La Terra deve essere considerata
come lo scenario in cui si svolgono le vicende umane, alle quali
soltanto va riconosciuta la capacità
di dipanare una storia, e che costituiscono l’oggetto esclusivo dei
racconti storici? Se guardiamo alla
tradizione accademica che abbiamo ereditato, la risposta è affermativa. Tutti abbiamo imparato a
scuola che l’inizio della storia coincide con l’introduzione della scrittura: quanto precede, cioè la grandissima maggioranza del tempo
della vita sulla Terra e della stessa
specie umana, è relegato una indistinta preistoria, oggetto in parte dell’archeologia ma soprattutto
delle scienze geologiche e biologiche. La sfida delle environmental humanities, un filone di ricerca
emerso negli ultimi anni e al quale
questo libro dell’antropologo indiano Amitav Ghosh va ascritto,
consiste anche nel superare questo
paradigma consolidato, attraverso
un approccio interdisciplinare che
rende possibile una narrazione storica, non più soltanto umana, della
quale sono protagonisti anche i vari elementi del mondo naturale e la
Terra, considerata come un insieme
vivente.
Con questo approccio, l’A. torna
a rileggere la storia della colonizzazione europea, mettendo
al centro della sua analisi il processo di “terraformazione”, cioè
di radicale trasformazione degli
ecosistemi, messo in opera nelle
colonie dai Governi e dalle grandi
imprese commerciali dedite allo
sfruttamento delle risorse locali.
Qui entra in gioco la noce moscata
del titolo. Il racconto parte dalle
isole Banda, un piccolo arcipelago
vulcanico nelle Molucche, oggi in
territorio indonesiano. All’inizio del
diciassettesimo secolo, queste isole
divennero oggetto di un radicale
esperimento sociale e ambientale,
ad opera della Compagnia olandese delle Indie Orientali, alla quale
il Governo olandese aveva concesso il monopolio dei commerci
su vasta parte dei propri possedimenti coloniali, insieme al diritto
di costruire fortificazioni, compiere
azioni di guerra e stipulare trattati.
Completamente svuotate dei propri abitanti, uccisi o deportati, le
isole Banda vennero trasformate interamente in un complesso di
grandi piantagioni, in cui fu reinsediata una popolazione di schiavi di
diversa provenienza. A partire da
questo esempio, l’A. ripercorre il
processo di soggiogamento delle
terre e dei loro primi abitanti, lungo tutta l’epoca coloniale, e traccia
un percorso che, dallo sfruttamento intensivo delle risorse
delle colonie, conduce
alle conseguenze
dei cambiamenti
climatici antropogenici.
Narrare la
storia dello
sfruttamento
coloniale non
è un’operazione nuova, ma
ciò che rende interessante il libro
di Ghosh è il quadro
concettuale nel quale
questa storia viene riletta.
L’assunto di base della “terraformazione” è un cambiamento di paradigma: svuotata di ogni riferimento
simbolico, la Terra viene rappresentata dai colonizzatori come
uno spazio neutro ed omogeneo,
inerte, meccanicamente ricomponibile per formare “nuove Europe”
in ogni angolo del mondo. Alle
origini del dramma coloniale c’è
dunque uno scarto epistemologico,
che l’A. rielabora contrapponendo
due categorie: vitalismo e meccanicismo. I termini vanno compresi
correttamente perché significano
varie cose nella nostra tradizione
filosofica. Parafrasando, il vitalismo
è per Ghosh una comprensione
simbolica della realtà, aperta alla
trascendenza, e che è caratteristica
delle culture indigene; il meccanicismo corrisponde a quello che l’enciclica Laudato si’, più volte citata
nel testo, chiama “paradigma tecnocratico”. L’A. recupera a questo
scopo anche la controversa “ipotesi
Gaia” del chimico James Lovelock,
che comprende la Terra come un
complesso sistema sinergico e
autoregolante, capace di reazione.
Ghosh mette questa concezione in dialogo con le
tradizioni cosiddette
animiste, che più
correttamente
dovremmo
chiamare religioni cosmiche, dei popoli indigeni,
sottolineando
anche il ruolo
che esse svolgono nel sostenere
le rivendicazioni di
queste popolazioni
contro i progetti di sfruttamento dell’Amazzonia e di altre
aree del mondo.
In questa affermazione del valore
simbolico del mondo e del potere
trasformativo di tale visione risiede, a nostro giudizio, il contributo
più importante del volume. Poiché
il paradigma tecnocratico forma
un sistema di comprensione della
realtà coerente e chiuso in sé, riscoprire il valore ermeneutico dei
simboli, dei riti e delle narrazioni,
senza rinunciare al contributo delle
scienze naturali, permette di uscire
dal paradigma per affrontare la crisi ambientale in modo ecumenico,
rendendo ogni persona protagonista dello sforzo comune, sulla base
delle risorse culturali del proprio
territorio e della propria storia.