Migranti e lavoro agricolo: proposte contro il caporalato

Maurizio Ambrosini
Le ultime tragedie del lavoro immigrato in agricoltura -16 morti in due incidenti stradali nel foggiano tra il 4 e il 6 agosto - hanno riportato alla ribalta una questione annosa e sempre rimossa, dopo le fiammate di attenzione dovute a qualche drammatico evento: lo sfruttamento degli immigrati nelle campagne meridionali, e non solo. Non necessariamente clandestini, né sbarcati negli ultimi anni, e neppure africani come le vittime dei giorni scorsi. Per esempio nell’agro pontino sono indiani sikh, nel ragusano tunisini insediati da anni e romeni di arrivo più recente. 

La periodica ricostruzione delle vergognose baraccopoli, con tanto di barbieri, supermercatini e night-clubs completamente fuori legge, mostra un volto inquietante di una componente dell’agricoltura italiana: per reggere sul mercato, ha bisogno di ricorrere al lavoro sottopagato degli immigrati, e di farli vivere in condizioni inaccettabili. 

Le condizioni capestro imposte dalla grande distribuzione, la scarsa modernizzazione dei sistemi produttivi, i bassi prezzi pagati dai consumatori finali hanno dei costi, e questi costi si scaricano sui più deboli, i braccianti che raccolgono i frutti dei campi. È singolare che autorità locali, forze dell’ordine, magistratura e cittadini riescano a non vederli, finché non accade qualcosa di grave. Anche l’enfasi momentanea sulla lotta al caporalato investe semmai il penultimo anello della catena, formato sempre più da altri immigrati. Gli interessi più corposi sono appena sfiorati dalle polemiche.

Il lavoro degli immigrati per fortuna è anche altro: 2,4 milioni di occupati regolari, tra cui 570mila titolari di attività economiche. Un gettito fiscale e contributivo che supera ampiamente i costi dell’accoglienza dei rifugiati e dei servizi richiesti dalle famiglie ricongiunte dall’estero. Ma rimane in gran parte lavoro povero, subalterno. Il lavoro delle 5 P: precario, pesante, pericoloso, poco pagato, penalizzato socialmente. È singolare che mentre il Senato votava il cosiddetto decreto Dignità, il caso di Foggia abbia fatto emergere quanto poca dignità venga garantita a tanti lavoratori delle campagne.

Lancio quindi alcune proposte. La prima è quella di mandare un folto gruppo di ispettori del lavoro, scortati dalle forze dell’ordine, a identificare e denunciare i datori di lavori che sfruttano i braccianti immigrati. Non dovrebbe essere difficile: basta seguire le campagne di raccolta dei prodotti agricoli, vedere dove sorgono le baraccopoli, seguire i pullmini che li portano al lavoro. Eventualmente con i droni, come ha annunciato Salvini. La seconda proposta riguarda il nesso tra lavoro e riduzione del carico per le casse dello Stato dei richiedenti asilo (una parte soltanto dei braccianti, va ribadito): come in altri Paesi, chi trova un lavoro dovrebbe ricevere un permesso di soggiorno, inizialmente di un anno, ponendo fine alle controversie sulla fondatezza della domanda di asilo, e potrebbe cominciare una vita autonoma.

Infine, per decongestionare il canale dell’asilo e istituire un’alternativa ai rischiosi viaggi attraverso la Libia e poi per mare, si dovrebbero ampliare le possibilità di immigrazione per lavoro stagionale, già previste dalle nostre leggi e dai decreti flussi annuali. Gli Stati Uniti hanno ridotto l’immigrazione non autorizzata dal Messico proprio riaprendo un canale d’immigrazione legale, stagionale, per l’agricoltura. Se le persone possono entrare, lavorare, tornare al loro Paese per ripresentarsi l’anno successivo, saranno meno disposte a rischiare la vita nei viaggi della speranza. Allo stesso tempo, contratti di lavoro legali e dignitosi dovrebbero disciplinare questi flussi.

20 agosto 2018
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