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Il valore del tempo nell’era dell’immediatezza

Intuitivamente sappiamo che non è possibile vivere senza spingere il nostro sguardo oltre l’orizzonte immediato di ciò che ci attende, perché è naturale rivolgerci al futuro, sognare e progettare, facendo i conti – quando vi è una sana dose di realismo – con l’inevitabile incertezza che non tutto si svolgerà come speriamo. Eppure questa consapevolezza, fondamentale e vitale, oggi si rivela particolarmente fragile. Si tratta di una fragilità diversa da quella che incontriamo nelle culture in cui la lingua per prima segnala la difficoltà di pensare al futuro, al punto che non esiste il corrispondente modo verbale. È così, ad esempio, per tanti dialetti del Mezzogiorno, in cui si vive immersi in un eterno presente, come diceva Leonardo Sciascia riferendosi al siciliano. In questi casi, la distinzione tra l’oggi e il domani non è netta, ma non è neanche rimossa. Si guarda al futuro con circospezione, ridimensionando le attese per proteggersi dalla disillusione, e preparandosi comunque ad affrontarlo – sforzandosi di non scivolare nel fatalismo – proprio perché viene percepito come prossimo, una dimensione con cui è impossibile non confrontarsi.

Oggi, invece, fatichiamo a riconoscere proprio questa distanza temporale che insieme distingue e mette in relazione presente, passato e futuro. Più che allontanare il futuro dal nostro orizzonte per non pensarci, lo abbiamo “incollato” al presente, schiacciati da un oggi totalizzante e asfissiante, come sintetizzato in modo efficace già nel 2017 dal 51º Rapporto Censis. Inoltre, troppo spesso viviamo in una condizione di “smemorati”, che ci fa dimenticare la nostra storia. Ma così il tempo non riesce più a svolgere la sua funzione creativa e generatrice: questo atteggiamento rischia di sradicarci dalla realtà in cui viviamo e di portarci al di fuori del tempo, ripiegati su noi stessi.

Diversi indizi indicano che ci concentriamo sempre più spesso sul presente in modo distorto, ben lontano da quella sapienza che invita a vivere appieno il singolo giorno, nel solco di una storia che lo precede e rivolto verso il futuro, senza svuotarlo della sua reale consistenza. Ne passeremo in rassegna alcuni, per poi spingerci a considerare alcuni spunti utili per sottrarsi alla morsa di un presente sempre incombente e che fagocita tutto, dal piano personale a quello collettivo e, più in generale, a livello sociale.

Il primato dell’urgenza

Un primo tratto si impone all’attenzione: l’urgenza, che è divenuta pervasiva. Viviamo in una sorta di ingiunzione esplicita o inconscia alla reazione in tempo reale agli avvenimenti, alla risposta immediata a una richiesta. Lo sperimentiamo sia nella sfera privata sia in quella pubblica: in entrambe, l’urgenza diventa l’espressione massima di ciò che è importante e, di riflesso, dà importanza a quanti sono chiamati a risolverla. In questo modo, però, possono finire nel dimenticatoio questioni rilevanti e non contingenti, che possono anche essere urgenti, ma che non vengono percepite o presentate come tali in alcune narrazioni, come nel caso dei cambiamenti climatici.

Nelle relazioni personali, nel contesto lavorativo, all’interno dei mondi associativi in cui siamo inseriti, la corsa continua da un impegno all’altro e la velocità che ci aspettiamo nelle comunicazioni sono due indicatori significativi di quanto abbiamo assimilato il “pensare secondo l’urgenza”. Anche sul fronte dell’informazione assistiamo a una vorticosa successione di “notizie del giorno”, spesso accompagnate da strascichi polemici, che per poco tempo oscurano ogni altro avvenimento monopolizzando i mezzi di comunicazione, a cui compulsivamente ci rivolgiamo per paura di non essere abbastanza “sul pezzo”, tanto da cadere, in taluni casi, nell’ansia sociale nota come “FOMO”, in inglese fear of missing out, che riflette la paura di essere tagliati fuori dal presente. Questo, ovviamente, finché non si impone un’altra questione più urgente che fa scivolare la precedente in secondo piano.

Agire rincorrendo l’urgenza del momento è divenuta anche la cifra di buona parte della politica, che insegue le varie emergenze man mano che si profilano non solo dal punto di vista comunicativo ma anche sul piano della tecnica normativa. Da tempo gli esperti denunciano l’uso distorto dei Decreti legge da parte dei Governi, incluso quello attuale, che per calcoli politici hanno progressivamente allargato le clausole di necessità e urgenza previste dalla Costituzione come limiti per il loro utilizzo. In questo modo hanno finito per snaturare la funzione originaria di questi provvedimenti, imponendo al Parlamento tempi brevi per affrontare temi in alcuni casi molto complessi, che richiederebbero tempistiche ben diverse per considerarne le cause e le soluzioni possibili da adottare. Eppure, pressati dall’urgenza, è facile barattare lo sguardo attento a ciò che precede le nostre decisioni e a ciò che comporteranno con la prima soluzione possibile, perché sembra che non ci sia tempo per fare altrimenti!

Una stanchezza divenuta cronica

Si può individuare in questa accelerazione una delle cause all’origine della stanchezza che tanti confessano di sperimentare nel portare avanti le attività quotidiane, al punto da far pensare che sia divenuta quasi una condizione cronica. Non si tratta, infatti, della sensazione positiva ed entusiasmante che si genera quando ci si impegna per realizzare qualcosa di autentico e significativo per sé e per gli altri, ma la percezione di essere prigionieri dell’eterna ripetizione di quanto già fatto, incapaci di metterlo in discussione o impauriti all’idea di farlo.

Non ci prendiamo allora il tempo necessario per rileggere un’esperienza vissuta, valutando se sia stata vitale e generativa o meno, in modo tale che sia possibile introdurre modifiche e adattamenti per le azioni future o porvi fine, quando si constata che non risponde più a un bisogno o a un desiderio. Da questo approccio derivano due corollari: si procede replicando automatismi ereditati e ritenuti ancora validi, determinando una progressiva sterilità nella capacità di leggere la realtà e di proporre idee e soluzioni innovative; è necessario un enorme dispendio di energie, che però non indirizzandosi verso qualcosa di vivo, finisce con l’andare sprecato. Da qui il senso di vecchio e di immobilità che si respira nella società, che si infiltra in tutti i nostri ragionamenti e discorsi e inevitabilmente conduce a una presa di distanza dalla realtà, a una sorta di indifferenza, a un calo della partecipazione e dell’impegno. Nessuno è immune da questo rischio, indipendentemente dall’età e dalla formazione ricevuta, dai contesti in cui è cresciuto e dalle scelte che ha compiuto in precedenza. Al contempo – e questa è la buona notizia – questa condizione non è ineluttabile ed è palpabile nelle persone il desiderio di scrollarsi d’addosso questa percezione di stagnazione, lottando per trovare piste su cui lavorare e possibilità da esplorare, nonostante gli ostacoli e gli inciampi.

Le figure rimosse che ci parlano del futuro

C’è una questione che ci aiuta a prendere consapevolezza di quanto sia forte il rischio di restare schiacciati in un presente asfittico: le migrazioni. Da tempo domina il dibattito politico in Italia e in Europa, spesso in modo superficiale, senza che le politiche fin qui messe in atto siano state in grado di dare risposte serie e concrete a un fenomeno che ha cause complesse e non è destinato a esaurirsi nel breve tempo (cfr Riggio G., «Migranti: è ora di cambiare prospettiva», in Aggiornamenti sociali, 4 [2023] 219-223).

Proprio il nostro rapporto con il fenomeno migratorio ci rivela la difficoltà che come società stiamo attraversando nel vivere in modo positivo il presente e il suo articolarsi con il passato e il futuro. Il presente degli arrivi dei migranti suscita timore in parte della popolazione, un timore invocato per giustificare politiche di chiusura, ma che nel contempo dimentica il nostro passato di popolo di migranti (e anche il nostro presente, visti i dati dell’emigrazione dei giovani), che potrebbe aiutarci ad avere uno sguardo diverso e più prossimo. Inoltre, restano confinate ai margini le considerazioni su come questo fenomeno può essere un aiuto per proiettarci verso il futuro, per affrontare temi delicati come il calo demografico o per favorire un arricchimento della nostra cultura.

In modo significativo si coglie il cortocircuito in cui siamo immersi nel momento in cui scegliamo di ignorare le storie di queste persone, il loro passato: non ci interessa sapere perché hanno lasciato il loro Paese, come se prima di giungere in Italia non avessero avuto una vita, o almeno una vita degna di essere conosciuta. Così come non riconosciamo i migranti come i migliori ambasciatori possibili del futuro, perché solo chi crede in modo strenuo nella possibilità di un futuro diverso e migliore per sé e per i propri figli riesce a trovare la forza per intraprendere i viaggi disumani lungo le rotte migratorie di terra e di mare, che ci descrive Mattia Ferrari, cappellano di Mediterranea Saving Humans, qui alle pp. 463-471. Sono figure di resistenti contro una logica dominante che rinchiude nel presente, confinati nella condizione in cui si trovano, al pari di quanti – giovani, donne, disoccupati, scartati della società – non si arrendono al perpetuarsi dello status quo, fortemente condizionato dal modello neoliberista, ma lottano per realizzare un cambio atteso e ricercato a livello personale e sociale.

Una memoria condivisa perché vi sia un domani

Ripartire da figure ed esperienze di questo tipo, che evocano l’«ostinata resistenza di ciò che è autentico» (papa Francesco, Laudato si’, n. 112) e meritano di essere conosciute e fatte conoscere, è un primo passo per sottrarsi all’appiattimento sul presente e alle conseguenze che ne derivano. Ma possiamo fare anche un ulteriore passo, tanto a livello personale quanto collettivo, prendendo spunto dal fatto che il rapporto tra passato, presente e futuro si gioca sul piano delle relazioni, sul passaggio di testimone tra chi ci ha preceduti e quanti verranno dopo. Se la nostra conoscenza e consapevolezza del passato da cui proveniamo sono parziali, perché si è fatto appello ad alcune narrazioni, ignorandone aprioristicamente altre, allora trasformiamo il passato in un ostacolo e non in una risorsa. Solo una memoria condivisa, in cui confluiscono e si integrano più esperienze – anche attraverso il doloroso passaggio del riconoscimento delle divisioni in vista di una riconciliazione – può porre le condizioni per costruire il futuro della società intera, di un’istituzione, di una comunità, di una persona. Un compito che si declina inevitabilmente al plurale e richiede la capacità e la prontezza di entrare in dialogo franco anche con compagni di viaggio forse inattesi.

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