La terza guerra mondiale colpisce l’Italia

Partiti per una crociera, rientrano come vittime della terza guerra mondiale: è questo il destino toccato ai nostri connazionali uccisi nell'attentato al museo di Tunisi. Mentre giustamente ci stringiamo intorno alle loro famiglie, come Paese dobbiamo anche chiederci che cosa significa che siamo parte di questo conflitto e come vogliamo assumere il fatto che ne siamo coinvolti.

Se non vogliamo ridurla a un banale stereotipo, affermare che è in corso la terza guerra mondiale richiede di cambiare il modo con cui abitualmente guardiamo alla geopolitica globale. Innanzi tutto - e i fatti di Tunisi lo confermano ancora una volta - occorre aggiornare la definizione di guerra e riconoscere quanto siano mutate le forme della violenza bellica: in un certo senso, le guerre sono state "de-istituzionalizzate" e questo spiega perché cresca il numero di vittime civili (ben più di quello dei caduti militari).

Inoltre, racchiudere tutti i conflitti sotto l'etichetta "mondiale" richiede di riconoscere come non si tratti di eventi occasionali distribuiti in modo più o meno casuale sul globo, ma di processi che si diffondono attraverso le reti sociali e creano condizioni che rafforzano l'uso della violenza.

 Infine, e soprattutto, se prendiamo sul serio il fatto che la guerra è mondiale, cadono gli alibi che permettono - a chiunque nel mondo, ma in particolare a noi occidentali - di considerarcene fuori, o tutt'al più di pensarci solo come potenziali vittime di guerre altrui. Che cosa vuol dire davvero che “noi” siamo in guerra? Con quanti diversi ruoli siamo coinvolti, magari non come singoli, ma come Paesi o come Occidente? Non sono forse (anche) fra noi «Questi pianificatori del terrore, questi organizzatori dello scontro, come pure gli imprenditori delle armi, [che] hanno scritto nel cuore: “A me che importa?”» (per riprendere le parole di Papa Francesco a Redipuglia)?

E così «la nostra economia uccide» e dunque diventa un'arma della terza guerra mondiale. Che conseguenze ne derivano per i (nostri) proclami “occidentali” in materia di diritto alla vita e di dignità inviolabile di ogni persona? E quale differenza c'è tra le vittime della “mano invisibile” (o forse nascosta) del mercato e quelle delle armi visibili (e mediaticamente ostentate) dei terroristi? Con onestà dobbiamo riconoscere che la risposta a queste domande sarà diversa a seconda di dove si colloca chi la dà. Del resto, «fino a quando non si eliminano l'esclusione e l’inequità nella società e tra i diversi popoli, sarà impossibile sradicare la violenza. Si accusano della violenza i poveri e le popolazioni più povere, ma, senza uguaglianza di opportunità, le diverse forme di aggressione e di guerra troveranno un terreno fertile che prima o poi provocherà l’esplosione» (Papa Francesco, Evangelii gaudium n. 53 e ss).

Queste domande scomode ci portano a renderci conto che dentro le nostre strutture economiche, sociali, culturali, mediatiche e politiche c'è probabilmente più “ISIS” di quanto siamo disponibili ad ammettere. Prenderne atto è un passaggio obbligato per affrontare il problema e trovare una soluzione che costituisca la base di un ordine mondiale più equilibrato e pacifico. Difendere gli innocenti (tutti, a prescindere dalla loro nazionalità o religione) che l’ISIS minaccia di uccidere fermando l'ingiusto aggressore è certamente un dovere. Risulta più credibile e soprattutto più efficace a lungo termine se si accompagna allo sforzo, anche spirituale e ascetico (uno dei significati del termine jihâd), di fare i conti con quanto di “ISIS” è, malgrado tutto, anche dentro di noi.

Puoi approfondire la riflessione leggendo l'editoriale di Aggiornamenti Sociali «Combattere l'ISIS», di cui sono proposte qui alcune riflessioni.
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