Il ritorno dei CIE e la ricerca del consenso perduto

Maurizio Ambrosini
Mentre proseguono meritoriamente i salvataggi in mare, il primo atto del governo Gentiloni nel campo delle politiche dell’immigrazione, e segnatamente del nuovo ministro Minniti, parla chiaro. E parla direttamente alla pancia dell’opinione  pubblica, quella che ha riversato nel voto referendario disagio e rancore contro il governo Renzi. 

Minniti e il capo della polizia Gabrielli, sull’onda emotiva dell’attentato di Berlino, con una circolare di due pagine diretta a tutte le Prefetture e Questure d’Italia, hanno annunciato un giro di vite sulle espulsioni degli immigrati irregolari. Rilancio dei Centri di Identificazione ed Espulsione (CIE), uno per regione: dovranno risalire alla capienza di 1.600 posti complessivi. Promessa di raddoppiare le espulsioni: dalle attuali 5.000 all’anno a 10.000, forse a 20.000. Specifica allerta alle forze di polizia: nell’involuto linguaggio ministeriale, una sorta di invito al rastrellamento e alla deportazione, non senza nominare un’accresciuta pressione migratoria che non esiste. Il numero complessivo degli immigrati residenti in Italia è in realtà stabile. 

Colpisce soprattutto il collegamento tra immigrazione irregolare, illegalità e terrorismo. Il caso Anis Amri brucia, ma va ricordato che gli attentatori che hanno colpito in Europa erano quasi tutti cittadini o regolari residenti. Per di più, essendo ormai noto che le espulsioni falliscono anche per la mancata collaborazione dei Paesi di origine, Minniti ha annunciato pure un giro dell’Africa per prendere accordi con i governi locali, tra cui brillano svariati "campioni" di democrazia e rispetto dei diritti umani.

È purtroppo una svolta di marca trumpiana. È facile prendersela con gli immigrati irregolari, riecheggiando ansie e paure di una società sempre più fragile e impaurita. Espellerli sul serio implica però ingenti investimenti economici, dispiego di forze di polizia sottratte ad altri compiti, allestimento di strutture detentive costose e disumane (1.600 posti in tutta Italia sono comunque pochissimi), collaborazione di governi che non hanno nessun interesse a riprendersi i propri cittadini. Ma soprattutto rischia di essere controproducente, perché spinge chi non è in regola verso una maggiore clandestinità, allontanandolo da mense, dormitori, ambulatori del volontariato, da attività magari fastidiose ma innocue come l’elemosina. 

Si sta affacciando invece un problema vero, a cui il governo dovrebbe dare risposta: cosa fare dei richiedenti asilo che ricevono un diniego dopo i vari gradi di giudizio, ma ormai sono insediati in Italia da anni? Espellerli tutti non si riuscirà, costerà troppo e vanificherà gli investimenti nell’integrazione. Anche in questo caso, il mero annuncio di un impossibile "cattivismo" li spingerà verso la clandestinità e i circuiti dell’illegalità. Come ha proposto il prefetto Morcone, sarebbe meglio pensare a un permesso umanitario almeno per coloro che hanno dato prova d’impegno nell’inserimento, imparando l’italiano, partecipando ad attività socialmente utili, frequentando corsi di formazione, cercando e trovando lavoro.  Le espulsioni vanno mirate ai casi in cui servono effettivamente, non brandite al vento come una clava rivolta a un’improbabile ricerca del consenso perduto.
8 gennaio 2017
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