In più ambiti della società si assiste a una seria crisi dell’identità e del ruolo del leader. Guardando al nostro Paese, il Documento preparatorio della 50ª Settimana sociale dei cattolici in Italia registra una sempre più diffusa e generalizzata fuga dalle responsabilità familiari, lavorative, politiche, ecc., accompagnata da un ritiro sempre più accentuato dalla vita pubblica e in particolare da un certo modo di esercitare la leadership. Se da un lato a livello politico il mito dell’uomo o della donna forte al comando rimane attraente, nell’“ordinaria amministrazione” i ruoli di responsabilità su gruppi e comunità sono tendenzialmente evitati, proprio per il timore di non essere in grado di portarne il peso da soli. Tutto questo ha chiaramente conseguenze rilevanti anche sulla partecipazione democratica e sulla qualità dell’operato delle istituzioni. La Scrittura, fra i vari passaggi a cui si potrebbe fare riferimento, ci offre in particolare una pista per esplorare un modello alternativo di leadership, che può fornire spunti interessanti per le sfide odierne e aprire nuove strade.
L’episodio preso in considerazione si trova in una sezione del libro dell’Esodo (capitoli 15-18) che descrive ciò che accade tra l’uscita del popolo d’Israele dall’Egitto, appena avvenuta, e l’arrivo al monte Sinai, dove si definirà più chiaramente la sua identità di popolo dell’alleanza, legato al Signore in un modo speciale. In questa sezione si comprende sempre di più chi è questo Dio, quali sono il suo stile, la sua presenza e il suo modo di agire nella storia. Al tempo stesso, il popolo d’Israele, nella sua nuova condizione di libertà da oppressori esterni, si rende conto della necessità di dotarsi di organi di governo appropriati.
Un Dio che cerca collaboratori
La liberazione dall’Egitto non è stata solo un’azione dall’alto, come potrebbe sembrare di primo acchito: Dio ha scelto dei collaboratori per la sua opera. Israele, lungo la sua storia, fa costantemente esperienza dell’onnipotenza di Dio, ma si rende anche conto che Dio, pur avendone la possibilità, generalmente non vuole fare tutto da solo. Al contrario, ama servirsi di mediatori, sceglie uomini e donne deboli per portare avanti la sua missione. Come afferma il profeta Isaia, Dio è sempre l’Emmanuele, il Dio con noi, che sceglie di scrivere la sua storia con noi (cfr Isaia 7,14, ripreso in Matteo 1,23).
Nel Pentateuco la figura del servo del Signore (Deuteronomio 34,5) è Mosè, scelto per compiere insieme a Dio una serie di opere straordinarie. Per questo il racconto della sua vocazione, con tutte le difficoltà che lo attraversano, assume un ruolo centrale. Si tratta di un testo emblematico, perché, a ben vedere, mette in luce un enorme sbilanciamento: Dio decide di agire in favore del suo popolo se e solo se Mosè stesso sarà disposto ad agire con lui: Il Signore disse: «Ho osservato la miseria del mio popolo in Egitto e ho udito il suo grido a causa dei suoi sovrintendenti: conosco le sue sofferenze. Sono sceso per liberarlo dal potere dell’Egitto […]. Perciò va’! Io ti mando dal faraone. Fa’ uscire dall’Egitto il mio popolo, gli israeliti!» (Esodo 3,7-8a e 10). Il testo è spiazzante: ho osservato… ho udito… conosco… sono sceso... È chiaro che ad agire sarà Dio. Ma poi Dio stesso dice: Perciò va’, io ti mando. Fa’ uscire… Starà dunque a Mosè condurre fuori dalla schiavitù il popolo di Dio?
L’adagio che sottende molte pagine bibliche è spesso proprio questo: «Io lo farò… se tu lo farai. Io lo farò… con te». Cercare collaboratori fa dunque parte dello stile di Dio. Dio per primo condivide il suo progetto e il suo potere e chiama gli esseri umani a prendere parte alla trasformazione della storia, secondo il principio per cui Dio opera se essi collaborano. Lo si può osservare tanto nell’Antico quanto nel Nuovo Testamento. In tutti i Vangeli, ad esempio, l’inizio dell’attività pubblica di Gesù coincide con la chiamata dei discepoli a stare e, quindi, a collaborare con lui.
Esodo 18,13-27
13Il giorno dopo Mosè sedette a render giustizia al popolo e il popolo si trattenne presso Mosè dalla mattina fino alla sera. 14Allora il suocero di Mosè, visto quanto faceva per il popolo, gli disse: «Che cos’è questo che fai per il popolo? Perché siedi tu solo, mentre il popolo sta presso di te dalla mattina alla sera?». 15Mosè rispose al suocero: «Perché il popolo viene da me per consultare Dio. 16Quando hanno qualche questione, vengono da me e io giudico le vertenze tra l’uno e l’altro e faccio conoscere i decreti di Dio e le sue leggi». 17Il suocero di Mosè gli disse: «Non va bene quello che fai! 18Finirai per soccombere, tu e il popolo che è con te, perché il compito è troppo pesante per te; non puoi attendervi tu da solo. 19Ora ascoltami: ti voglio dare un consiglio e Dio sia con te! Tu sta’ davanti a Dio in nome del popolo e presenta le questioni a Dio. 20A loro spiegherai i decreti e le leggi; indicherai loro la via per la quale devono camminare e le opere che devono compiere. 21Invece sceglierai tra tutto il popolo uomini validi che temono Dio, uomini retti che odiano la venalità, per costituirli sopra di loro come capi di migliaia, capi di centinaia, capi di cinquantine e capi di decine. 22Essi dovranno giudicare il popolo in ogni circostanza; quando vi sarà una questione importante, la sottoporranno a te, mentre essi giudicheranno ogni affare minore. Così ti alleggerirai il peso ed essi lo porteranno con te. 23Se tu fai questa cosa e Dio te lo ordina, potrai resistere e anche tutto questo popolo arriverà in pace alla meta». 24Mosè diede ascolto alla proposta del suocero e fece quanto gli aveva suggerito. 25Mosè dunque scelse in tutto Israele uomini validi e li costituì alla testa del popolo come capi di migliaia, capi di centinaia, capi di cinquantine e capi di decine. 26Essi giudicavano il popolo in ogni circostanza: quando avevano affari difficili li sottoponevano a Mosè, ma giudicavano essi stessi tutti gli affari minori. 27Poi Mosè congedò il suocero, il quale tornò alla sua terra.
Tornando all’Esodo, troviamo un primo accenno a tale logica nello stesso racconto di vocazione di Mosè. Infatti, a fronte della difficoltà di parola da lui protestata, il Signore gli affianca Aronne, il fratello destinato a essere un aiuto (Esodo 4,14-17). I due compaiono insieme praticamente da subito (4,29-31) nella durissima contrattazione con Faraone. Si capisce tuttavia che rivestono ruoli diversi, perché è chiaro fin dall’inizio che è Mosè a dover mettere le sue parole sulla bocca di Aronne (Esodo 4,15). A lui resta dunque la responsabilità del contenuto della comunicazione, esattamente come accade tra Dio e i suoi profeti (cfr Geremia 1,9).
Vi sono dunque modi diversi di partecipare alla missione che Dio assegna, contro ogni pretesa di omologazione. Appare chiaro, nella Chiesa e nella società, come non siamo tutti chiamati a fare le stesse cose, ad agire nello stesso modo; ma questo non significa che non siamo tutti necessari, importanti nel contesto della comunità.
Non si può governare da soli
Il racconto dell’Esodo poi procede, con le alterne vicende che ben conosciamo e, finalmente, Israele si ritrova fuori dall’Egitto. Tale evento rende evidente uno dei tratti essenziali dell’identità di Dio: il Signore è Colui che mette la sua potenza a servizio di un progetto di liberazione integrale della persona. Le persone e le istituzioni che, come Faraone, pretendono di schiavizzare, di usare gli altri come se fossero cose a loro servizio, si pongono di fatto contro Dio e contro il suo progetto di vita. Gesù, portando a compimento quanto annunciato nella storia antica di Israele, dirà: Sono venuto perché abbiano la vita e l’abbiano in abbondanza (Giovanni 10,10).
Israele ha dunque sperimentato questa paradigmatica liberazione che segna in maniera indelebile la sua storia e la sua identità. Ha sperimentato anche che la liberazione voluta da Dio ha molto a che fare con la collaborazione tra i membri del suo popolo. A seguito di tale evento eccezionale
si pone il problema dell’ordinaria gestione del potere nel cammino nel deserto appena iniziato: chi dovrà provvedere al governo del popolo?
Il punto del capitolo 18 dell’Esodo è proprio questo: l’esercizio dell’autorità, nelle sue possibili declinazioni (cfr riquadro a p. 420). Nel testo, molto bello anche sotto il profilo narrativo, si dice che Ietro, suocero di Mosè, si reca da lui e si rallegra per la grande opera che il Signore ha compiuto per suo mezzo. È un momento di distensione per Mosè, di riconciliazione con un pezzo del suo passato (compaiono anche la moglie e i figli che aveva abbandonato) e di consapevolezza che davvero il Signore ha compiuto questa grande opera attraverso di lui, attraverso quell’uomo pauroso che non voleva accettare una missione avvertita come troppo rischiosa. Addirittura si riporta che Ietro, sacerdote di Madian, non ebreo, offre sacrifici a Elohim (altro nome con cui nella Bibbia ci si riferisce al Signore), in segno di ringraziamento, e organizza un grande banchetto. Sembra quasi che anch’egli, uno straniero, aderisca al culto del Signore (Esodo 18,1-12). Eventi grandiosi continuano ad accadere.
Ma presto si torna a situazioni più ordinarie. Il nostro testo infatti segnala un passaggio: il giorno dopo (v. 13). Terminata la festa, la vita riprende con le sue vicende consuete e Mosè si ritrova a dover rendere giustizia, cioè a dover giudicare le controversie degli Israeliti. Il narratore segnala che il popolo rimane presso Mosè dalla mattina fino alla sera, cioè tutto il tempo disponibile in una giornata. Sono già molte le questioni da risolvere per il popolo di Israele ormai liberato. Se infatti appare abbastanza facile individuare avversari e nemici esterni, più difficile e più sottile diviene invece il discernimento all’interno della medesima comunità, quando si deve trovare il modo di amministrare la giustizia tra fratelli.
Il testo mostra Mosè dedicarsi con grande attenzione a questo compito. Si siede, in modo da non essere preso da altre occupazioni: tutta la sua piena concentrazione è lì, nello stare proteso verso il popolo. Il popolo, parimenti, si rivolge fiducioso a Mosè (il popolo si trattenne presso Mosè, v. 13). Sembrerebbe andare tutto bene, se non per un piccolo particolare, che Ietro nota con grande intelligenza. Infatti, da uomo più anziano ed esperto, riconosce che il comportamento di Mosè è pericoloso e non potrà portare frutto a lungo andare. Nell’immediato sembra essere una buona soluzione: il grande condottiero si carica eroicamente sulle spalle il peso di tutto il popolo. Ma, alla lunga, questa impostazione non porterà del bene a nessuno. Ietro lo capisce, forse anche perché più esterno, meno coinvolto.
Il suo primo intervento consiste nell’interrogare Mosè, da un lato per chiedere chiarimenti, dall’altro proprio per cominciare a insinuare dubbi nel suo interlocutore. Gli chiede dunque in successione: «che cosa stai facendo?», «perché fai da solo?», «perché per così tanto tempo?». Mosè non sembra cogliere immediatamente la difficoltà che Ietro vuole segnalargli e, più che rispondere, semplicemente descrive quello che fa, presentandolo come l’unico modo per rispondere alla chiamata del Signore a essere la guida del suo popolo. Si ha quasi l’impressione che Mosè si aspetti qualche parola di lode dal suocero per il suo grande impegno e spirito di sacrificio.
Invece, la risposta del suocero è molto dura, quasi scioccante. Ietro si dimostra estremamente franco e capace di una correzione forte: Non va bene quello che fai! (v. 17). Il giudizio è secco, senza tanti giri di parole. La stessa espressione era già risuonata una volta, in modo altrettanto netto, in Genesi 2,18. A parlare era Dio, e il problema, peraltro, era davvero molto simile, ovvero quello della solitudine, dell’autoreferenzialità dell’uomo (adàm): «non è bene/buono che l’adàm sia solo». Lì, all’inizio di tutto, era intervenuto il Signore stesso per risolvere la questione di quella solitudine mortale, attraverso la creazione della donna. In questo passaggio le cose si possono risolvere ben più facilmente, ma è molto significativo che, in entrambi i casi, l’assenza di autentico bene abbia a che vedere con l’assenza di altri esseri umani, cioè di un aiuto adeguato.
Criteri per una leadership nello stile di Dio
Mosè dovrà rivedere il suo modo di governare, di esercitare la leadership, e smettere di fare da solo. Ietro lo aiuta a rendersi conto dei rischi del suo comportamento: rischia infatti di esaurirsi (finirai per soccombere, v. 18) e privare il popolo della guida di cui, invece, ha bisogno per arrivare alla meta che il Signore vuole donargli (v. 23). Troppo zelo rischia di essere controproducente, anche ai fini dell’esito della missione.
Una buona analisi del problema è certamente un passo importante, ma non è sufficiente. Ietro propone anche alcune indicazioni per la sua soluzione. In particolare, prospetta una suddivisione dei compiti secondo una serie di criteri. Da un lato, osserva come il ruolo fondamentale di Mosè debba essere quello di mediatore e intercessore. In altre parole, il suo primo compito consiste nel rimanere in comunicazione con il Signore, nel mantenere incessantemente aperto il canale di ascolto e di consegna a Lui delle varie istanze provenienti dal popolo. È fondamentale non perdere di vista questo aspetto, se non si vuole diventare dei semplici amministratori o gestori. Dall’altro, Ietro rimarca l’importanza di distinguere fra casi comuni, per dirimere i quali sono sufficienti una buona preparazione ed esperienza, e casi più complessi, che rimarrebbero riservati al giudizio di Mosè. Egli viene dunque invitato a scegliere dei collaboratori e istruirli (A loro spiegherai, v. 20); deve “perdere tempo”, o meglio, investirlo, in questa attività di formazione di una futura classe dirigente, preparandola a un ruolo di leadership. Si tratterà di una formazione contemporaneamente teorica e pratica, perché prevede certamente la spiegazione della normativa (che verrà esposta nel cap. 20), ma anche indicazioni sulla via, cioè sul modo di procedere e sulle azioni (opere) necessarie nello svolgimento del loro ruolo.
«Specialmente chi ha la responsabilità di governare, è chiamato a rinunce che rendano possibile l’incontro, e cerca la convergenza almeno su alcuni temi. Sa ascoltare il punto di vista dell’altro consentendo che tutti abbiano un loro spazio. Con rinunce e pazienza un governante può favorire la creazione di quel bel poliedro dove tutti trovano un posto. In questo ambito non funzionano le trattative di tipo economico. È qualcosa di più, è un interscambio di offerte in favore del bene comune».
Papa Francesco, Fratelli tutti, n. 190
La scelta delle persone giuste è fondamentale, e compete solo a Mosè: sceglierai tra tutto il popolo (v. 21). È interessante che il verbo ebraico qui reso con «scegliere», sia, in realtà, un verbo che significa «vedere». Esso viene utilizzato spesso per parlare del vedere tipico del profeta autentico, approvato da Dio. Il ruolo di Mosè consisterà dunque nell’esercitare la profezia, nel vedere quello che gli altri non vedono in termini di qualità personali decisive. Questi uomini dovranno infatti essere validi (cioè coraggiosi), ma anche persone che temono Dio, retti (cioè completamente affidabili) e che odiano la venalità.
Si tratta di un ritratto stupendo, ma certo non facilmente rintracciabile. Per questo il ruolo di Mosè resta essenziale nell’individuazione sapiente dei soggetti più adatti. Una volta che Mosè sarà riuscito a trovarli, essi saranno responsabili di diversi gruppi e saranno costituiti come capi a cui competerà il giudizio nelle situazioni controverse. Solo in alcune occasioni speciali (dette importanti, ma non meglio definite, v. 22) dovranno ricorrere a Mosè in persona.
L’esercizio della leadership viene così inteso in termini di condivisione di responsabilità: ti alleggerirai il peso ed essi lo porteranno con te (v. 22). Questo portare insieme il peso si rende certo necessario per ragioni di ordine pratico, ma, ancor prima, per una questione di senso: si tratta di qualcosa che il Signore stesso desidera e che ha scelto in prima persona di fare nel corso di tutta la storia con il suo popolo.
«Dio te lo ordina»
Ietro chiude il suo discorso in questi termini: Se tu fai questa cosa e Dio te lo ordina, potrai resistere e anche tutto questo popolo arriverà in pace alla meta (v. 23). Il suocero di Mosè ne è sicuro: Dio stesso te lo ordina!
Se Dio sceglie uomini per collaborare alla sua opera, a maggior ragione desidera che, nell’esercizio della leadership, si creino spazi di condivisione delle responsabilità e uno stile di governo che faccia emergere e dia valore a tutti coloro che possono offrire un contributo. Ciò non comporta affatto un indebolimento dell’autorità, ma una sua migliore determinazione e una migliore distribuzione dei ruoli. Mosè, infatti, viene aiutato, ma non totalmente sostituito, perché rimane chiaro che non si può fare a meno di lui, del suo “occhio” sulle persone da scegliere e del suo intervento nei casi particolarmente complessi. Il dono specifico di Mosè non viene quindi sminuito, ma si configura un nuovo equilibrio in cui dovrà continuare il suo servizio, senza pensare di non aver bisogno di nessuno. Ietro ha detto bene: chi fa tutto da solo muore sotto un peso che ha deciso scioccamente di portare.
Può capitare, nella Chiesa, come nella società nel suo complesso, che l’autorità sia concepita come un esercizio solitario, nel migliore dei casi eroico, rendendone dunque l’esercizio praticamente intollerabile e appunto da rifuggire, in un tempo di crisi e di grande complessità come il nostro. La Scrittura però ci ricorda che lo stile di Dio è diverso, e così è chiamata a essere l’arte di governare di chi si riconosce come parte del suo popolo. I suggerimenti di Ietro, e l’esempio stesso di Dio, possono aprire vie nuove e originali per chi viene chiamato a esercitare ruoli di leadership nel mondo d’oggi.