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La Francia in piazza, tra proteste e proposte

Foto di ev su Unsplash

Fascicolo: maggio 2023

Negli ultimi tre mesi più volte abbiamo letto le notizie delle proteste in corso in Francia, facendo fatica a capire fino in fondo che cosa stesse accadendo, sperimentando forse un senso di stupore, un misto di ammirazione e incredulità, di fronte alle immagini delle centinaia di migliaia di persone che manifestavano o delle strade dove man mano si accumulava la spazzatura, abbandonata dai netturbini in sciopero. La proposta di riforma del sistema pensionistico, fermamente voluta dal presidente Emmanuel Macron, è all’origine di questa ampia e composita protesta, capace di unire generazioni diverse e diffusa su tutto il territorio francese, da Parigi, indiscusso baricentro politico ed economico, alle altre città e alle zone di campagna. Dal punto di vista legislativo, il braccio di ferro ingaggiato tra il Governo e le piazze si è concluso con l’entrata in vigore della riforma, avvenuta a metà aprile, ma alcune questioni sollevate nel corso di questi mesi restano ancora aperte e meritano di essere richiamate e approfondite.

 

La proposta di Macron

In Francia, così come in altri Paesi occidentali, tra cui – come sappiamo bene – anche l’Italia, la sostenibilità del sistema pensionistico è da tempo all’ordine del giorno: un tema spinoso e inevitabile (nel corso degli ultimi quarant’anni il complesso sistema francese, in cui coesistono ben 42 regimi diversi, è stato rivisto in più occasioni), ma anche difficile da affrontare, come attestano le proteste di questi giorni e alcuni tentativi di riforma del passato, naufragati a causa delle forti resistenze incontrate. Eppure, per quanto sia un tema politicamente delicato, non può essere eluso: secondo i dati forniti dall’Ageing Working Group della Commissione europea, la spesa per le pensioni in Francia nel 2019 era pari al 14,8% in rapporto al PIL (il dato per l’Italia è 15,8%)1: una percentuale ritenuta troppo elevata – e destinata a crescere ulteriormente nel momento in cui la generazione dei baby boomer andrà in pensione – se si considera il debito pubblico del Paese e il continuo innalzamento delle aspettative di vita della popolazione, che pure ha un andamento demografico migliore rispetto a quello italiano, che rende meno grave il problema dell’invecchiamento generale.

Già nel 2019 Macron aveva sollevato il tema della riforma del sistema pensionistico, per poi accantonarlo a causa del sopraggiungere della pandemia da COVID-19. A distanza di quattro anni, e dopo la rielezione per un secondo mandato nel 2022, il Presidente francese ha rimesso la questione al centro dell’agenda politica, presentando la proposta, ora divenuta legge. Senza entrare nei dettagli, ricordiamo che la misura principale, e particolarmente contestata, è quella dell’innalzamento dell’età minima per andare in pensione, portata dagli attuali 62 anni a 64 anni entro il 2030. Inoltre, è stato deciso che dal 2027 saranno necessari 43 anni di contributi per ottenere una pensione senza decurtazioni per tutti i lavoratori. Di fatto, questa duplice previsione determina come conseguenza che i lavoratori, soprattutto quelli che sono entrati tardi nel mondo del lavoro, per non subire penalizzazioni economiche saranno incentivati a rinviare l’accesso alla pensione oltre l’età minima necessaria. Infine, secondo le previsioni del Governo, l’insieme delle misure adottate dovrebbe assicurare a regime un miglioramento dei conti della spesa per le pensioni, permettendo così di destinare una parte delle risorse risparmiate a finanziare l’aumento dell’importo delle pensioni minime a 1.200 euro, una misura su cui il Governo ha fatto particolarmente leva, senza particolare successo, per far accettare la propria proposta.

 

Quale riforma fare?

Le ampie contestazioni alla riforma, portate avanti in un primo momento dai sindacati, ma che poi si sono estese anche ad altri settori della società civile, potrebbero far immaginare che vi fosse una preclusione a qualsiasi intervento di modifica. In realtà, secondo un sondaggio reso pubblico a metà gennaio 20232, in contemporanea alla presentazione del progetto di riforma, sei francesi su dieci si erano detti favorevoli a un intervento sul sistema pensionistico, convinti che fosse necessario, ma rifiutavano le soluzioni avanzate dal Governo, soprattutto le due misure principali poi approvate: l’innalzamento dell’età pensionabile e degli anni di contributi.

Anche nei dibattiti pubblici e negli slogan scanditi nelle strade, la contestazione del pacchetto di misure proposto dal Governo è stata spesso accompagnata alla proposta di soluzioni alternative: prevedere, ad esempio, che per ragioni di giustizia lo sforzo per riequilibrare i conti sia sostenuto in misura maggiore da quanti sono più ricchi; oppure, come richiesto dai più giovani, che gli stage non siano pagati una miseria, che vi sia parità di retribuzione tra uomini e donne, che si lavori sul fronte delle misure di contrasto alla disoccupazione, per accrescere l’importo dei contributi versati. Un altro punto importante, che riguarda la visione d’insieme, è stato sollevato dall’economista Thomas Piketty: «Il Presidente francese sta applicando ricette inadatte, come se fosse rimasto intellettualmente fermo all’euforia liberista degli anni novanta e dei primi anni duemila, al mondo prima della crisi economica del 2008, della pandemia e della guerra in Ucraina. Ma oggi dobbiamo affrontare l’aumento delle disuguaglianze, l’eccessiva concentrazione dei patrimoni, la crisi climatica ed energetica. È urgente investire nella formazione e nella salute e creare un sistema economico più equo in Francia, in Europa e nel resto del mondo. Il Governo di Parigi, invece, continua a condurre una politica antisociale d’altri tempi»3.

Ascoltando questo insieme di voci, si coglie bene che il punto dibattuto non è tanto “se” procedere a una riforma delle pensioni: vi è una consapevolezza diffusa che il sistema attuale non può essere mantenuto e che l’inerzia decisionale sarebbe la causa di una profonda ingiustizia, in particolare nei confronti di coloro che sono entrati da poco nel mondo del lavoro o lo faranno a breve. La questione allora diviene “quale” riforma realizzare, facendo attenzione a non limitarsi esclusivamente ai profili economici e demografici, a non ripetere modelli adottati nel passato che oggi possono essere insufficienti alla luce dei cambiamenti in atto nella società, a dare maggior peso al criterio della giustizia sociale per orientarsi nella ricerca di soluzioni.

 

«Métro, boulot, caveau»: che ne è del lavoro?

La necessità che si rifletta in modo diverso, che siano ampliati gli elementi presi in considerazione, è particolarmente forte presso i giovani che hanno manifestato nel corso di questi mesi. Vederli sfilare a fianco degli adulti, ricorrendo anche a modalità inusuali per attirare l’attenzione e la simpatia dei propri coetanei, come nel caso dei video di Mathilde Caillard, che “protesta ballando” la musica techno, divenuti virali nei social media, solleva inevitabili interrogativi sul perché lo facciano.

Una prima risposta è data dai cartelli che vengono portati nei cortei e dalle dichiarazioni che rilasciano quando sono intervistati. La rivisitazione della tradizionale e molto informale espressione francese métro, boulot, dodo (metropolitana, lavoro, nanna), usata per indicare una vita concentrata sulla dimensione lavorativa, in métro, boulot, caveau (metropolitana, lavoro, tomba) mostra bene quanto il tempo del lavoro e la durata della vita lavorativa siano cruciali per i più giovani. Si coglie il timore che le misure proposte finiscano per sbilanciare gli equilibri oggi esistenti in una direzione ritenuta ancora più negativa e insoddisfacente. Una sensazione condivisa pure da quelli che stanno ancora svolgendo un percorso di studi, anche perché più di un milione di studenti francesi (circa il 40% del totale) sono già attivi in vario modo nel mondo del lavoro e si confrontano con le sfide che pone.

Nella loro esperienza lavorativa, condividono probabilmente l’insoddisfazione sperimentata dai loro colleghi più adulti. Alcuni studi realizzati negli ultimi anni in Francia mostrano, infatti, che i lavoratori non trovano nella professione che svolgono una dimensione di realizzazione, prevale piuttosto la frustrazione per la mobilità sociale sempre più limitata, per il livello dei salari, per una cattiva gestione dell’organizzazione del lavoro, per i difficili rapporti con i colleghi, per un generale senso di obbligo nello svolgere i compiti affidati.

Presso la fascia più giovane, sembra emergere però una domanda ancora più radicale, soprattutto in questa fase successiva alla pandemia, che ha visto affermarsi i fenomeni della great resignation (grandi dimissioni) e del quiet quitting (abbandono silenzioso). Gli elementi del salario e delle prospettive di carriera non sono più gli unici tenuti in conto per valutare la propria soddisfazione nell’ambito lavorativo, ma diventano sempre più centrali anche altri fattori, in particolare la considerazione dell’apporto che si dà alla società con il proprio lavoro e il bilanciamento tra il tempo lavorativo e le altre dimensioni della vita, in modo tale che la propria occupazione non sia più un fattore che fagocita il resto, ma un’ulteriore occasione di crescita (cfr l’intervista a Luc Carton sull’aspetto della gestione del tempo in riferimento alla partecipazione alla vita democratica, pp. 298-308). Riflettendo su queste richieste, l’esperto del mondo del lavoro Anthony Hussenot individua un’implicita sollecitazione a realizzare un cambio di paradigma, a mettere a tema «l’emersione del diritto all’affermazione professionale», che prende le distanze dall’omologazione dei lavoratori, dalla loro riduzione a risorse da impiegare4.

 

Difendere gli spazi di confronto

Quanto è accaduto in Francia negli ultimi mesi ci fa cogliere con chiarezza che le proteste per la riforma del sistema pensionistico portano con sé anche un insieme, alle volte ancora confuso e balbettante, di richieste e proposte che va al di là degli aspetti più tecnici di quando e come potersi ritirare dal mondo lavorativo. Ad esempio, di fronte alla prospettiva di un prolungamento degli anni della vita lavorativa, è legittimo ipotizzare che le grandi attese, anche emotive, su quanto si potrà realizzare quando si andrà in pensione saranno riviste, in parte ridimensionate e auspicabilmente anticipate, per trovare già negli anni del lavoro il modo per realizzarle. Così come sarà necessario iniziare a riflettere su come potranno essere configurati il ruolo e l’apporto delle persone nei luoghi di lavoro tenendo conto della progressione dell’età.

Il cambiamento di scenario che si delinea sollecita direttamente le istituzioni pubbliche e le parti sociali a ridefinire i criteri e i modelli fin qui seguiti. Nel pensare o ripensare una riforma del sistema pensionistico non si può più fare riferimento solo agli ultimi anni della vita lavorativa e alla dimensione economica, ma va tenuto in conto l’intero ciclo del lavoro e considerata anche la sostenibilità sociale e ambientale delle scelte compiute. Un esempio in questa direzione sono le proposte avanzate e le prime sperimentazioni di una settimana lavorativa di quattro giorni, che implicano una serie di conseguenze sul piano dell’impatto ambientale e di cambiamenti dell’organizzazione della vita individuale e sociale, potenzialmente interessanti ma ancora da valutare. E guardando ancora più lontano, qualsiasi valutazione richiede di fare lo sforzo fin da oggi di immaginare la società di domani che desideriamo, toccando così temi che rientrano in politiche apparentemente lontane da quelle che si occupano delle pensioni (si pensi, ad esempio, alle politiche migratorie oppure agli interventi nel campo dell’istruzione e della formazione), ma che richiedono di essere affrontati insieme affinché si possano ricercare e soprattutto attuare soluzioni frutto di una riflessione comune e condivisa.

Significativo in questo senso è che la partecipazione attiva dei più giovani alle manifestazioni sia sensibilmente aumentata dopo la decisione del Governo di avvalersi di una previsione della Costituzione francese (l’art. 49.3), che permette di evitare il voto dell’Assemblea nazionale se vi è stata l’approvazione del Senato. Questa scelta, unita alle decisioni di chiudere alcune sedi universitarie o di limitare il diritto di riunirsi, è stata giudicata severamente, interpretata come un segnale preoccupante dei rischi che corrono gli spazi di confronto tra i portatori di visioni e istanze distinte. Proprio quest’ultimo elemento è ciò che emerge con forza come il tassello mancante nel quadro di quanto accaduto negli ultimi mesi in Francia, retaggio di una storia in cui il dialogo tra le parti sociali ha spesso avuto vita difficile. Di fronte a una riforma complessa e delicata, che tocca la vita di milioni di persone e va incidere non solo sulle aspettative che si nutrono, ma anche sui diritti acquisiti, gli spazi per realizzare il dialogo e la mediazione sono stati quelli più bistrattati e carenti. Il fatto che se ne siano resi conto in particolare i più giovani e che in molti casi abbiano scelto di prendere posizione anche pubblicamente è positivo e incoraggiante.

 

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