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La democrazia cambia pelle

Le recenti vicende politiche in Italia e nel Regno Unito evidenziano il progressivo svuotamento di vitalità della democrazia rispetto all’inizio del Novecento. Il rilancio della democrazia passa per la sua inculturazione nel mondo dei social network e dell’intelligenza artificiale.
Fascicolo: ottobre 2019

Il secondo Governo Conte, con i suoi toni decisamente compassati, avrà fatto tirare un sospiro di sollievo a quanti erano rimasti inorriditi dallo spettacolo offerto dalla politica italiana durante l’estate in termini di volgarità, pochezza e superficialità delle argomentazioni e non di rado autentica ignoranza. Ad altri avrà dato la sensazione di un ritorno al passato, più o meno gradito a seconda dei gusti di ognuno. Ma la chiusura della crisi politica non mette fine a una situazione di affaticamento e progressivo svuotamento della vitalità della democrazia che ormai va avanti da anni e che non riguarda solo l’Italia. Tra i grandi Paesi europei che paiono trovarsi in una situazione molto simile alla nostra, se non addirittura peggiore, il caso più macroscopico è senz’altro quello del Regno Unito, culla della democrazia, che sembra avvitarsi in una crisi costituzionale inedita nella sua storia.

Dobbiamo considerare questa dinamica come ormai irreversibile? Proveremo ad affrontare questa domanda nelle pagine che seguono, dichiarando fin da subito che non è nostra intenzione valutare la bontà della nuova maggioranza, e ancor meno esprimere una prognosi sulla durata e sulle performance del nuovo Governo. Se qualcosa abbiamo imparato è che in ogni momento ci si può aspettare di tutto, spesso come risultato di dinamiche personali dei leader: a riprova, mentre andiamo in stampa, giunge la notizia della scissione del PD con la fuoriuscita del gruppo guidato da Matteo Renzi. Ci sembra assai più fruttuoso provare a capire come stare dentro a questa situazione in modo costruttivo, come cittadini affezionati alla democrazia e come cattolici ancora sensibili al valore del bene comune.

Mutazioni in corso

Per molti di coloro che hanno vissuto con passione l’esperienza democratica e politica italiana ed europea della seconda metà del XX secolo è innegabile un sentimento di umiliazione e avvilimento perché, con ogni evidenza, il dibattito pubblico, onesto e appassionato, che si regge sul valore dato alla parola e mira a identificare soluzioni condivise e inclusive, non è più considerato, neppure teoricamente, il motore di un sistema autenticamente democratico. A questo si aggiunge l’esperienza della frustrazione: quanti si sono levati per manifestare il proprio sdegno si sono ritrovati in trappola. La propaganda ha saputo utilizzarli per aumentare su media vecchi e nuovi l’esposizione dei leader contro cui prendevano la parola, accrescerne ancora la popolarità e concentrare l’attenzione dell’opinione pubblica sui temi che stanno loro a cuore. È un dilemma che appare senza uscita: se si prende la parola si viene manipolati e il risultato è ancora peggiore; se si tace si dà l’impressione di acconsentire o essere conniventi.

 

Dall’impasse usciamo solo se ci rendiamo conto e accettiamo che la democrazia non è malata, ma sta cambiando pelle, come del resto è già successo più volte nel corso della sua storia

 

Per i democratici cattolici si aggiunge una umiliazione supplementare: quella di vedere simboli della fede trasformati in talismani alla conquista del consenso di una opinione pubblica che è alla ricerca disperata di punti di riferimento affidabili, ma privati di qualsiasi connessione riconoscibile con il messaggio evangelico. L’inevitabile botta e risposta che ne consegue si ritorce comunque contro la comunità cristiana, perché emergono spaccature partigiane al suo interno, mentre chi è un po’ più distante non può fare a meno di provare fastidio e convincersi che è meglio stare alla larga.

 

Una profonda disaffezione nei confronti della democrazia è ormai certificata anche da statistiche internazionali. Secondo un sondaggio svolto in 27 Paesi da Pew Research e pubblicato nello scorso aprile, in media il 51% degli intervistati è insoddisfatto di come la democrazia sta funzionando nel proprio Paese, con un minimo del 30% in Svezia e un massimo dell’85% in Messico. In Italia la percentuale di insoddisfatti risulta nel 2018 del 70%. Il malcontento affonda le radici nelle preoccupazioni per l’economia, per la tutela dei diritti individuali e i privilegi delle élite, ed è alla base dell’affermazione di leader e movimenti che si definiscono antisistema. Questo affaticamento della democrazia è confermato dalla sensazione che essa abbia perduto la propria capacità propulsiva del cambiamento sociale. In molti Paesi, e in particolare tra i più giovani, le forze democratiche sono spesso percepite impegnate nella difesa dello status quo, mentre le proposte più radicali di cambiamento sociale, che catturano l’immaginazione e accendono l’entusiasmo, paiono provenire da forze di diversa matrice.

Non è più il tempo però di fermarci a lamentare la crisi della democrazia, con il rimpianto più o meno velato per un’epoca d’oro ormai smarrita o rovinata dall’azione di alcuni attori politici. Questi discorsi ci trattengono con lo sguardo rivolto al passato. È venuto il momento di metterci il cuore in pace: la democrazia come l’abbiamo conosciuta e praticata nella seconda metà del XX secolo non esiste più ed è inutile pensare che sia possibile restaurarla, anche se questo può far soffrire soprattutto chi ha vissuto con passione quegli anni.

Dall’impasse usciamo solo se ci rendiamo conto e accettiamo che la democrazia non è malata, ma sta cambiando pelle, come del resto è già successo più volte nel corso della sua storia. La democrazia ateniese non è quella dei Comuni medievali o dei Cantoni svizzeri, né quella elitaria e censitaria del liberalismo ottocentesco. Di ciascuna di queste facce della democrazia, peraltro, la storia mette in rilievo i pregi ma anche i difetti e le contraddizioni, così come farà con quella di massa del XX secolo. Oggi come in passato il cambiamento è il risultato congiunto di una serie di spinte molto varie, in cui tutti siamo coinvolti e in qualche modo abbiamo parte attiva. Cambia la scala degli attori geopoliticamente rilevanti: non più gli Stati nazionali proiettati su uno scenario continentale, ma l’Europa nei confronti delle altre potenze globali. Mutano i luoghi critici in cui la società afferma le proprie priorità e i propri valori e gli attori in grado di influenzare questo processo: non più le ideologie, le religioni o le Chiese, ma il mercato e in particolare l’apparato tecnocratico della Silicon Valley e dei new media, con i suoi potenti mezzi, la sua visione di progresso e il suo ambiguo paternalismo.

In fin dei conti, la democrazia cambia perché è lo specchio di una cultura che sta anch’essa mutando. Da un punto di vista storico questo è semplicemente normale, o addirittura sano: sono i sistemi assolutistici e dittatoriali che resistono a ogni cambiamento cercando di rimanere uguali a se stessi, a costo di qualsiasi anacronismo, fino a che un evento traumatico – una rivoluzione cruenta o la morte del dittatore – li conduce a una fine improvvisa. La capacità della democrazia di mutare potrebbe essere la chiave per la sua permanenza, in forme diverse ma continuando in modo nuovo a salvaguardare i valori di libertà e uguaglianza da cui nasce. E il cambiamento è tutt’altro che finito. La nuova svolta, dopo quella dei social media, è già alle porte: l’irruzione dell’intelligenza artificiale e degli algoritmi non solo nel mondo dell’economia e della produzione, ma come veri e propri attori sociali, con una ulteriore ridefinizione delle dinamiche di formazione e aggregazione del consenso. Sapremo riconfigurare la democrazia in un’epoca che altrimenti potrebbe risultare drammaticamente simile alle peggiori distopie del secolo scorso?

Può esistere una democrazia senza popolo?

Gli ambiti di questo cambiamento culturale sono molti, e così le spie del suo avanzare, che per chi ha vissuto la democrazia del XX secolo sono altrettanti fattori di disorientamento, se non di vero e proprio scandalo. In questi anni sulle pagine di Aggiornamenti Sociali, negli editoriali e non solo, vi abbiamo dedicato più volte attenzione, e continueremo a farlo. Non è certo possibile condurre qui un’analisi dei profondi mutamenti culturali, antropologici e tecnologici che stiamo vivendo, dalla globalizzazione economica a quella di una cultura a base individualista, da un modello di società fondato sui consumi agli effetti delle nuove tecnologie sul modo in cui le persone entrano in relazione con il mondo. Non possiamo qui che limitarci a qualche spunto parziale, che si concentra sulle dinamiche della comunicazione, in particolare politica.

 

Che cosa succede alla democrazia quando, tra globalizzazione, individualismo, pragmatismo e frammentazione dei circuiti comunicativi, la gente non si riconosce più come parte di una comunità?

 

Un primo elemento distintivo del nostro tempo è il primato della concretezza rispetto alle teorie, i principi e i valori. È il portato della fine delle ideologie, con il corollario di una sostanziale indifferenza a quelle che un tempo sarebbero state percepite come contraddizioni. Senza problemi oggi si afferma una cosa e poco dopo il suo contrario, i nemici giurati diventano alleati e gli alleati nemici giurati. La parola, sempre portata all’eccesso per motivi di campagna elettorale, non è espressione di convinzioni profonde e non impegna: l’importante è ciò che si fa, o meglio ciò che si annuncia di fare. Da qui passaggi che ad alcuni paiono surreali, ma che ad altri non pongono assolutamente problema.

 

Un secondo elemento è la perdita di valore dei fatti come ancoraggio argomentativo e della verità, sempre più frammentata e “personalizzata”, ridotta a una delle tante opinioni tra cui ciascuno sceglie sulla base di una consonanza emotiva e non della solidità di un’argomentazione. È il fenomeno per cui è stato coniato il termine post-verità e che riguarda l’incapacità di avere a che fare con un mondo che appare come troppo complesso, tra l’altro senza disporre di tutte le informazioni rilevanti. La semplificazione risulta così allettante e chi è capace di proporla (o “venderla”) ne risulta avvantaggiato.

Cambia così radicalmente il tenore del discorso politico: l’argomentazione razionale, arma ormai spuntata, è sostituita dalle tecniche comunicative di gestione del consenso, che obbligano però i leader politici a essere anche “follower”, a inseguire gli umori dell’opinione pubblica, fornendo ai sostenitori da compiacere una narrazione “senza tentennamenti o compromessi”, a prescindere dal suo grado di realtà. Complici anche gli strumenti tecnologici utilizzati, questa modalità comunicativa produce circuiti chiusi, al cui interno circola una sola opinione, quella gradita a chi ascolta e per questo veicolata da chi parla, svuotando lo spazio pubblico come luogo di confronto fra posizioni diverse.

L’intersecarsi di queste dinamiche impatta pesantemente sulla fisionomia e l’identità di quel soggetto collettivo – il popolo – a cui la democrazia rimanda fin dal suo etimo. La democrazia del XX secolo funzionava in presenza di un popolo strutturato, attraversato da relazioni profonde al cui interno prende vita una grande varietà di formazioni sociali o corpi intermedi, originando una trama istituzionale che continuamente aggrega la pluralità delle posizioni e degli interessi individuali, mediandoli progressivamente a livelli sempre più elevati. È questa trama – a cui rimanda l’art. 2 della Costituzione italiana – che sostiene la democrazia rappresentativa e i suoi meccanismi di funzionamento. Che cosa succede alla democrazia quando, tra globalizzazione, individualismo, pragmatismo e frammentazione dei circuiti comunicativi, la gente non si riconosce più come parte di una comunità? Non può certo bastare l’invocazione retorica della solidarietà, che oggi dobbiamo pensare più come un punto di arrivo che come una base di partenza dei processi sociali: il popolo come soggetto collettivo è qualcosa da costruire, garantendo che ciascuno vi trovi il proprio spazio. Altrimenti del termine si approprierà chi si pensa investito del ruolo di interprete della volontà popolare, e quindi zittirà e cercherà di espellere tutti coloro che non la pensano come lui. È il destino del popolo in tutti i regimi dittatoriali.

I ruoli dei cattolici

Il mutamento dello scenario investe inevitabilmente anche i cattolici italiani, che con i connazionali condividono il senso di smarrimento, la fatica a riconoscersi come popolo e si confrontano con proposte identitarie che si presentano forti del fascino della semplificazione, ancor più quando non hanno scrupoli a brandire simboli religiosi, anche al di fuori di un legame con la vita delle comunità cristiane e con i responsabili ecclesiali, di cui addirittura si ergono a giudici. Non giova probabilmente alla Chiesa italiana l’eredità di un periodo in cui, nel tentativo o nell’illusione di continuare a “contare” sullo scenario politico, è stata coltivata un’alleanza con chi proponeva un’interpretazione culturale e identitaria del cristianesimo, riducendolo alla battaglia su alcuni valori di bandiera anziché farne risaltare la carica profetica in termini di elaborazione di alternative. L’esibizione ostentata del rosario da parte del leader leghista Matteo Salvini segna – probabilmente e auspicabilmente – il punto finale di questa parabola, giacché dimostra come essa conduca allo svuotamento del simbolo di ogni rimando a una cultura ispirata al Vangelo e quindi al suo asservimento alle logiche del potere mondano.

 

I cattolici italiani si confrontano con proposte identitarie che si presentano forti del fascino della semplificazione, ancor più quando non hanno scrupoli a brandire simboli religiosi

 

Ma il cambiamento dello scenario non fa venire meno la responsabilità dei cattolici, che al suo interno continuano a essere chiamati a giocare il loro ruolo, anzi meglio, i loro ruoli. All’interno della base popolare strutturata della democrazia del XX secolo aveva probabilmente senso parlarne al singolare: i cattolici potevano ben rappresentare una componente della società, legati da un intreccio di rapporti con tutte le altre. Lo dice bene l’immagine ormai proverbiale di don Camillo e Peppone: l’uno non può fare a meno dell’altro, e il paese di Brescello perderebbe la propria identità se mancasse uno dei due. Oggi, di fronte alla “evaporazione” del popolo e al rischio di vederlo assorbito in proposte identitarie di parte, occorre valorizzare la pluralità di ruoli che i cattolici ricoprono, non solo in riferimento allo schieramento politico, ma soprattutto rispetto ai processi sociali in cui il Paese esprime la propria vitalità. Questa pluralità di ruoli spazia dalle voci profetiche che esprimono una critica radicale in nome di un primato della carità che non può chiudere gli occhi di fronte a limiti e contraddizioni, e per questo risulta inevitabilmente scomoda, allo sforzo di chi si impegna per costruire legami e ponti, favorendo il dialogo e la coesione, anche a costo di essere bersagliato dalle critiche degli intransigenti, alla tenacia di chi con lo stile di vita e il modo di essere cittadino, imprenditore o lavoratore continua a praticare la ricerca del bene comune anche in un contesto di frammentazione e di individualismo che ha smarrito il significato di questo termine. Anzi, proprio nello scenario dell’insoddisfazione per la democrazia, il bene comune può rivelarsi un concetto assai più radicale e profetico di quanto si potesse sospettare qualche decennio fa, a condizione di saperne rendere accessibili la ricchezza e la profondità agli uomini e alle donne del nostro tempo.

 

Così, con un gioco di parole, possiamo affermare che il ruolo dei cattolici oggi è avere molti ruoli, e continuare a farli interagire, all’interno della comunità cristiana e ancora di più con le altre componenti sociali di diversa ispirazione. Un modo per farlo è praticare sempre più quello stile sinodale che la Chiesa sta assumendo in questi ultimi anni al proprio interno e verso l’esterno, che diventa testimonianza creativa di come sia possibile tenere insieme la pluralità senza ridurla all’uniformità. Un altro modo è favorire un autentico dialogo intergenerazionale, che permetta ai più giovani di interrogare l’esperienza dei più anziani, in primis quella politica e democratica, a partire dalle domande della società di oggi, e ai più anziani di trasferire la loro esperienza in modo che risulti vitale e permetta di tradurre e rendere oggi comprensibile un patrimonio che altrimenti andrebbe perduto. Se questo dialogo avrà successo, le tante figure che nel passato hanno testimoniato l’impegno politico dei cattolici – da don Milani a Dossetti, da De Gasperi a Moro, per citare solo alcuni dei tanti nomi – rimarranno fonte di ispirazione senza ridursi a santini sbiaditi. Giocare consapevolmente ruoli diversi – a ciascuno il suo –, ma farli interagire in modo fecondo consentirà di offrire narrazioni alternative a quella dominante, andando così a modificare il tono del discorso pubblico. Gli esempi non mancano: basta pensare a tutte quelle comunità che, contro ogni stereotipo, hanno scoperto che l’accoglienza o la cura della casa comune costano fatica, ma producono frutti anche per chi le pratica.

Esperimenti di democrazia futura

Le narrazioni alternative nascono quando le cose non seguono il corso che sembrava inevitabile. Contro le attese dei più pessimisti, almeno per questa volta la pur fragile e avvilita democrazia italiana è riuscita a trovare un antidoto contro la pretesa inequivocabilmente totalitaria di chi chiedeva per sé e la propria compagine “pieni poteri”, spacciandosi per unica voce legittima di un popolo che invece resta plurale. Ovviamente nulla garantisce che andrà sempre così: potremmo trovarci di fronte a un ultimo lampo di un passato glorioso, ma ormai prossimo allo spegnimento, così come all’apparire dei primi anticorpi a difesa della democrazia di fronte alla forma contemporanea dell’assolutismo.

Non è possibile dare oggi una risposta netta, ma qualche elemento di speranza è legittimo raccoglierlo, guardando alla vicenda della Brexit e anche a quella che ha condotto al termine del Governo gialloverde. La campagna referendaria della Brexit è probabilmente l’archetipo dei limiti e dei rischi a cui la democrazia è esposta nell’epoca della post-verità. I fautori dell’uscita del Regno Unito dalla UE hanno bombardato il Paese con una propaganda illusoria, promettendo che uscire sarebbe stato facile come bere un bicchier d’acqua e che l’Unione Europea avrebbe accettato qualsiasi condizione posta dal Regno Unito, per il quale si sarebbe aperta una nuova età dell’oro. Ma oggi la realtà, che era stata decostruita e ricostruita ad arte dalla propaganda, presenta il conto e i fautori della Brexit non sanno come uscire dal castello di illusioni e di menzogne che loro stessi hanno costruito, e rischiano di trascinare l’intero Paese in un baratro. Nei circuiti chiusi della comunicazione politica al tempo dei social media (quelli che i tecnici chiamano echo-chambers e filter bubbles) si può anche rimanere imprigionati. Qualcosa di simile spiega forse la caduta del primo Governo Conte, che secondo alcuni osservatori arriva nel momento in cui la morsa della realtà inizia a mettere alle corde il castello delle promesse della campagna elettorale permanente di Matteo Salvini, in particolare per quanto riguarda la flat tax. Di qui il tentativo estremo di forzare la realtà ad adeguarsi alle promesse (ottenendo i famosi “pieni poteri”) o di liberarsi del problema uscendo dalla compagine governativa.

 

Abbiamo bisogno di scoprire le modalità per inculturare la democrazia nel mondo dei social network e dell’intelligenza artificiale

 

Viste in questa luce, le scelte politiche che il secondo Governo Conte è chiamato ad assumere, dalla manovra economica a un nuovo approccio alle questioni migratorie, da un diverso e più costruttivo rapporto con l’Unione Europea e gli altri Stati membri alle tante riforme di cui il Paese ha bisogno, pur importantissime, non sono la principale posta in gioco per il Paese. Saprà questo Governo e soprattutto la maggioranza che lo sostiene svelenire il clima, in modo che sia possibile dare il via a un esperimento di democrazia del nostro tempo? Sapremo noi cittadini fare la nostra parte, imparando a far dialogare le differenze anche all’interno dello scenario della post-verità, uscendo dalle bolle e dalle seduzioni del marketing delle emozioni? Aver sperimentato quanto forti e attraenti siano le pulsioni totalitarie ci dice quanto sia vitale riuscirci.

 

Per farlo non basta e probabilmente nemmeno serve tirare fuori dalla naftalina un doppiopetto e rispolverare un lessico “classico”, che appariranno inevitabilmente datati. Né è sufficiente allearsi “contro”, quando ci sono un nemico chiaro o un pericolo evidente. Piuttosto abbiamo bisogno di scoprire le modalità per inculturare la democrazia nel mondo dei social network e dell’intelligenza artificiale, traducendo in una nuova lingua quello che esperienze di cui andiamo giustamente fieri ci hanno insegnato essere importante e controbilanciando in questo modo le narrazioni “tossiche”, che negano al passato collettivo che ci unisce qualunque valore per provare a sedurci con promesse di novità mirabolanti. Che siano d’accordo o no con le politiche che questo Governo porterà avanti, le persone, i gruppi e le realtà associative che ancora nutrono la passione per la democrazia – e sappiamo che in Italia non mancano – non potranno negare il proprio apporto a un progetto che mira a rivitalizzarla.

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