Lo scandalo degli abusi nella Chiesa ha fatto emergere un atteggiamento clericale e un gerarchicismo che necessitano di essere radicalmente trasformati a favore di una cultura della vulnerabilità, che metta al primo posto la fragilità delle persone, a immagine di Dio.
James F. Keenan è un gesuita, docente di Teologia morale al Boston College. Nel 2002, insieme ad altri 57 sacerdoti della Diocesi di Boston, firmò una dichiarazione in cui si chiedevano pubblicamente le dimissioni del cardinale e allora arcivescovo Bernard Law, per le sue gravi responsabilità in relazione ai numerosi casi di abuso sessuale commessi da sacerdoti. Anche negli anni successivi padre Keenan si è occupato di questa piaga.
In questo articolo pubblicato sul numero di agosto-settembre di Aggiornamenti Sociali - che in sostanza riproduce una conferenza tenuta al Centro San Fedele di Milano il 28 maggio scorso -, dopo avere ricostruito le prime due ondate di scandali, nel 1985 e nel 2002, l’autore si sofferma sulla terza e più recente ondata, sulle sue cause e sui possibili rimedi.
Pubblichiamo qui la parte centrale del suo intervento, disponibile integralmente
a questo link.
La terza ondata: i vescovi e il gerarchicismo
Siamo ora nel pieno di una terza ondata della crisi, iniziata nel 2018, che conduce a una diversa fonte di preoccupazione. Gli scandali più recenti infatti si concentrano non più sui sacerdoti che hanno commesso abusi, ma sui vescovi, come nei casi dei cardinali George Pell, Ted McCarrick, Philippe Barbarin e Donald Wuerl, dell’arcivescovo Robert Finn, dei vescovi cileni, del vescovo indiano Franco Mulakkal e molti altri. Credo però che sarebbe un errore descrivere questi casi con il concetto di “clericalismo” e che sia più appropriata la definizione che ho elaborato di
gerarchicismo, un neologismo che identifica la cultura del potere esclusivo dell’episcopato. La cultura della gerarchia è persino più problematica e sconosciuta della cultura clericale, ma come il clericalismo differisce da una cultura che promuove il sacerdozio di servizio, allo stesso modo il gerarchicismo è lontano dalla cultura che promuove l’episcopato di servizio.
È ben noto a molti membri del clero che i percorsi formativi dei futuri vescovi sono molto diversi da quelli dei sacerdoti. Essi infatti non compiono la maggior parte dei loro studi teologici nei seminari locali o regionali, ma sono inviati a Roma per studiare teologia e lì vengono esaminati. Nelle università romane viene loro offerta una serie di “lusinghe” gerarchiche che non sono riservate alla maggior parte dei sacerdoti, come cene e incontri con vescovi in visita e rapporti di stretta confidenza con le gerarchie ecclesiastiche. I futuri vescovi vengono selezionati per far parte di un altro club.
Il gerarchicismo è al centro del più recente scandalo di abusi sessuali, come il clericalismo è stato l’origine degli scandali del 2002. Ora è evidente quanto la cultura gerarchica abbia esercitato il suo potere e abbia usato le sue reti per occultare le proprie azioni. Ciò che soltanto ora stiamo cominciando a comprendere è che il gerarchicismo, con la sua mancanza di trasparenza e la sua impunità d’azione, sarà più arduo da smantellare rispetto al clericalismo e ne garantirà la sopravvivenza, poiché il primo è il padre e il promotore del secondo.
Alla luce della terza ondata, credo che la consapevolezza dell’esistenza di questa cultura episcopale, che non consiste nel ministero di servizio, stia già avendo delle ripercussioni. Quando, nel 2004, Giovanni Paolo II nominò il cardinale Law arciprete della Basilica di Santa Maria Maggiore, nonostante i suoi stessi sacerdoti ne avessero pubblicamente richiesto le dimissioni, si trattò di una vera e propria espressione del gerarchicismo; oggi, nel 2019, sarebbe impossibile immaginare che un tale “premio di consolazione” possa essere assegnato a un qualsiasi vescovo, arcivescovo o cardinale reo di simili negligenze, bugie, insabbiamenti o gravissimi abusi di potere.
La cultura della vulnerabilità
In alternativa al clericalismo e al gerarchicismo, vorrei proporre una cultura della vulnerabilità, che è imprescindibile, a mio parere, per realizzare un sacerdozio e un episcopato di servizio e che invece nel dramma degli abusi è stata completamente ignorata dal clero e dalle gerarchie. C’è in questo un’ironia profonda e piena di grazia, poiché in questo scandalo il nostro clero e le gerarchie hanno ignorato proprio la vulnerabilità.
La teologia, la filosofia e l’etica stanno approfondendo il concetto di vulnerabilità, e questo potrà essere di grande aiuto alla vita della Chiesa in risposta agli scandali. Nel 2005, il teologo morale irlandese Enda McDonagh ha presentato la teologia della vulnerabilità nel volume Vulnerable to the Holy: In Faith, Morality and Art. Egli inizia il suo trattato a partire non dall’umano, ma da Dio, che ci rivela la sua vulnerabilità attraverso la nascita di Gesù a Betlemme, la sua vita a Nazareth e la sua morte sul Golgota. Pertanto, essere creati a immagine di Dio significa essere creati vulnerabili.
Pensare a Dio come vulnerabile è un assunto teologico assai importante poiché diventando “vulnerabili al Santo”, cioè accettando la grazia di essere aperti all’Altro e agli altri, si è stimolati a cercare la vulnerabilità di Dio nelle Scritture. Nel Vangelo di Luca, le parabole del Padre misericordioso e del buon Samaritano ci offrono una rappresentazione della vulnerabilità di Dio. Per comprenderla meglio, vorrei approfondirne ulteriormente il concetto e poi fare una distinzione tra precarietà e vulnerabilità.
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