punibili in base all’ordinamento penale esistente.
La scelta di una “politica muscolare” può rivelarsi fruttuosa sotto il profilo propagandistico, ma la ricerca di soluzioni a questioni complesse come le migrazioni, la povertà o il disagio giovanile non può fondarsi principalmente sul diritto penale. L’ipertrofia delle previsioni di reato finisce per ridurne la funzione preventiva e la possibilità di accertarli e punirli da parte del sistema giudiziario: erode cioè la certezza del diritto, e quindi la credibilità delle istituzioni. Soprattutto non si può dare una risposta efficace e duratura alle migrazioni mettendo in campo solo misure sanzionatorie, senza inserirle all’interno di una più ampia politica migratoria, coordinata a livello italiano ed europeo, in cui l’attenzione si focalizzi sulla creazione di reali vie d’accesso legali, nel rispetto delle normative internazionali e nella predisposizione di programmi sul piano economico, sociale e culturale che favoriscano reali processi di integrazione. Certamente questo costa fatica, un radicale cambio di prospettiva e un investimento di risorse. Ma, se per accontentare il proprio elettorato il Governo ha predisposto una legge di bilancio «zeppa di condoni» (cfr l’articolo di Maria Flavia Ambrosanio e Paolo Balduzzi, alle pp. 254-261 di questo numero), le risorse da investire sui problemi della società diminuiscono, e la “politica muscolare” diventa solo fumo negli occhi che maschera i problemi reali.
In questa direzione si è mosso da anni papa Francesco, indicando una via che tenga insieme le varie dimensioni in gioco in una prospettiva dinamica e positiva, attenta in egual misura ai diritti e alle esigenze di quanti migrano e delle comunità che li accolgono, sintetizzabile nei quattro verbi accogliere, proteggere, promuovere e integrare. Le sue parole – se ascoltate attentamente, senza selezionare e rilanciare solo quelle che paiono confermare la propria posizione, come sta accadendo in questo momento – ci invitano a riconoscere la scomoda domanda che implicitamente i migranti rivolgono alle nostre società (e con loro altre categorie oggi messe alla gogna, come i poveri, i giovani, ecc.). Se la loro scelta di mettersi in viaggio è dettata dal desiderio di vita, anche a costo di abbandonare la propria terra quando non è più una casa sicura, di andare incontro a rischi enormi durante il viaggio, di rescindere legami e sobbarcarsi la fatica di integrarsi in una nuova cultura, da che cosa è motivata la nostra scelta di arroccarci nelle nostre frontiere? Che cosa stiamo difendendo? Da che cosa ci stiamo difendendo? Se come società saremo in grado di rispondere con onestà, potrà realizzarsi quel cambio di prospettiva che ci permetterà di avere uno sguardo diverso, più lucido e consapevole, su noi stessi e su quanti chiedono di poter venire a condividere con noi la vita.