«Un popolo senza memoria è un popolo senza futuro»: così lo scrittore cileno Luis Sepúlveda sottolineava lo stretto legame che esiste tra il passato, custodito dalla memoria, la comprensione del presente e, quindi, la costruzione del futuro. In un mondo sempre più accelerato, con una memoria sempre più “a breve termine”, riscoprire questo principio risulta decisivo, affinché l’umanità del nostro tempo non sia condannata a ripetere i propri errori e maturi nel fare tesoro delle proprie conquiste. Per poter prendere coscienza del valore della memoria e del modo sapiente di farvi ricorso troviamo alcuni spunti decisamente interessanti nell’ultima enciclica di papa Francesco Fratelli tutti, che riprendiamo e approfondiamo anche grazie al contributo della teologia del Deuteronomio.
«Senza memoria non si va mai avanti»
La tentazione seria, a cui anche la nostra cultura occidentale è esposta, è quella della dimenticanza, colpevole e interessata. Si dimentica, perché è più comodo, soprattutto quando l’oblio riguarda qualcosa di spiacevole del proprio passato, con cui si preferirebbe non dover fare i conti: una dimenticanza alla fine deresponsabilizzante, che pretende di semplificare la vita e di risolvere i problemi, nascondendoli alla vista. Ma «senza memoria non si va avanti, non si cresce senza una memoria integra e luminosa» (FT, n. 249). Senza memoria non è possibile sapere da dove si proviene, verso dove si è diretti, e a che punto del cammino ci si trova. La perdita di memoria è sic et simpliciter perdita di identità!
«Coltivare la memoria è ancora oggi un vaccino prezioso contro l’indifferenza e ci aiuta, in un mondo così pieno di ingiustizie e di sofferenze, a ricordare che ciascuno di noi ha una coscienza e la può usare».
Liliana Segre
Per sostanziare questo auspicio di una «memoria integra e luminosa», il Papa mette bene in luce i due versanti su cui la costruzione del ricordo si deve per forza di cose giocare. In primo luogo, la memoria del male. Francesco cita a questo proposito due fra gli eventi storici più drammatici del secolo passato, che mettono ancora oggi a dura prova la capacità e la volontà di fare memoria da parte del mondo occidentale: la Shoah (FT, n. 247) e i bombardamenti atomici sulle città del Giappone (FT, n. 248). Su questo fronte l’esercizio di memoria si rivela indispensabile, perché, per sconfiggere il male (e il peccato), è necessario prima trovare il coraggio di guardarlo in faccia. Non può esserci vera riconciliazione, se non a partire da una seria presa d’atto delle proprie responsabilità nella promozione del male (cfr anche FT, n. 246). In caso contrario, la (presunta) riconciliazione assumerebbe la forma di una colpevole dimenticanza, che non riconosce il male, semplicemente perché non lo vuole vedere e, quindi, affrontare.
In secondo luogo, la memoria del bene, che «fa molto bene», come afferma il Papa (FT, n. 249). È quanto avviene, ad esempio, con il Giardino dei giusti, realizzato a Gerusalemme nel complesso di Yad Vashem, per ricordare i non ebrei che, a rischio della loro vita, aiutarono gli ebrei perseguitati durante la Seconda guerra mondiale. Spesso questa capacità di vedere il bene domanda un affinamento dello sguardo. È noto a tutti l’adagio: «Fa più rumore un albero che cade di una foresta che cresce». Lo stile con cui il bene attecchisce e fruttifica nel quotidiano non corrisponde ai criteri della nostra civiltà mediatica: la carità nelle sue forme più ordinarie non conquista le prime pagine, mentre il male è capace di fare notizia. Come essere umani, e ancora di più come credenti, è auspicabile avere occhi che sappiano riconoscere nelle trame più nascoste della vita la fecondità del bene, che con l’aiuto della grazia agisce giorno per giorno, per dare al mondo un volto più umano. Fare memoria del bene significa in ultima istanza riconoscere con stupore e gratitudine la presenza e l’opera di Dio nelle trame della storia.
Una ricca teologia della memoria
Nel panorama dell’Antico Testamento il libro del Deuteronomio spicca per la sua capacità di proporre una vera e propria teologia della memoria. Chiamato a confrontarsi con la drammatica crisi della caduta di Gerusalemme e della cattività babilonese, il movimento deuteronomista trova il coraggio di non eludere la domanda fatidica: «Perché?». Il Deuteronomio e la successiva storiografia deuteronomista (Giosuè, Giudici, Samuele e Re) nascono dal tentativo di dare una risposta soddisfacente a questo interrogativo, individuandola nel tradimento prolungato e radicale dell’alleanza. Ma per arrivare a formulare in modo compiuto tale risposta i deuteronomisti devono fare esercizio di memoria, e di una memoria sapiente, che sappia guardare alla storia con gli occhi stessi di Dio e ravvisare le ragioni della crisi a livello teologico, non banalmente storico. Il libro del Deuteronomio si fa promotore di questo esercizio, mettendone in luce l’essenzialità: la presa di coscienza della propria identità da parte del popolo eletto passa dal riconoscimento senza sconti del proprio passato, con i suoi aspetti gloriosi e con i suoi lati più oscuri.
Deutoronomio 8,2-5
2Ricòrdati di tutto il cammino che il Signore, tuo Dio, ti ha fatto percorrere in questi quarant’anni nel deserto, per umiliarti e metterti alla prova, per sapere quello che avevi nel cuore, se tu avresti osservato o no i suoi comandi. 3Egli dunque ti ha umiliato, ti ha fatto provare la fame, poi ti ha nutrito di manna, che tu non conoscevi e che i tuoi padri non avevano mai conosciuto, per farti capire che l’uomo non vive soltanto di pane, ma che l’uomo vive di quanto esce dalla bocca del Signore. 4Il tuo mantello non ti si è logorato addosso e il tuo piede non si è gonfiato durante questi quarant’anni. 5Riconosci dunque in cuor tuo che, come un uomo corregge il figlio, così il Signore, tuo Dio, corregge te.
Anzitutto, il Deuteronomio invita Israele a ricordarsi non tanto di un evento (o di una serie di eventi), ma di una persona: il Signore. Cioè di colui che è stato e resta protagonista della sua storia di salvezza. Emblematica a questo riguardo è la pericope di Deuteronomio 8,2-5 (cfr anche 5,15 e 7,18-19). Il ricordo del Signore e di quanto ha fatto per il bene di Israele è strumento essenziale per il rafforzamento della relazione di alleanza. In particolare, l’autore deuteronomista ripropone l’azione salvifica divina, avendo come immagine di riferimento l’educazione dei figli da parte del padre di famiglia. La vicenda dell’esodo è da lui interpretata come tempo pedagogico, nel quale Dio ha costituito il suo popolo e lo ha istruito a essere tale nella libertà. Israele è stato educato a comprendere che non è anzitutto il pane a garantirgli la vita, ma la relazione con il suo Creatore, e che deve guardarsi dalla tentazione di pensarsi principio e compimento di se stesso. Secondo questa prospettiva sapienziale, fare memoria è funzionale a rammentare all’umanità il primato della grazia di Dio nel suo cammino di salvezza (cfr Deuteronomio 8,18).
In numerosi testi, questo principio è ribadito “in negativo”: Israele viene invitato a più riprese a guardarsi bene dal dimenticare il Signore e la sua alleanza. L’abbondanza di questa tipologia testuale traduce la chiara percezione da parte dell’autore del rischio concretissimo della dimenticanza negligente da parte del popolo eletto. Il ricordo di Dio e della sua alleanza riguarda la relazione vitale, da cui dipende l’esistenza stessa di Israele. Anche in questi brani la vicenda dell’esodo è posta come segno paradigmatico della “opzione fondamentale” del Signore nei confronti del suo popolo (cfr Deuteronomio 6,10-13 e 4,9.23-24). Ma dal momento in cui Israele ha preso possesso della terra promessa, un rischio davvero serio si presenta: accogliere il dono, dimenticandosi del Donatore; o peggio, immaginandosi altri donatori (Deuteronomio 8,11-16.19-20 e 32,18). Con la conseguenza tragica che tutto questo comporta: la morte di Israele come popolo, la sua catastrofica dispersione. Perché se il ricordo di Dio è vita, in quanto permette di custodire la relazione vitale con lui, la sua dimenticanza non può che condurre alla morte.
Deutoronomio 8,11-14.17-18
11Guàrdati bene dal dimenticare il Signore, tuo Dio, così da non osservare i suoi comandi, le sue norme e le sue leggi che oggi io ti prescrivo. 12Quando avrai mangiato e ti sarai saziato, quando avrai costruito belle case e vi avrai abitato, 13quando avrai visto il tuo bestiame grosso e minuto moltiplicarsi, accrescersi il tuo argento e il tuo oro e abbondare ogni tua cosa, 14il tuo cuore non si inorgoglisca in modo da dimenticare il Signore, tuo Dio, che ti ha fatto uscire dalla terra d’Egitto, dalla condizione servile. […] 17Guàrdati dunque dal dire nel tuo cuore: «La mia forza e la potenza della mia mano mi hanno acquistato queste ricchezze». 18Ricòrdati invece del Signore, tuo Dio, perché egli ti dà la forza per acquistare ricchezze, al fine di mantenere, come fa oggi, l’alleanza che ha giurato ai tuoi padri.
Il ricordo, tuttavia, non è un’operazione puramente intellettuale; e l’autore di Deuteronomio lo sa molto bene. Perciò propone tutta una serie di azioni concrete, che hanno a che fare con gli ambiti della solidarietà e del culto, grazie alle quali Israele può non perdere di vista la propria storia di liberazione. Da un lato, la solidarietà nei confronti dei componenti più deboli della società si deve fondare sul ricordo della libertà e della dignità a suo tempo ricevute. Il richiamo è a quanto vissuto dal popolo di Israele in Egitto: «Ti ricorderai che sei stato schiavo nella terra d’Egitto e che il Signore, tuo Dio, ti ha riscattato» (Deuteronomio 15,15; cfr anche 24,18.22). L’esperienza di liberazione non è riservata solo ad alcuni, per questo merita di essere custodita e resa attuale nelle relazioni sociali. Dall’altro lato, la ritualità ebraica, in particolare quella relativa alla celebrazione pasquale, ha fra i suoi propositi specifici quello di sostenere il ricordo, carico di gratitudine, per la redenzione sperimentata, la quale, proprio grazie al ricordo celebrato, può essere ancora vissuta nel presente (Deuteronomio 16,3.12).
«Guardare indietro è un po’ come rinnovare i propri occhi, risanarli. Renderli più adeguati alla loro funzione primaria, guardare avanti».
Margaret Fairless Barber
Oltre alle opere salvifiche di Dio nei propri confronti, a essere oggetto dell’auspicabile ricordo di Israele è anche il suo stesso peccato (cfr Deuteronomio 9,7-8.13). Anche in questo caso si potrebbe parlare di un ricordo salutare, almeno in una duplice prospettiva. In primo luogo, il ricordo del peccato commesso consente a Israele di rendersi conto della propria strutturale fragilità, alimentando l’impegno alla conversione continua. La memoria sincera delle proprie cadute è un passaggio ineludibile per un ravvedimento effettivo e duraturo, perché permette di tenere vivo il senso della sproporzione fra i benefici ricevuti e le proprie trasgressioni. Il peccato, infatti, non si misura mai in termini assoluti, in relazione a un ideale, al quale si vorrebbe corrispondere; esso mostra tutta la sua gravità, quando è posto in relazione all’amore ricevuto, al quale non si è saputo adeguatamente corrispondere. Nella prospettiva di un popolo, questo amore si sostanzia nel patrimonio di cultura, storia, territorio, che ha ricevuto e di cui è chiamato a essere custode e saggio amministratore. In secondo luogo, tale ricordo permette a Israele di riconoscere ulteriormente il primato della grazia e della misericordia di Dio nella propria storia.
Il popolo può portare a compimento la propria vocazione non in virtù delle proprie prestazioni, ma in forza della grazia divina, capace di accogliere e valorizzare le sue ricchezze, e nel contempo di abbracciare e perdonare le sue fragilità.
Radicati nel passato e protesi verso il futuro
È vitale per il nostro tempo (re)imparare a fare memoria, perché in sua assenza il cammino diviene un vagare senza una meta e senza una logica riconosciuta. Quante volte, pensando soprattutto ai drammi del cosiddetto “secolo breve”, si è pronunciata con enfasi la frase «Mai più!»? Eppure, ancora una volta ci siamo trovati a fare i conti con la sventura di una guerra in Europa! La sfida di costruire il futuro non può prescindere dal recupero di questa capacità sapiente di fare memoria. Ma precisamente fare memoria di che cosa? Come ci ha ricordato papa Francesco, anzitutto del male, riconoscendolo, prendendo atto della sua gravità, ma anche sapendovi cogliere l’espressione della propria fragilità, come il popolo di Israele nel Deuteronomio. Quando si vive questo processo si è più attrezzati di fronte alle grandi possibilità del nostro tempo, che si accompagnano anche a grandi rischi, dei quali è necessario essere consapevoli e che in un recente passato sono divenuti realtà, sfigurando in un modo fino ad allora impensabile il volto dell’umanità. Gli sbagli possono essere evitati, soprattutto nel momento in cui ci si rende conto di averli già compiuti e di averne già assaggiato le amare conseguenze.
Ma per costruire il futuro non si può essere concentrati solo sul male, bisogna saper riconoscere e valorizzare anche il bene. La stessa Parola di Dio ci invita ad assumere una modalità a tutti gli effetti profetica di guardare alla realtà, che sappia intravvedervi in particolare i segni della presenza e dell’opera di Dio. Questo sguardo è ben diverso da quello dei grandi mezzi di informazione, tesi a considerare per ragioni di audience solo gli eventi che fanno più clamore, e, quindi, il più delle volte, gli eventi negativi. Fare memoria del bene è un atto di speranza, che si radica nella convinzione che la storia degli uomini agli occhi di Dio non è perduta, ma è destinata a essere redenta. La storia, pur in mezzo a mille contraddizioni e tensioni, resta comunque quel terreno fecondo nel quale lo Spirito di Dio sta portando a compimento il suo disegno di salvezza. Come sottolineava con acume il card. Martini nella lettera pastorale Tre racconti dello Spirito: «Lo Spirito c’è, anche oggi, come al tempo di Gesù e degli Apostoli: c’è e sta operando, arriva prima di noi, lavora più di noi e meglio di noi; a noi non tocca né seminarlo né svegliarlo, ma anzitutto riconoscerlo, accoglierlo, assecondarlo, fargli strada, andargli dietro. C’è e non si è mai perso d’animo rispetto al nostro tempo; al co ntrario sorride, danza, penetra, investe, avvolge, arriva anche là dove mai avremmo immaginato. Di fronte alla crisi nodale della nostra epoca che è la perdita del senso dell’invisibile e del Trascendente, la crisi del senso di Dio, lo Spirito sta giocando, nell’invisibilità e nella piccolezza, la sua partita vittoriosa».
Martini C.M., Tre racconti dello Spirito. Lettera pastorale per verificarci sui doni del Consolatore 1997-1998, Centro Ambrosiano, Milano 1997, 11.