Laicità e bioetica

Prospettive filosofiche e teologiche sulla vita

Maurizio Chiodi, Massimo Reichlin
Morcelliana, Brescia 2016, pp. 120, € 13
Scheda di: 
Fascicolo: aprile 2017

La bioetica nasce con un duplice intento. Da una parte riflettere su come assumere in modo responsabile i nuovi spazi di intervento su vita e salute che l’evoluzione delle biotecnologie sottrae in misura sempre crescente agli automatismi della natura. Dall’altra favorire uno spazio di confronto in cui elaborare criteri condivisi per scelte che toccano non solo le singole persone, ma l’intera società. La discussione bioetica quindi interseca l’ambito dell’etica pubblica, mettendo in gioco la comune convivenza e l’incontro tra diverse prospettive presenti nelle società pluraliste. Nel nostro Paese il dibattito ci pone spesso di fronte a una marcata polarizzazione tra la posizione laica e quella religiosa (intesa come sinonimo di cattolica). Un contrasto invero caricaturale, perché basato su premesse semplicistiche e fuorvianti. Proprio da questo punto parte il volume che raccoglie i due contributi del filosofo Massimo Reichlin e del teologo Maurizio Chiodi. La loro riflessione consente di meglio comprendere presupposti che non reggono a un’analisi rigorosa, sventandone le insidie e ponendo basi più solide per riallacciare un dialogo che troppo spesso si è incagliato in sterili contrapposizioni.

Il contributo di Reichlin («L’appello alla laicità nel contesto della secolarizzazione. Il dibattito bioetico», pp. 9-48) ha un taglio propriamente filosofico. Inizia mettendo a fuoco alcuni tratti dell’attuale contesto secolarizzato, la cui principale caratteristica consiste in un progressivo affievolirsi del riferimento a Dio nella sfera pubblica. La dimensione religiosa viene sospinta nella sfera privata, rendendo così l’opzione personale di fede molto meno diffusa e scontata che in passato. È in questo quadro che prende rilievo il discorso sulla laicità, una parola che può essere intesa in diversi modi e che anche in campo etico non si concretizza in un’unica e monolitica posizione. L’A. passa quindi in rassegna quattro modelli di «etiche laiche», evidenziandone elementi positivi e punti deboli. Tre di questi si situano nell’alveo della tradizione liberale. Il loro comune denominatore consiste nella chiara distinzione tra ambito pubblico e sfera individuale, nella quale ciascuno può vivere le proprie preferenze valoriali, sia come singolo sia come appartenente a comunità morali fra loro eterogenee e (relativamente) autonome dalla società nel suo complesso. Secondo alcuni, che argomentano in base ai criteri della «ragione pubblica» (John Rawls), nell’ambito pubblico è possibile condividere un nucleo molto ristretto di valori, riconducibili alla giustizia (libertà politica e civile, eguaglianza delle opportunità, onorare il proprio dovere civico); secondo altri, invece, non è possibile riferirsi a nessun valore sostanziale, ma solo a procedure che regolano la formazione del consenso nel dialogo tra soggetti razionali e autocoscienti (Hugo T. Engelhardt). Altri ancora, poi, negano entrambe le possibilità: i giudizi morali non sono che opinioni soggettive, tutte ugualmente legittime, ma prive di ogni validità oggettiva, poiché non esiste una verità morale («non cognitivismo»). Il principio che ha la priorità su tutti gli altri diventa allora quello dell’autonomia individuale, intesa come autodeterminazione (cfr «Manifesto di bioetica laica», in Il Regno-Documenti, Documenti, 15/1996, 1º agosto 1996, 474). Una quarta posizione afferma invece l’urgenza di contrapporsi attivamente a tutte le religioni, ritenute intolleranti e false: lo spazio pubblico va quindi liberato da ogni riferimento religioso, per affermare i valori della laicità (Carlo Augusto Viano). Fra questi, al vertice si pone la qualità della vita, che consiste nel «massimizzare il benessere e/o l’autonomia individuale» (p. 35).

Diversi sono i punti deboli di queste impostazioni, puntualmente evidenziati nel testo. Ci basti qui ribadire come l’identità laica non sia per nulla univoca: diversi modelli affermano opinioni e valori differenti, talvolta fra loro conflittuali. Per questo l’intervento di Reichlin si conclude sostenendo una nozione di laicità come «metodo del dialogo e del rispetto reciproco» (p. 41), necessario sia per i credenti sia per i non credenti. A tutti è consentito partecipare al dibattito pubblico. Ma questo richiede da una parte la disponibilità a mettere in questione le proprie precomprensioni, provenienti da una visione generale del senso e della vita umana, lasciandosi istruire dalle cose stesse e dalle ragioni degli altri; dall’altra l’impegno a rendere le proprie argomentazioni coerenti e comprensibili per gli altri, esponendosi alla verifica intersoggettiva. Il confronto è un aiuto per avvicinarsi alla verità. Essa è unica, ma accessibile per molte vie, data la condizione storica degli esseri umani. Il dialogo favorisce tale cammino. La nozione di laicità proposta esige anche di saper distinguere tra convinzioni morali personali e scelte collettive e di non far immediatamente coincidere le prime con le seconde: è al bene comune, così come va inteso in una società pluralista, che tale passaggio deve essere commisurato, nella permanente ricerca di un «massimo comune denominatore sostanziale» (p. 46).

Il risultato raggiunto attraverso l’analisi filosofica viene confermato e integrato sul piano teologico dal contributo di Chiodi («La forma storica della libertà e l’universalità della fede. La questione della bioetica», pp. 49-119). L’interrogativo di partenza è se sia possibile per l’etica teologica partecipare al dibattito pubblico, visto che si riferisce a comandamenti ricevuti da Dio, cioè a contenuti esplicitamente religiosi non da tutti condivisi. La questione che sta alla radice di questa domanda è se possa «la coscienza cristiana pretendere di avere una valenza morale universale» (p. 50) senza rinunciare alla sua connotazione religiosa. Per affrontarla, l’A. esamina il legame tra universalità della morale e irriducibilità della fede, esponendo quattro diversi modelli etici. Il primo modello è quello della sacralità della vita, che è spesso ritenuto – in modo equivoco se non erroneo – esemplare della posizione cattolica e contrapposto a quello della qualità della vita. Il secondo è quello dell’autonomia, così come è elaborato dal teologo tedesco Eberhard Schockenoff. Segue poi una sintesi della proposta del teologo Giuseppe Angelini, nel cui pensiero trova notevole rilievo il contributo della fenomenologia; come ultimo modello sono presentati i tratti essenziali della riflessione del filosofo francese Paul Ricœur sul comandamento «non uccidere» nel contesto del rapporto tra fede e giustizia. Grazie alla panoramica compiuta, Chiodi giunge a identificare come snodo cruciale il rapporto tra ragione e fede: il suo intento è di superare interpretazioni che ne cercano una concordanza forzata (primo modello), una giustapposizione poco integrata e strumentale (secondo modello) o una distinzione che non riconosce la qualità religiosa presente nella comune esperienza delle relazioni umane (quarto modello). Per esplorare più a fondo il modo in cui ragione e fede sono correlate, prolungando il percorso di Angelini, Chiodi risale all’articolazione tra coscienza etica e coscienza credente (cristiana). L’approccio fenomenologico consente di far emergere come nella dinamica della coscienza ci sia una reciproca implicazione fra etica e fede: nella comune esperienza umana il credere è presente come atto della libertà che decide di affidarsi a un senso antecedente a ogni iniziativa. La nozione di vita, così centrale per la riflessione bioetica, permette di cogliere questi due aspetti: l’essere umano fa, per un verso, esperienza della vita come dono passivamente ricevuto, e, per altro verso, è sollecitato a dare libera risposta al senso della vita che lo anticipa. Al tempo stesso, la reciproca implicazione è segnata dall’asimmetria, poiché il compimento di tale senso non è deducibile dall’anticipazione. L’esperienza etica del cristiano ha quindi un rapporto duplice con la struttura antropologica: le è debitrice (perché ne è anticipata) e ne è testimonianza (perché ne mostra, pur sempre parzialmente, il compimento, come realizzazione della promessa nel Signore Gesù).

Nel complesso il volume costituisce un valido contributo al dibattito bioetico: in modo sintetico, ma articolato, chiarisce equivoci che frequentemente ricorrono. Le ragioni che sostengono la legittimità della partecipazione della teologia al dialogo tra i saperi sono ben presentate. Esse forniscono spunti di meditazione sia ai teologi, perché il loro modo di argomentare risulti coerente e per tutti comprensibile, sia a coloro che si professano non credenti, perché non rimangano prigionieri di precomprensioni dogmatiche. Certo ulteriori chiarimenti saranno necessari perché impostazioni filosofiche differenti giungano a intendersi. Opinioni laicamente orientate che si trovano più in sintonia con le scienze empiriche sono infatti poco sensibili al tema dell’esperienza, in particolare con riferimento alla coscienza. Esse ricorrono piuttosto a fenomeni oggettivabili – o per lo meno pubblicamente rilevabili – come il linguaggio, nelle sue diverse dimensioni. Si tratta di un approccio che si trova in assonanza con atteggiamenti mentali e disposizioni conoscitive propri delle scienze empiriche e quindi più accessibile a chi pratica la ricerca scientifica. Tuttavia, la equilibrata concezione della laicità sostenuta nel volume può senz’altro favorire questo incontro, nella consapevolezza che la testimonianza cristiana si sviluppa non solo sul piano esistenziale, nella ricerca di prossimità e di solidarietà, ma anche sul piano intellettuale, con una riflessione rigorosa circa quanto promuove l’umano.

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